Gianni Mura: Ritirata la maglia gialla. Così al Tour muore il ciclismo

27 Luglio 2007
Tutto il Tour, e la Francia si accoda, ha l’aria un po’ abbattuta ma molto soddisfatta di chi si è tolto un molare cariato. Il molare era Rasmussen. Il gelido disprezzo con cui è trattato dalla stampa francese mi porterebbe quasi a una vaga forma di solidarietà con lui, se non fossi certo che ha imbrogliato le carte e non solo burocraticamente. Il pasticcio della sua irreperibilità nasconde semplicemente l’intenzione di non essere controllato a sorpresa come gli altri corridori, chi più chi meno. Per esempio, i francesi lamentano di essere controllati molto più degli spagnoli, che pure nell’operazione Puerto erano dentro fino al collo.
Controllo a sorpresa significa che la mattina presto si presenta un ispettore, in albergo o a casa del corridore, o dove si sta allenando, o mentre è in vacanza, e scatta il prelievo di sangue. Anche il giornalista Guillaume Prébois, che sta correndo un altro tour, sullo stesso percorso ma da solo e con un giorno d’anticipo (ne ha scritto Paolo Rumiz su ‟Repubblica” prima del via) è stato più volte controllato a sorpresa. E dice che è piuttosto imbarazzante sentire frasi tipo: ‟Abbassare i pantaloncini, tirare la maglia sopra l’ombelico, dobbiamo vedere bene mentre piscia”. Ma questa è la vita del corridore, reperibile tutti i giorni dell’anno, Pasqua e Natale inclusi. E se fa questa vita è soprattutto colpa sua. Ma non solo. Lo sport che ha più flirtato e trincato col doping è il ciclismo. Storicamente, innegabilmente. Dai bottiglioni di vino rosso dei pionieri alla stricnina, dalla coca all’eroina al pot belge (oltre alle due ultime sostanze, un cocktail comprendente epo, anfetamine e corticoidi), dalle anfetamine (che a ripensarci fanno quasi tenerezza e non hanno mai ammazzato nessuno, nemmeno Simpson) al cortisone, dagli antiallergici all’epo, dall’autoemotrasfusione alla trasfusione omologa. La differenza è che una volta il dopatore era un praticone, un massaggiatore con un minimo di nozioni chimiche. Adesso è un medico, magari con più lauree, cui viene chiesto di migliorare la prestazione di un uomo, o di un cavallo, o di un cane da corsa, fa poca differenza. La farmacia del diavolo, come la definì Mario Fossati, è sempre in movimento, sempre aperta. Già si parla di FG 2216 (Fibro gen), studiata per gli anemici ma comunque utile all’ossigenazione del sangue, stimolando la produzione endogena di epo. Si parla di Sarms, sono molecole che hanno l’azione del testosterone ma non i suoi dannosi effetti secondari. E il prossimo orizzonte è l’ingegneria genetica, pensiamo al dibattito su Pistorius. Vi abbiamo clonato la pecora Dolly, possiamo fabbricarvi un figlio con gli occhi azzurri, per il vincitore dei duecento metri alle Olimpiadi del 2030 ci stiamo attrezzando, ma siamo sulla buona strada.
Quest’altra strada, percorsa dalle due ruote, dove ci ha portato? A questo momento di campane a morto. Un fulmineo passaparola, da sinistra a destra, da ‟Liberation” al ‟Figaro” per decretare la morte del tour, del ciclismo, di tutti e due. Sarebbe più morto, ai miei occhi, un tour senza corridori positivi. Per anni ho visto i ciclisti protestare contro i controlli, martedì li ho visti protestare contro il doping. Non tutti, non Rasmussen. Una cinquantina. Sono una piccola speranza. L’abbandono in massa della Cofidis è un altro segnale. Chi sbaglia paga, così era. Ma se uno sbaglia oggi, possono pagare tutti, anche quelli che non c’entrano, dall’ultimo dei gregari ai primo dei meccanici. Il dopato risponde del posto di lavoro di una trentina di persone, questa è la differenza.
In genere, doping significa vittoria, e vincere porta quattrini e notorietà. Nel ciclismo il doping è antica abitudine passata a vizio assurdo, perché con questo doping si cambia sesso, si muore nel sonno, difficilmente si diventa vecchi. E quindi è giusto usare la massima severità, ma sempre senza perdere d’occhio il quadro generale. Oggi fare il ciclista è come abitare in una zona della città piena di telecamere, più o meno nascoste. Ti beccano se vai a 120 ma anche a 80. In altre zone della città corrono forte, ma le telecamere non ci sono, o se ci sono non funzionano. Per uscire dalla metafora, in questo solo tour sono già stati effettuati più di 250 controlli a sorpresa. Ai mondiali di calcio volete sapere quanti?
Nemmeno uno. E ve lo immaginate uno che va a prelevare sangue a Cannavaro o a Zidane la mattina della partita?
Si resta stupiti dalla quantità di gente sulle strade, di tutte le età. Credono al ciclismo o semplicemente vogliono passare una giornata diversa, con l’unico sport che non chiede soldi? Non si sa. Penso che sia un segno della profondità delle radici popolari di questo sport, che il susseguirsi degli scandali intacca ma non recide. Coppi non andava a pane e acqua, Anquetil ma in quegli anni poveri si chiedeva di vincere, non di vincere in modo pulito. Non bastano due pastiglie a trasformare un somaro in un cavallo, diceva Coppi. E forse, allora, era vero. Ma con le pasticche di oggi un somaro può battere i cavalli.
La credibilità di questo sport avvilito da corridori imbroglioni e dirigenti più rapaci che capaci, più attenti al conto in banca che all’etica, passa per la sua voglia di ripulirsi, e ci vorranno anni. Forse con uno slogan adeguato la lealtà diventerà un affare, non una faccenda su cui sorridere, un ninnolo da mettere nel salottino di nonna Speranza. La coscienza dei corridori, o la loro consapevolezza di essere alla frutta, possono portare a un ragionamento: meglio puliti che disoccupati. Ma intanto credo che abbia ragione Dick Pound, capo della Wada: sconti di pena a chi fa nomi e cognomi di fornitori e bombardieri per quanto riguarda gli ultimi dieci anni, nessuna indulgenza per gli altri che sono beccati. Il ciclismo, lo sappiamo tutti, è uno sport di estrema fatica, ma nessuno è obbligato a sceglierlo. Non si vive solo di medie altissime e di imprese sospette. Gli ultimi quindici anni sono i peggiori, sotto il profilo del doping, che il ciclismo abbia mai vissuto, e bisognerebbe chiederne conto ai grossi papaveri dell’Uci, che in luglio sono sempre in ferie. E ai vari enti preposti all’antidoping, che spesso si beccano fra loro su chi è il più serio e severo. Appoggio l’idea di Pound perché sono provvedimenti già adottati dall’antimafia. Il doping è mafia. Vi fanno ricorso atleti a fine carriera come esordienti, campioni e gregari, ricchi che vogliono diventare più ricchi e poveri che sperano di diventare meno poveri. Ma non si lotta contro il doping a porte chiuse. Il tour e il ciclismo devono tenerle aperte, per buttare fuori i venditori di elisir e gli spacciatori di sogni. Tutto qui. Non è facile ma ci si deve provare.

Gianni Mura

Gianni Mura (Milano 1945). Studi classici, entra alla “Gazzetta dello Sport” nel 1964. Giornalista professionista dall’aprile del ’67. Altre testate: “Corriere d'informazione” (72/74), “Epoca” (74/79), “L'occhio” (79/81). Inviato di “Repubblica” …