Gad Lerner: In Libano tra i soldati italiani. "Quei razzi lanciati dal nulla"
21 Giugno 2007
Tante volte l’avevo guardata dalla parte israeliana questa frontiera insanguinata, la rete metallica dotata di telecamere che dal mare sale fino alle pendici del Golan. Mi tocca ora la sorte fortunata di percorrerla su una jeep con la bandiera dell’Onu, insieme ai soldati della patria che mi ha accolto, venuti a tutelare una pace precaria fra il Libano in cui sono nato e lo Stato ebraico dove s’è trasferita la gran parte della mia famiglia. È una strana emozione la gratitudine che provo qui, testimone del paradosso mediorientale. Quando il comandante generale della Folgore, Maurizio Fioravanti, mi mostra le rovine di Bent Jbail, teatro della battaglia più aspra dell’estate scorsa, e il carro armato israeliano trasformato in monumento alla resistenza Hezbollah, confesso che il primo pensiero è corso a Uri Grossman, il figlio di David e Michal, caduto qui l’ultimo giorno di guerra. Viene sempre istintivo dare un volto personale alla morte, anche se so bene che i caduti libanesi sono stati molti, molti di più. Le strade del Libano del Sud sono tappezzate dai ritratti dei martiri della guerra 2006, foto di ragazzi giovanissimi, poste accanto alle icone degli ayatollah Khomeini e Khatami e dello sceicco Nasrallah, il cui nome significa "vittoria divina".
Ho visitato la base di Tebnine del nostro contingente Unifil, composto in larga misura di paracadutisti, nella giornata di domenica, nel mentre che misteriosi provocatori lanciavano pochi chilometri più a est, su Kiryat Shmona, i primi razzi Katyusha dalla fine del conflitto. Pochi minuti dopo al Manar, la tv degli Hezbollah, respingeva categoricamente la paternità di quell’impresa. Una solerzia inedita che testimonia la tenuta di un equilibrio di cui i nostri caschi blu non sono solo i garanti, ma i protagonisti decisivi.
Come non capire che qui, e forse in tutto il Medio Oriente, senza di loro sarebbe un macello? «Ogni giorno che passa senza guerra - mi dice il generale Fioravanti - è un passo in avanti prezioso». Verso quale direzione?
Nelle bianche strutture prefabbricate dell’Unifil risiede con i militari un diplomatico di lungo corso, l’ex ambasciatore a Beirut, Giuseppe Cassini. Sempre in movimento, fine conoscitore della politica libanese, dicono sia l’unico che può permettersi di entrare in tutti i campi palestinesi: compreso il più grande e insidioso, Ain el-Heloue, nella periferia sud di Sidone, dove oggi si è verificata un’esplosione misteriosa che ha fatto due morti. Perché inevitabilmente la missione Unifil, di cui il generale Claudio Graziano ha assunto a Naqoura il comando multinazionale, è al tempo stesso forza d’interposizione militare e missione diplomatica delicatissima.
Al pranzo domenicale, seduto di fronte a noi, partecipa anche un alto ufficiale sciita dei servizi libanesi, considerato un eroe per le vite che ha salvato durante la guerra del 2006. È una novità decisiva la presenza nel Libano del sud di ottomila uomini dell’armata nazionale, impensabile prima del dispiegamento di Unifil. Non fa una piega quando brindo anche a chi vive dall’altra parte della frontiera. Ma quando gli chiedo quali rapporti intercorrano fra l’esercito regolare e i miliziani di Hezbollah, risponde con stupore e fierezza: «Ma Hezbollah qui e’ il popolo!».
Altro che patto segreto fra governo italiano e Siria, per far finta di non vedere il riarmo del Partito di Dio in cambio dell’incolumità dei nostri. I parà li vedono eccome quei ragazzini di sentinella, appostati spesso in edifici diroccati, oppure di corsa sui motorini per trasmettere ordini e informazioni. Ma fa sorridere l’idea che da queste parti si possa o si debba rifiutare il dialogo con Hezbollah, cioè con coloro che amministrano città e villaggi. Tutti i giorni, ci si deve parlare. Siamo forse venuti per fare la guerra?
