Renato Barilli: Maurice Denis, quando l’arte si mise a dieta

09 Luglio 2007
Continuano le belle prestazioni del Museo d’Arte di Rovereto e Trento (Mart), che sotto l’abile regia di Gabriella Belli ha il pregio di offrire di volta in volta dei ‟pacchetti” di eventi ben confezionati. In questo momento, per esempio, fa tappa al Mart una di quelle retrospettive precise ed esaurienti che le migliori istituzioni straniere sanno proporre, laddove da noi si hanno solo rassegne malamente raffazzonate, tanto per sbattere in prima linea qualche nome di culto. Questa volta a sostare a Rovereto è un’eccellente ricostruzione dell’intero percorso di Maurice Denis (1870-1943) partita dalla Casa Madre dell’Ottocento francese, il parigino Musée d’Orsay. Denis è stato il più importante tra gli allievi di Paul Gauguin, e il più pronto a ereditare i dati portanti del Simbolismo, come proprio sulla pelle di Gauguin li stava redigendo un giovane di allora, Albert Aurier. Purtroppo sulla nozione di simbolismo si equivoca, prendendone più l’aspetto di contenuto che di stile, laddove il nocciolo dell’insegnamento gauguiniano stava nel predicare la sintesi, col che si entrava decisamente nella temperie dell’arte contemporanea. La grande arte occidentale dei secoli precedenti, invece, era stata naturalista-mimetica, aggravata oltre ogni limite da una eccessiva cura del dettaglio, per cui, ammoniva appunto Aurier, poco cambiava se a posare era una superba divinità o un umile spaccapietre. Courbet o Moreau? Che differenza faceva, se entrambi sentivano l’obbligo di essere minuziosi all’eccesso? Occorreva invertire il cammino, riscoprire la magrezza delle immagini tipica di altre stagioni, per esempio dell’intero ciclo ravennate-bizantino, quando non a caso si preferiva il termine di ‟icone”, proprio per indicare il ricorso a sagome smagrite, e soprattutto schiacciate sul piano, come richiedeva una civiltà in cui le distanze erano insuperabili, e soprattutto non misurabili con i canoni della prospettiva, dato che il centro era dappertutto. Non per nulla il nostro Denis, alla testa di altri giovani parigini ‟arrabbiati” come lui, i Nabis, in quegli anni di fine-secolo volle farsi chiamare l’artista ‟dalle belle icone”. Ma perché, nei tempi di una modernità piena e matura, si voleva invece quella cura dimagrante, quel ritorno a tempi lontani e poveri? Era l’intuizione che il nostro universo ‟contemporaneo” si sarebbe posto nel segno della velocità, in una rapida corsa ad afferrare i contorni delle cose, e con totale disprezzo delle distanze, visto che sarebbe stato così facile superarle, bruciarle in un attimo.
Sintesi, dunque, questa la parola d’ordine emessa da Gauguin, e subito raccolta dai Nabis, con Denis in testa, che, dotato anche di buone capacità teoriche, ne traeva una sorta di primo manifesto dell’astrazione. Più tardi, con Mondrian e compagni, sarebbe venuta altra cosa, l’arte ‟concreta”, volta a proporre forme plastiche assolute, autofondate, liberate da ogni compromesso con la natura.
Questa sintesi o astrazione doveva inoltre rivoltarsi contro il cupo e greve materialismo della civiltà borghese, anelare a più alti e respirabili orizzonti, risollevare insomma la bandiera delle idealità, che però, per non cadere nei pesanti allegorismi di Moreau e compagni, erano tenute a fondersi con l’obbligo della sintesi, e a dar luogo così a un ‟ideismo”, il quale oltretutto doveva essere allietato da buone dosi di decorativismo.
Il problema non era più di porgere verso la natura uno specchio fedele, in gara con la fotografia, ma di confezionare per la nostra vita degli ambienti sereni, con pareti, stoffe, abiti percorsi da molli e sinuosi ‟arabeschi”.
Tutti gli anni Novanta del precoce e geniale Denis furono condotti in conformità con queste regole, ma fin dall’inizio le sue figure muliebri tradivano una tendenza verso la pinguedine, benché tenuta a freno dall’obbligo di conformarsi ai costumi casti e severi degni di muse, di donzelle al servizio del sacro.
Però la maternità era in agguato, con la necessità di fornire abbondanti poppate a rosei infanti. Questo è un modo per dire che la castità, la magrezza della prima gioventù vennero presto tradite da un Denis troppo pronto ad anticipare il richiamo all’ordine, il ritorno a misure voluminose, favoriti anche dalla frequentazione dei luoghi tipici del nostro Paese. I colli fiesolani, Roma, il Vaticano e i suoi dogmi, lo incitarono su questa strada di ‟pentimenti”, seppur sempre di buona lega.
Ma Denis non troneggia da solo, negli ampi spazi del MART, ci sono altre proposte, tra cui una utile attenzione prestata a due dei nostri migliori giovani: Matteo Basilé (1974) che maneggia con assoluta destrezza gli ‟effetti speciali” che si possono trarre dalla foto digitale, capace di fondere a piacere immagini tratte dai più vari repertori, facendo nascere intriganti formazioni mostruose. Personalmente lo preferisco, per intensità e bizzarria di invenzioni, ai tanto più gettonati di lui Francesco Vezzoli e Vanessa Beecrot.
A equilibrare l’incursione nelle novità c’è pure Luca Vitone (1964), che dedica un omaggio al grande Segantini, ma a modo suo, cioè da perfetto campione del concettuale, accumulando dati, foto, rilievi topografici di un pellegrinaggio, consumato nei luoghi sacri al geniale artista dei monti.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …