Paolo Rumiz: Una dea di nome Cartago

31 Luglio 2007
L’aereo incontra la costa africana, fa un largo giro sopra Tunisi, e all’improvviso la vedo. Una gigantesca manta che fluttua a pelo d’acqua, si muove verso il Canale di Sicilia in un lago di luce accecante. Le rovine della città perduta, in cima a una collina, sono la testa dell’animale. L’istmo che le collega alla terraferma è la sua colonna vertebrale. Le due pinne laterali sono lagune, orlate verso il mare aperto da una lingua di terra disseminata di casette ed eucalipti.
Un attimo dopo, quando l’aeroporto è già visibile a Sudovest - rotondo, con la corona di moli d’attracco - il mio sguardo cade, per simmetria, su un curioso disco azzurro delle stesse dimensioni, sull’orlo della lingua di terra a Oriente. Cerco sulla mappa e capisco: è un luogo centrale nella storia. L’ammiragliato di Cartagine, latitudine Nord 36° 50’, longitudine Est 10° 19’. Il centro di quella che fu la più grande rete commerciale del Mediterraneo.
E’ un altro terminal, ma di mare, vecchio 2200 anni. Un anello d’acqua con i bacini di alaggio al posto degli aerei e, al centro, un’isola artificiale al posto dell’aeroporto. Una modernità sconvolgente.
…
‟Mi farei tagliare un braccio per poter rivedere qui, ogni sera e mattina, lo scenario di allora” si strazia Piero Bartoloni che m’accompagna. Ha pattuito in arabo la cifra della corsa con lo chauffeur, e quando il taxi se ne va in un tintinnio di amuleti, resta lì nel vento a respirare il profumo del mare tra gli eucalipti, borbottando strane formule in lingua fenicia.
L’archeologo è in giacca, inappuntabile in un caldo bestiale. E’ venuto fin qui dalla Sardegna a raccontarmi le pietre della "sua" Cartagine. Le scava dagli anni Ottanta, le ha viste riemergere dopo due millenni di oblio. Proprio lui, romano, ha riportato alla luce, poco lontano da qui, la città che Roma cancellò dalla faccia della terra nel 146 avanti Cristo, per mano di Scipione Emiliano.
Della vecchia base è rimasta solo un’impronta, come il cratere di una bomba riempito d’acqua, con due-tre barche di pescatori e, intorno, villette con giardino. L’isolotto è coperto di sterpaglia e orchidee viola tra i massi divelti. Lo scirocco spazza il mare di schiume. Niente dice che da qui partirono le gloriose "pentere" da 250 rematori, lunghe quaranta metri, verso il Libano e il Golfo di Guinea.
…
Un romano che ama Cartagine: che raffinata vendetta della memoria. ‟Quel 146 fu un’apocalisse. Fu spazzata via una civiltà sublime, che aveva diffuso in Occidente l’alfabeto, il vetro, la porpora, la navigazione, il commercio. Una rete che non comportava eserciti o invasioni, ma solo mercanti e marinai”. Siamo soli con i millenni. Bartoloni cammina tra i ruderi come l’ultimo sopravvissuto di un olocausto nucleare.
‟Ah Cartagine! Luoghi ammantati di buio brillarono solo grazie a lei”.
Ne parla come di una dea. Mi ricorda che questa è l’unica città mediterranea fondata da una donna, e basterebbe questo per amarla. La donna era Didone, la mitica regina che si buttò nel fuoco per rendere immortale la sua creatura.
Ormai si è rotta una diga, il prof passa come un bulldozer sugli schemi romanocentrici dei libri scolastici italioti.
‟Primo. Quel mondo fu distrutto dagli americani di allora, i Romani. Col loro imperialismo la convivenza era impossibile, e la stirpe dei Barca - la famiglia di Annibale - lo aveva capito in anticipo”.
‟Secondo. La guerra punica scoppiò perché i mercanti italici sconfinavano nei territori di competenza di Cartagine”.
Gli chiedo di Catone il Censore, che disse "Delenda Cartago".
‟Ah, l’immacolato Catone! Un filibustiere. Un usuraio. Costringeva i debitori a comprare quote delle navi di cui era azionista di maggioranza, poi con la sua flotta andava a commerciare nei territori di Cartagine, in deroga ai trattati. Voleva solo togliere di mezzo un concorrente”.
Gli domando dove sta scritto.
‟Ci sono tutte le fonti possibili. Ma ovviamente non se ne parla”.