L’esercito italiano partecipa alla ricostruzione, collabora con le Ong, ci sono ufficiali dei parà incaricati di studiare progetti per l’illuminazione stradale, lo smaltimento dei rifiuti, l’acqua potabile, disponendo pure di un budget per i primi stanziamenti. C’è un piano per costruire un ospedale a Qana, il villaggio tristemente famoso per una strage. Altrimenti la pace sarebbe inimmaginabile. L’odio non è rivolto contro i soldati dell’Onu, ma resta il sentimento dominante. La recita di fine anno della scuola di Tebnine prevedeva bambini vestiti da miliziani che travolgevano altri bambini avvolti in bandiere israeliane.
Il mandato dell’Unifil è chiaro. Sta scritto nella risoluzione Onu, non nell’andreottismo della politica estera italiana, che la sorveglianza della frontiera siriana della Bekaa - quella da cui filtrano le armi e i combattenti jihadisti - sia delegata all’esercito libanese. Il quale non può andare oltre qualche arresto dimostrativo ogni tanto. È la triste realtà dei rapporti di forza.
La polemica sul patto maledetto fra il ministro D’Alema e il siriano Assad, rilanciata dal giornale israeliano Haaretz, è una cortina fumogena che cela il dilemma in cui si dibatte l’intera diplomazia internazionale: sarà mai possibile una stabilità nella regione prescindendo dagli interessi strategici di Damasco? Del resto sono testimone dell’incoraggiamento discreto venuto nel dopoguerra dallo stesso governo israeliano alle cancellerie di Roma e Berlino affinché dialogassero con la Siria nel tentativo di separarla dall’Iran.
Qui a sud del fiume Litani e del castello crociato di Beaufort, l’Unifil gioca una partita a tre con Israele e gli Hezbollah. Deve scommettere sul loro contenimento, perché il disarmo è una parola d’ordine per soli propagandisti di guerra.
Certo noi che veniamo da fuori apprendiamo con stupore la considerazione che i comandanti Unifil, così come molti democratici libanesi antisiriani, manifestano per la leadership di Hezbollah. Parlano dello sceicco Nabil Qaouq, responsabile di Hezbollah per il sud Libano, ma anche dei sindaci di Bent Jbail, Tebnine, Tiro, come di politici affidabili. Riconoscono in loro la duttilità della rinomata scuola diplomatica iraniana. Allo stesso modo ho udito a Beirut parole d’elogio per la moderazione, lo humour e l’abilità tattica di Nasrallah. Non significa che siano degli stinchi di santo, ma significa che oggi con loro bisogna trattare, pena il disastro. Me l’ha confermato oggi a Beirut anche il vecchio saggio Ghassan Tueni, massima autorità intellettuale del Libano laico, editore del quotidiano An-Nahar, che pure ha avuto il figlio ucciso in un attentato: «Gli Hezbollah hanno una concezione anacronistica dello Stato che somiglia alla Repubblica di Platone, il potere dei filosofi. Ma sanno bene che l’instaurazione di un potere islamico sul Libano è impossibile, passerebbe attraverso un bagno di sangue». Né si dovrebbe dimenticare perché ci troviamo in questa situazione: la temibile longa manus dell’Iran sul Mediterraneo è una creatura involontaria dell’apprendista stregone Ariel Sharon; s’è radicata grazie all’invasione israeliana del Libano. Una storia che non ha insegnato molto, visto il colpevole ritardo con cui giunge il riconoscimento americano di Abu Mazen e di una Anp umiliata da Hamas: fenomeno sunnita in tutto simile all’Hezbollah sciita.
Mentre al nord l’esercito libanese vive il suo battesimo del sangue nel campo palestinese di Nahr el-Bared, al sud si gioca a scacchi la sfida più pericolosa. Subendo l’infiltrazione di attori sconosciuti: nessuno sa davvero chi abbia lanciato i Katyusha su Israele da Taibeh, nella zona posta sotto la sorveglianza del comando spagnolo. «Credo non sia un caso che abbiano sparato da un luogo vicino al fiume Litani, ripiegando presumibilmente subito a nord. Perché se gli Hezbollah li acciuffassero, finirebbero sgozzati», confida il generale Fioravanti.
Foto di commiato con il basco della Folgore. Ripercorro il paesaggio struggente del Libano meridionale, fra gli ulivi e i wadi ripidissimi in cui si celano ancora i bunker degli Hezbollah, verso Nabatiye e Sidone, per raggiungere una Beirut impaurita che ha rinunciato alla sua vita notturna. Ha senz’altro ragione il generale Fioravanti quando sostiene che ogni giorno di pace quaggiù e’ una conquista. Purché la diplomazia internazionale faccia in fretta a sciogliere il suo dilemma: è possibile garantire al tempo stesso gli interessi vitali della Siria, la sicurezza d’Israele e la sovranità del Libano? Oppure si tratta di un’impossibile quadratura del cerchio? Si sbrighino a provarci perché altrimenti questa pace provvisoria non reggerà a lungo gli agguati di chi la subisce come una minaccia.
Ho visitato la base di Tebnine del nostro contingente Unifil, composto in larga misura di paracadutisti, nella giornata di domenica, nel mentre che misteriosi provocatori lanciavano pochi chilometri più a est, su Kiryat Shmona, i primi razzi Katyusha dalla fine del conflitto. Pochi minuti dopo al Manar, la tv degli Hezbollah, respingeva categoricamente la paternità di quell’impresa. Una solerzia inedita che testimonia la tenuta di un equilibrio di cui i nostri caschi blu non sono solo i garanti, ma i protagonisti decisivi.
Come non capire che qui, e forse in tutto il Medio Oriente, senza di loro sarebbe un macello? «Ogni giorno che passa senza guerra - mi dice il generale Fioravanti - è un passo in avanti prezioso». Verso quale direzione?
Nelle bianche strutture prefabbricate dell’Unifil risiede con i militari un diplomatico di lungo corso, l’ex ambasciatore a Beirut, Giuseppe Cassini. Sempre in movimento, fine conoscitore della politica libanese, dicono sia l’unico che può permettersi di entrare in tutti i campi palestinesi: compreso il più grande e insidioso, Ain el-Heloue, nella periferia sud di Sidone, dove oggi si è verificata un’esplosione misteriosa che ha fatto due morti. Perché inevitabilmente la missione Unifil, di cui il generale Claudio Graziano ha assunto a Naqoura il comando multinazionale, è al tempo stesso forza d’interposizione militare e missione diplomatica delicatissima.
Al pranzo domenicale, seduto di fronte a noi, partecipa anche un alto ufficiale sciita dei servizi libanesi, considerato un eroe per le vite che ha salvato durante la guerra del 2006. È una novità decisiva la presenza nel Libano del sud di ottomila uomini dell’armata nazionale, impensabile prima del dispiegamento di Unifil. Non fa una piega quando brindo anche a chi vive dall’altra parte della frontiera. Ma quando gli chiedo quali rapporti intercorrano fra l’esercito regolare e i miliziani di Hezbollah, risponde con stupore e fierezza: «Ma Hezbollah qui e’ il popolo!».
Altro che patto segreto fra governo italiano e Siria, per far finta di non vedere il riarmo del Partito di Dio in cambio dell’incolumità dei nostri. I parà li vedono eccome quei ragazzini di sentinella, appostati spesso in edifici diroccati, oppure di corsa sui motorini per trasmettere ordini e informazioni. Ma fa sorridere l’idea che da queste parti si possa o si debba rifiutare il dialogo con Hezbollah, cioè con coloro che amministrano città e villaggi. Tutti i giorni, ci si deve parlare. Siamo forse venuti per fare la guerra?
L’esercito italiano partecipa alla ricostruzione, collabora con le Ong, ci sono ufficiali dei parà incaricati di studiare progetti per l’illuminazione stradale, lo smaltimento dei rifiuti, l’acqua potabile, disponendo pure di un budget per i primi stanziamenti. C’è un piano per costruire un ospedale a Qana, il villaggio tristemente famoso per una strage. Altrimenti la pace sarebbe inimmaginabile. L’odio non è rivolto contro i soldati dell’Onu, ma resta il sentimento dominante. La recita di fine anno della scuola di Tebnine prevedeva bambini vestiti da miliziani che travolgevano altri bambini avvolti in bandiere israeliane.
Il mandato dell’Unifil è chiaro. Sta scritto nella risoluzione Onu, non nell’andreottismo della politica estera italiana, che la sorveglianza della frontiera siriana della Bekaa - quella da cui filtrano le armi e i combattenti jihadisti - sia delegata all’esercito libanese. Il quale non può andare oltre qualche arresto dimostrativo ogni tanto. È la triste realtà dei rapporti di forza.
