Renato Barilli: Lodolandia, così l’arte mette in gioco Milano

30 Agosto 2007
In alcune recenti occasioni mi è capitato di parlare del rilancio della Pop Art che si ebbe a metà degli anni ‘80, quando fu opportuno uscire dal clima nostalgico proprio della stagione del citazionismo, riaccostandosi invece ai tempi nostri, ma pur sempre in una frequentazione del mondo delle immagini. Così è stato quando ho parlato del tedesco Balkenhol, coi suoi feticci scolpiti in legno che rendono omaggio all’uomo della strada, e più ancora del fiammingo Delvoye, che ha avuto la fortuna e il merito di essere incluso, nel 1986, nella mostra che alla Sonnabend di New York segnò nel modo più incisivo quella fase. Occorreva anche precisare che quel rilancio della Pop non era solo una ripetizione conforme, ma prendeva atto di una notevole svolta sociologica: l’uomo comune, almeno nei paesi ad alto sviluppo, non si accontentava più degli oggetti di prima necessità, come potevano essere gli articoli igienici celebrati da Oldenburg, ma preferiva avvolgersi nelle spire di un consumismo più raffinato e stravagante, a costo di cadere nel kitsch. Naturalmente, una situazione del genere si ebbe anche in Italia, dove venne attestata al meglio da un gruppetto di artisti lombardi raccolti dal gallerista Inga Pin e da lui battezzati Nuovi Futuristi: dove, per intenderci, bisogna dire subito che il riferimento andava al secondo Futurismo, quello impostato a Roma da Giacomo Balla, con l’aiuto del trentino Fortunato Depero. I due insieme svolsero una eccezionale impresa di cosmesi e decorazione dell’ambiente urbano, slittando dalla musa severa di Boccioni e compagni verso le rive di un universo leggero, ludico, effervescente. Ritornando ora ai loro nipotini, sorti proprio a metà degli ‘80, come i neo-Pop di lusso sul tipo di Koons, tra loro chi ha mostrato di avere il passo più lungo è soprattutto Marco Lodola, ma sarebbero da citare anche gli altri suoi compagni, in particolare il trio che si fregiava del titolo di Plumcake, prima di sfaldarsi, mentre cose egregie sono venute anche da Gianantonio Abate. Ora Lodola riceve un giusto omaggio in una mostra a Milano, Sala Viscontea del Castello, a cura di Luca Beatrice, che assume il titolo assai appropriato di Lodolandia, un appellativo che consuona subito con quelli di certi ben noti parchi di attrazioni quali Mirabilandia, Gardalandia, a conferma che questo artista non disdegna certo un tuffo nei valori del piacere diffuso a livello di massa e a basso costo. Ma non è neppure escluso un riferimento di più alto bordo a un’opera famosa dello scrittore inglese del secondo Ottocento, Abbot, Flatlandia, col che l’accento si sposa sulla nota essenziale dell’arte di Lodola, appunto la flatness, il ritagliare, in una sostanza plastica di sintesi quale il perspex, delle sagome argute di tutti gli idoli del piacere, figure di danza, riti di acconciature dal parrucchiere, incursioni negli stadi, e così via. Ci sta pure un riferimento alla massima presenza lanciata sulla scena mondiale dal Giappone, Takashi Murakami, con la sua nozione di una Super-flatness, che trova le radici nei grandi incisori del Sol Levante della specie di Utamaro, ma nello stesso tempo lancia un ponte verso le follie «popolari» dell’Occidente. Storia vecchia, già la Parigi della belle époque esaltava, con Toulouse Lautrec e Mucha, il colpo di forbice sapiente che ritagliava le sagome dei campioni del piacere, facendo delle loro silhouettes come delle pedine per un divertente domino spaziale, o per la composizione di un puzzle, tutto riversato sulle due dimensioni: vietato preoccuparsi della terza dimensione, dei corpi, dei volumi, si punti a un puro universo di apparenze, di sogliole, di sottilette. Ovviamente, il nostro Lodola, come ogni altro esponente della neo-Pop, si vale dei requisiti tecnologici resi possibili dal progresso, quindi niente carta o tela, ma appunto agili sforbiciate nel perspex, e maxi-composizioni che si distendono a fisarmonica sulle pareti dei luoghi deputati. In poco tempo, Lodola è divenuto fin troppo abile in questo procedimento di sagomatura agile, pronta a strizzare l’occhio a tutte le occasioni del tempo libero. Ne è venuto un successo anche di mercato che ha fatto storcere la bocca a molti critici schizzinosi, i quali l’avevano già storta nei confronti di un suo antesignano, il Pop torinese di prima ondata Ugo Nespolo, con le sue tarsie fin troppo piacevoli. E allora Lodola ha ben compreso che gli conveniva complicare il gioco, magari affrontando finalmente la terza dimensione, erigendo delle edicole su cui appendere, all’esterno, le sue splendide spoglie, ma illuminandole dall’interno con la luce al neon, altro irresistibile portato dei nostri tempi. Oppure, perché non contornare quei suoi Ballerini e Sirenette e Starmen con dei fili costellati di tanti piccoli bulbi elettrici? Il che, evidentemente, chiede la complicità delle tenebre, quali offerte dalla Sala Viscontea, ma anche dalle notti che avvolgono le vie urbane. Infatti questa incontenibile «Lodolandia» sciama fuori dallo spazio chiuso, invade le principali arterie di Milano, Via Dante, Corso Vittorio, le filigrana con un minuto bombardio di luci ammiccanti. Il clima della festa si sposa così con le austere scene di un urbanesimo tanto bisognoso di un pizzico di magia.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …