Gianni Mura: Tour 2007. La lunga fuga di Wiggins nel giorno della memoria

16 Luglio 2007
Nel giorno in cui Tom Boonen ritrova il sorriso, e il primo dei battuti è sempre Freire, che cosa collega Bradley Wiggins e Tom Simpson? Il 13 luglio, sicuramente. Era un venerdì anche quarant’anni fa, quando Simpson cadde due volte e la terza non si rialzò più. Rimase disteso sulle pietre del Ventoux, uno spettatore a praticargli la respirazione bocca a bocca, il dottor Dumas un massaggio cardiaco. Ieri sul Tour è arrivato il primo caldo, ma quarant’anni fa il caldo era spaventoso, il sole picchiava a martellate e rimbalzava su dalla strada. Era la prima volta che vedevo il Ventoux, era anche il mio primo Tour. La mattina avevo parlato con Simpson, era uno dei più disponibili. La sera prima aveva firmato un contratto con la Salvarani, a fine stagione sarebbe passato con Gimondi. Il raduno era sotto Notre Dame de la Garde, la chiesa dei marsigliesi. E Simpson faceva il pagliaccio. Aveva intinto il berrettino nell’acqua minerale e imitava un vescovo benedicente, spruzzava i corridori salmodiando: ‟La Madonna sia con voi, voi che andate sul terribile Mont Ventoux”. Wiggins è nato a Gand, suo padre era lì per correre una Sei Giorni. Simpson aveva casa alla periferia di Gand, a Mariakerke. Moglie con occhiali e lentiggini, due figlie piccole. Wiggins quest’inverno ha portato un mazzo di fiori alla stele di Simpson, sul Ventoux. Ecco qualcos’altro in comune. E poi questa lunga, lunghissima fuga autorizzata. Ancora un po’e ci arriviamo. Noi italiani superstiziosi quarant’anni fa credevamo che i poteri nefasti del venerdì 13 si fossero manifestati in un cane nero che aveva attraversato il gruppo, e Marcello Mugnaini era finito all’ospedale con un braccio rotto. Non sapevamo. Me l’avrebbe detto Pierre Chany, la sera, che il medico del Tour, il dottor Dumas, sentendo quanto scottava il sole già alle 8 di mattina aveva detto: ‟Se qualcuno ha preso qualche porcata, oggi ci scappa il morto”. Sapevamo che l’obiettivo di Simpson era finire nei primi cinque a Parigi. Sapevamo che aveva comprato una villa in Corsica (e i mobili a Lissone, dove aveva amici) e gli servivano soldi. Sapevamo che un Tour senza Anquetil si presentava più aperto. Ma la formula per squadre nazionali penalizzava Simpson, di bravi c’erano solo lui, Wright e Hoban. Sapevamo che il regolamento vietava la distribuzione di bevande, mentre oggi è una pacchia. Allora bisognava arrangiarsi con quello che passava il rifornimento o accettare borracce da sconosciuti. Sconosciuti imbecilli, quando la corsa era ancora al riparo, nel bosco, passarono una borraccia piena di cognac a Simpson, che tirò due sorsate alla cieca. Questo me l’ha raccontato Ferretti, anni dopo. Era nel gruppetto di Simpson, anche a lui passarono una borraccia di cognac, annusò e la gettò via. Sapevamo che la frase di Felix Levitan, il patron, salito su una sedia nella sala stampa di Carpentras, che era una chiesa sconsacrata (‟Il permesso di inumare è stato rifiutato”) significava sospetto di doping, e autopsia. Nella sacca della maglia Simpson aveva due tubetti d’anfetamine. L’autopsia avrebbe indicato il doping come concausa della morte, insieme all’insolazione e a uno stato di sfinimento. Per me Simpson era come un muratore caduto dall’impalcatura, vittima della chimica ma anche di un sadismo organizzativo spacciato per rigore. Per questo Simpson rimane un morto scomodo, morto per tanti motivi. E a quarant’anni dalla sua morte il Tour non ha speso una parola per ricordarlo. Neanche Wiggins lo ricorda. E’partito al km 2, l’hanno ripreso al km 192. Dei 199 km della tappa, 190 li ha pedalati da solo. ‟Siamo partiti subito in un gruppetto di cinque, ho dato una tirata e quando mi sono rialzato gli altri non c’erano più. Ho deciso di continuare perché questo è il Tour, pazienza se ti riprendono. Tanti applausi non li ho mai presi nella vita”. Barry Hoban fece in solitudine le strade, che sapevano sempre più di mare, fino al traguardo di Sète, la città di Brassens. Era il 14 luglio ma non importava a nessuno, neanche all’orgoglio dei francesi. Hoban andò via spinto dal gruppo, che aveva un cuore. Nessuno lo inseguì. Hoban arrivò primo a Sète con la testa piegata sul manubrio, piangendo. Ieri Wiggins è arrivato ultimo, staccato di 3’dal gruppo, lui che ne aveva 17 di vantaggio, ma sorridendo. E, per finire la storia, qualche anno dopo Hoban sposò la vedova Simpson e le figlie di Tom lo chiamarono Daddy. Boonen era dato in declino. Ha vinto di potenza, una volata partita da lontano col vento contro. E adesso l’infermeria: Kloden lo hanno messo a letto, ha dormito due ore (non può girarsi sul fianco) e ieri mattina l’hanno pure messo in bici, con una sorta di fascia da motociclista intorno ai fianchi. Il coccige, fratturato tre anni fa, è solo fessurato. Ma fa male ugualmente. Vinokurov ha lasciato l’ospedale di Beaune a mezzanotte, ha quindici punti di sutura per ogni ginocchio, altri sul braccio destro e i polpastrelli della mano destra sono abrasi. All’arrivo, inquadrato e protetto dalle maglie azzurre della Astana, ha fatto un gesto espressivo, il dito indice come a tagliarsi il collo. ‟Sono morto”. Il sole e la tappa piatta erano dalla parte dei feriti, ma oggi, in salita, temo che sarà un’altra faccenda. Non è la più dura delle tappe alpine, ma i 1.618 metri della Colombiere, che precedono il tuffo sul traguardo, saranno sufficienti a chiarire una classifica in cui si mescolano velocisti (Pozzato è terzo) e favoriti per Parigi.

Gianni Mura

Gianni Mura (Milano 1945). Studi classici, entra alla “Gazzetta dello Sport” nel 1964. Giornalista professionista dall’aprile del ’67. Altre testate: “Corriere d'informazione” (72/74), “Epoca” (74/79), “L'occhio” (79/81). Inviato di “Repubblica” …