La polemica sul patto maledetto fra il ministro D’Alema e il siriano Assad, rilanciata dal giornale israeliano Haaretz, è una cortina fumogena che cela il dilemma in cui si dibatte l’intera diplomazia internazionale: sarà mai possibile una stabilità nella regione prescindendo dagli interessi strategici di Damasco? Del resto sono testimone dell’incoraggiamento discreto venuto nel dopoguerra dallo stesso governo israeliano alle cancellerie di Roma e Berlino affinché dialogassero con la Siria nel tentativo di separarla dall’Iran.
Qui a sud del fiume Litani e del castello crociato di Beaufort, l’Unifil gioca una partita a tre con Israele e gli Hezbollah. Deve scommettere sul loro contenimento, perché il disarmo è una parola d’ordine per soli propagandisti di guerra.
Certo noi che veniamo da fuori apprendiamo con stupore la considerazione che i comandanti Unifil, così come molti democratici libanesi antisiriani, manifestano per la leadership di Hezbollah. Parlano dello sceicco Nabil Qaouq, responsabile di Hezbollah per il sud Libano, ma anche dei sindaci di Bent Jbail, Tebnine, Tiro, come di politici affidabili. Riconoscono in loro la duttilità della rinomata scuola diplomatica iraniana. Allo stesso modo ho udito a Beirut parole d’elogio per la moderazione, lo humour e l’abilità tattica di Nasrallah. Non significa che siano degli stinchi di santo, ma significa che oggi con loro bisogna trattare, pena il disastro. Me l’ha confermato oggi a Beirut anche il vecchio saggio Ghassan Tueni, massima autorità intellettuale del Libano laico, editore del quotidiano An-Nahar, che pure ha avuto il figlio ucciso in un attentato: «Gli Hezbollah hanno una concezione anacronistica dello Stato che somiglia alla Repubblica di Platone, il potere dei filosofi. Ma sanno bene che l’instaurazione di un potere islamico sul Libano è impossibile, passerebbe attraverso un bagno di sangue». Né si dovrebbe dimenticare perché ci troviamo in questa situazione: la temibile longa manus dell’Iran sul Mediterraneo è una creatura involontaria dell’apprendista stregone Ariel Sharon; s’è radicata grazie all’invasione israeliana del Libano. Una storia che non ha insegnato molto, visto il colpevole ritardo con cui giunge il riconoscimento americano di Abu Mazen e di una Anp umiliata da Hamas: fenomeno sunnita in tutto simile all’Hezbollah sciita.
Mentre al nord l’esercito libanese vive il suo battesimo del sangue nel campo palestinese di Nahr el-Bared, al sud si gioca a scacchi la sfida più pericolosa. Subendo l’infiltrazione di attori sconosciuti: nessuno sa davvero chi abbia lanciato i Katyusha su Israele da Taibeh, nella zona posta sotto la sorveglianza del comando spagnolo. «Credo non sia un caso che abbiano sparato da un luogo vicino al fiume Litani, ripiegando presumibilmente subito a nord. Perché se gli Hezbollah li acciuffassero, finirebbero sgozzati», confida il generale Fioravanti.
Foto di commiato con il basco della Folgore. Ripercorro il paesaggio struggente del Libano meridionale, fra gli ulivi e i wadi ripidissimi in cui si celano ancora i bunker degli Hezbollah, verso Nabatiye e Sidone, per raggiungere una Beirut impaurita che ha rinunciato alla sua vita notturna. Ha senz’altro ragione il generale Fioravanti quando sostiene che ogni giorno di pace quaggiù e’ una conquista. Purché la diplomazia internazionale faccia in fretta a sciogliere il suo dilemma: è possibile garantire al tempo stesso gli interessi vitali della Siria, la sicurezza d’Israele e la sovranità del Libano? Oppure si tratta di un’impossibile quadratura del cerchio? Si sbrighino a provarci perché altrimenti questa pace provvisoria non reggerà a lungo gli agguati di chi la subisce come una minaccia.
Gad Lerner
Gad Lerner è nato a Beirut nel 1954 da una famiglia ebraica e a soli tre anni si è dovuto trasferire a Milano. Come giornalista, ha lavorato nelle principali testate …