Beppe Sebaste: Intellettuali da marketing

21 Giugno 2007
Il cinema - mi ha detto tante volte Bernardo Bertolucci - significa ‟aprire gli occhi”. Che cosa vuol dire oggi aprire gli occhi? Che cosa vediamo? Io credo questo: un appiattimento, un'omologazione totale dei linguaggi e dei comportamenti, un dilagare di bruttezza e di indifferenza travestite da glamour e da moda, un proliferare di merci indistinguibili su un nastro scorrevole grande quanto il mondo, in un continuo presente senza futuro, tranne il futuro di questo presente.
In generale, un ottundimento morale ed estetico che favorisce ovviamente la passività politica, e che coinvolge la classe politica nel suo insieme: a smentire il nostro presunto bipolarismo, le parti politiche appaiono spesso oggi indistinguibili, in concorrenza tra loro (come si dice del mercato) più che in alternativa, rivali nel packaging delle idee piuttosto che portatrici di una diversa visione del mondo, di una diversa immaginazione. Del resto, pare che ragionino così: se le nostre idee non vendono (lo dicono i sondaggi) cambiamole, adottiamone una che vada incontro ai desideri della gente (‟facci sognare!”).
In generale, se riusciamo ad aprire gli occhi - il che non è scontato - ci rendiamo conto del generale stato di anestesia (che è il contrario di estetica) in cui versiamo; indifferenza non solo alla cultura, termine ormai sospetto ai più, ma alla bellezza e bruttezza.
Eppure, come sostiene il post-psicanalista James Hillman, ‟se i cittadini si rendessero conto della loro fame di bellezza, ci sarebbe ribellione per le strade”. Non è forse questa la cifra della rivolta delle banlieue, o di quell'inferno che prima o poi salirà fino a noi borghesi, come profetizzava Pasolini? Abbiamo rimosso molte parole - ‟comunismo”, ‟lotta di classe”, ora anche ‟sinistra” - eppure la rabbia, la conflittualità e le esclusioni aumentano, ma ci priviamo di strumenti per analizzarle, di occhi per descriverle. Forse la nuova lotta di classe non avverrà solo per le risorse primordiali di vita, ma per la bellezza, perché il risveglio della capacità di dare risposte estetiche è tutt'uno con quella di dare risposte politiche: come scriveva Edwaid Said, ‟un'intifada dell'immaginazione”.
Ma intellettuali, scrittori, cineasti, sono ancora capaci di aprire gli occhi? La spettacolarizzazione di festival e notti bianche culturali non compensa il dominio di storie rassicuranti e idiote, di prodotti seriali e televisivi, da Moccia a Muccino. Per ogni Saviano o Wu Ming o De Cataldo, se entrate in una libreria trovate torri, dall'ingresso alla cassa, di libri di intrattenitori televisivi, o di fabbricanti americani di trame. Avete provato a cercare un Calvino, o un Manganelli, o un poeta? (Perfino Gregory Corso, il grande beat, è introvabile). E si possono raccontare tanti aneddoti sul livore del pubblico, soprattutto giovanile, all'uscita di film italiani pregevoli e coraggiosi, o del tedesco Le vite degli altri (lo ha raccontato Natalia Aspesi sulla Repubblica). Io potrei raccontare la violenza percepibile negli spettatori all'uscita del messicano La battaglia del cielo, straordinario film che ha la caratteristica di non mostrare immagini patinate e innocue, né di offrire un lieto fine, ma di ferire lo spettatore con una magnifica, erotica inquietudine. Il contrario dell'anestesia.
Lontano anni luce non solo dal cliché dello scrittore impegnato, ma anche dalla ‟parte civile” di un Pier Paolo Pasolini, lo scollamento tra gli intellettuali e la politica ha assunto la forma salottiera di un marketing intellettuale, una banalizzazione delle idee che costituisce oggi il ‟pensiero da giornale” o da tv: una retorica grossolana fatta di ‟opinioni” che quanto più sono rozze e inconsistenti, tanto più il pensatore, pardon l'opinionista, si dà importanza gonfiandosi come soggetto dell'enunciazione (‟io, io”). Il quale, mimetico come un camaleonte, si compiace di occupare lo spazio dell'arte e del pensiero in un mondo senz'arte e senza pensiero. A fare e risvegliare la politica basterebbe, sì, aprire gli occhi, cioè aprire il linguaggio e le percezione. E infatti colpisce, nelle parole di Bernardo Bertolucci, il richiamo a un'epoca - gli anni Settanta - in cui ‟le parole, i libri, i film venivano percepiti in maniera che chiamerei sensuale. In quel clima di straordinaria tensione creativa e morale e politica (...) gli occhi della gente reinventavano quello che ricevevano, elaborandolo, allungandogli la vita, rilanciando”. Ma era appunto l'epoca - anni di carne, non anni di piombo - in cui la politica era dappertutto, anche nella vita privata. Tutto era politica, immaginazione, educazione.
L'ultima parola è la più importante. Oggi forse solo gli artisti - scultori, pittori, performer - sembrano all'altezza della drammaticità della sfida, e infatti l'arte contemporanea, nella sua ricerca più avanzata, coincide con una didattica dell'arte. All'anestetizzazione della vita politica (cioè della cittadinanza), alla vetrinizzazione sociale che ci trasforma tutti in clienti e consumatori, forse solo gli artisti sembrano consapevoli dell'intreccio tra ‟tensione creativa e morale e politica”, spezzano a volte una continuità soffocante, e con le loro ‟opere pubbliche” ci turbano e ci emozionano e ci risvegliano risposte estetiche. Perché ‟l'opera d'arte è relazione”, come ha detto splendidamente un'artista, Gea Casolaro, che nel nodo tra estetica, città, ambiente e vita quotidiana svolge, come tanti altri, il suo lavoro e la sua educazione civica.
Se apriamo gli occhi vediamo il compimento, quasi la saldatura di quanto temeva l'ultimo degli intellettuali civili italiani, Pier Paolo Pasolini: la perfetta omologazione nella noia, nella passività, nella volgarità e nell'anestesia. Se i politici di professione, quelli di sinistra, hanno una responsabilità (e ce l'hanno) è soprattutto questa: di avere ristretto la sfera della politica, esiliando la vita degli altri. Perché politica, proprio come cultura, non significa solo governare. Politica significa, e soprattutto, immaginare.

Beppe Sebaste

Beppe Sebaste (Parma, 1959) è conoscitore di Rousseau e dello spirito elvetico, anche per la sua attività di ricerca nelle università di Ginevra e Losanna. Con Feltrinelli ha pubblicato Café …