Antonio Tabucchi: Sopra la citta di Sète, sulla collina
23 Luglio 2007
Se passate da queste parti questo è un luogo dove fare una sosta. Per queste parti si intenda Sète, cittadina costiera della Linguadoca, a un tiro di schioppo dalla medievale Montpellier dove fu medico Rabelais ed elegante centro di vacanza che vanta una spiaggia di sabbia finissima lunga quindici chilometri. Un luogo imprescindibile di Sète è il museo dedicato al poeta Paul Valéry, al quale questa città dette i natali. E all’interno del museo, come una piccola gemma incastonata nel gioiello principale, il ‟museino” dedicato a un altro poeta, lo chansonnier Georges Brassens, anch’egli nativo di Sète. Una coabitazione davvero degna della solida democrazia francese: il grande borghese Valéry, fotografato con i suoi impeccabili panciotti e l’uniforme di accademico, e l’anarcoide Brassens, le maniche della camicia arrotolate sulle braccia e la chitarra fra le mani, che nelle sue canzoni tanto irrise la borghesia. Ma i musei, dove necessariamente si deambula, non sono ideali luoghi di sosta. ‟Per pensare, o ancor meglio per fantasticare più nobilmente, bisogna star seduti”, diceva il filosofo spagnolo Eugenio D’Ors, esteta pigro. La vera sosta che qui propongo al viaggiatore in cerca di un angolo dietro l’angolo, è sopra la città di Sète, sulla collina, al cimitero dove Paul Valéry è sepolto e che ormai è conosciuto dal titolo del suo poemetto più celebre:
Le cimetière marin, il cimitero marino. Se come il filosofo spagnolo siete anche voi degli esteti pigri, con un taxi lo raggiungerete in pochi minuti. Se avete le gambe buone è necessaria una piccola scarpinata, dopo la quale la sosta vi risulterà ancora più gradevole. La prima cosa da gustare è il silenzio: cimiteriale, dato il luogo. Si è spento il brusio di Sète, il cicaleccio della passeggiata a mare, il rumore degli zoccoli sul cemento. Ogni tanto il fischio di una sirena di un battello (Sète è anche un importante porto commerciale); ma soprattutto, davanti al vostro sguardo. l’azzurro del mare e l’ampio orizzonte, quella ‟mediterraneità” solenne e un po’ pagana che è uno degli elementi fondamentali della poesia di Paul Valéry. Per i francesi Valéry (1871-1945) è un poeta di grandezza pari a quella di Mallarmé, che fu il suo mentore. Classificazioni difficili da fare. Certo è che la sua poesia è come ‟turbata” da una prevalenza di lucidità e di ragione che a volte sembra rinnegarla. Del resto la famosa e tormentata ‟notte di Genova” alla fine degli anni ’90 (era di madre italiana) come risulta dalla sua biografia, nella quale egli decise di abbandonare la ‟nebulosa” poesia a favore della lucida speculazione filosofica, ne fanno anche una grande figura di intellettuale. Da questa sua scelta a favore dell’intelletto puro, che nel rifiuto dell’emozione appare più volontaristica che autenticamente intellettuale, deriva la sua dedizione allo studio delle matematiche e un esemplare libriccino, Monsieur Teste, che Vittorio Sereni anni fa pubblicò nelle sue ‟Silerchie” del Saggiatore (en passant: se i francesi avessero un grande poeta come Sereni, chissà che museo gli avrebbero fatto), e che è il personaggio che dovrebbe rappresentare l’uomo assolutamente padrone della propria vita mentale. All’epoca di Valéry i grandi studi neurologici sull’interazione dei due lobi del cervello, quello delle emozioni e quello della logica (per esempio quelli di Sacks o di Darnasio, quest’ultimo con il suo Errore di Cartesio) erano di là da venire, ed è comprensibile che un francese di formazione illuminista come Valéry privilegiasse i ‟lumi” della logica. Che poi si dimostrò meno logica di quanto pensava, visto che la sua simpatia andò (seppur con moderazione) a personaggi politici che alla storia del ventesimo secolo non hanno fatto un gran bene. Per fortuna ritornò alla poesia nel 1917 con il poemetto La giovane Parca e poi, nel 20. con il Cimitero marino.
‟Questo tetto tranquillo, dove camminano colombe. I palpita tra i pini, tra le tombe; / l’esatto mezzogiorno vi accende di fuochi / il mare, il mare che sempre si ripete” (così traduco, midi le juste e la mer, la mer toujours recommencée, sempre tradotti con ‟meriggio il giusto” e ‟il mare sempre ricominciato” che non ho mai capito bene cosa vogliano dire in italiano). È l’incipit del poemetto. La monotonia dell’universo, forse. O anche ‟la commerciale puntualità degli astri”, come l’ha definita un altro grande poeta. I presocratici che tanto amò Valéry? Anassimandro e il suo eterno ritorno? Forse. Sono pensieri da rimuginare a palpebre semichiuse, perché la luce mediterranea è abbagliante, e la questione è complicata. Ci vorrebbe un intelligentone come Monsieur Teste, ma chissà dov’è finito nel frattempo. Forse è meglio lasciar perdere, perché intanto siete seduti su una antica lapide di marmo, la brezza è fresca e il vostro sguardo si perde fra le piccole onde sempre uguali del mare. E magari vi sentite proprio bene. Che poi è la cosa più importante.
Antonio Tabucchi
Antonio Tabucchi (Pisa, 1943 - Lisbona, 2012) ha pubblicato Piazza d’Italia (Bompiani, 1975), Il piccolo naviglio (Mondadori, 1978), Il gioco del rovescio (Il Saggiatore, 1981), Donna di Porto Pim (Sellerio, 1983), Notturno indiano (Sellerio, 1984), I volatili del Beato Angelico (Sellerio, 1987), Sogni …