Ma lei che ne pensa dei romani di oggi?
‟Non hanno più niente a che fare con quelli di allora”.
E la civiltà del ventunesimo secolo?
‟E’ così cialtrona che faccio di tutto per non guardarla. Forse per me Annibale è solo un trucco per vivere in un altro tempo”.
…
Saliamo sull’acropoli, sul colle di Birsa. Con noi, Angela Virdò, corrispondente dell’Ansa da Tunisi. Quassù è il testone della manta, e qui il tempo ha consumato un’altra vendetta.
I Romani, dopo aver raso al suolo Cartagine, ne costruirono sopra un’altra più grande, che sarebbe diventata - con Alessandria, Antiochia e poche altre - una delle più splendide città dell’impero. Ma accadde che quest’ultima, sommergendo le rovine sottostanti, finì per proteggerle dall’insulto dei millenni, col risultato che oggi la città romana, saccheggiata dei suoi tesori, è più male in arnese della "Cartago" incendiata e sconfitta.
Non solo gli arabi ma anche i cristiani hanno fatto del loro meglio per distruggere la seconda Cartagine. Persino gli inermi fraticelli custodi delle ossa di San Luigi, i "Pères Blancs", che ebbero per secoli la loro sede sulla collina. Hanno raccolto alla rinfusa i pezzi delle iscrizioni tombali pagane e le hanno impastate col cemento per farne una bieca piattaforma sulla loro esplanade.
Calpestiamo in silenzio quel "puzzle" di frammenti consumati, ma leggibili; le parole del dolore non sono cambiate da allora. "INNOC (ens)", la tomba di un bambino. "PUELL (a)", una giovane, morta nel fiore degli anni. "(f) IDELIS", un marito o una moglie vedova. Bartoloni gioca a parole crociate con i secoli, trova le lettere mancanti. A sigillo di tutto, una trinità di lettere: "NPA", uniche superstiti dell’augurio di riposare "in pace".
Alla fine scendiamo a cercare i segni dell’Annus Terribilis tra rovine puniche, popolate di ramarri verdi, formiche enormi e gatti dal muso egizio. Mi aspettavo un enigma, e invece tutto è leggibile. Le villette a schiera, le abitazioni senza finestre sulla strada e un cortile interno come unica fonte di luce; le cisterne nel sottosuolo per la raccolta dell’acqua piovana. E poi le tracce dell’incendio del 146, i mattoni arrossati come quelli di un forno a legna, con i segni della palma o del melograno, simboli entrambi di morte e resurrezione. Un’altra Pompei. Intorno, cocci di vaso, fichi d’India, immondizie e bouganvillee nel vento.
…
La sera, nella mia stanza all’hotel Mercure - popolato di addetti cerimoniosi e servizievoli - faccio l’ultimo controllo al bagaglio più complicato della mia vita. Giacca a vento e scarpe grosse per le Alpi, la mappa di Istanbul e del Mar di Marmara, magliette per il Medio Oriente e infradito per la Grecia, dizionarietto armeno per il monte Ararat, carte dettagliate del Sud Italia, orari dei traghetti per Creta e dei treni da Madrid a Cartagena. Per i libri, niente spazio: tanto, in quest’impresa nomade non avrò tempo di leggere. Nemmeno le guide servono, visto che viaggio nel terzo secolo avanti Cristo. Ho con me solo i testi sacri di Polibio e Tito Livio, avvolti in carta grezza e disseminati di appunti.
Decido di non dire più a nessuno del mio viaggio. I pochi intimi con cui mi sono già confidato mi hanno chiesto tutti se partivo "in elefante". Tutti, giuro. Ora non mi va più di rispondere a certe domande. Mi confido solo col barbiere, che mi rade a regola d’arte in un botteghino appartato tra i vicoli profumati di cuscus. ‟Ah, Hannibal!” reagisce onorato del mio interesse per l’eroe di casa, poi - senza chiedermi di elefanti - mi congeda con un ‟Barak Allah oufik”, la benedizione di Dio scenda su di te.
Perfetto. Si parte.
Oggi sulla strada ho visto una scritta "Amilcar Lease" e, non lontano dall’albergo, l’insegna "Licée Asdrubale". Ora, su un grattacielo, s’illumina un’enorme insegna fucsia: "HANNIBAL".
Lontano, verso capo Gammart, si spegne un incendio arancione come quello che ho visto sulle Alpi.
Nell’aria, già profumo di leggenda.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …