Renato Barilli: America, limpressionismo in technicolor
04 Dicembre 2007
Finalmente Marco Goldin ha schiodato le sue indubbie capacità manageriali dal culto troppo stretto e perfino ossessivo fin qui dedicato agli Impressionisti francesi, e in particolar modo a Claude Monet, non necessariamente il più grande fra tutti, come era risultato dalle pur fortunate mostre da lui organizzate prima a Treviso, poi a Brescia. Ora, sempre nella sede bresciana di Santa Giulia, ci fornisce un’enorme rassegna sulle Storie di pittura dal Nuovo Mondo, annunciate da un’America! con tanto di punto esclamativo, e in effetti forse neppure negli Usa si è mai fatta una mostra di tanta vastità e completezza (fino al 5 maggio, cat. Linea d’ombra).
A ben vedere, l’attuale ampia rassegna bresciana è contrassegnata da due nuclei ben distinti, con uno spartiacque tra le due metà del secolo, e in fondo dall’una e dall’altra vengono indicazioni contradditore, rispetto al culto unidirezionale che il curatore in passato aveva dedicato ‟solo” ai Francesi. La prima metà della mostra passa in rassegna il paesaggismo prodotto dalle generazioni dei nati tra gli ultimi decenni del Settecento e i primi due o tre del secolo successivo, cioè da coloro i cui dati anagrafici corrispondono a quelli dei massimi cultori del vedutismo nostrano sul tipo della grande coppia inglese Turner-Constable, e poi Corot, e poi ancora i Barbizonniers, prima dell’avvento degli Impressionisti, francesi o di altre sponde. Ebbene, presso i ‟vecchi parapetti” europei questo squadrone nobile era comunque e dovunque convinto che si dovessero seguire i precetti leonardeschi, che cioè le vedute di terre e mari e monti dovessero risultare sfumate da un’immersione profonda nei dati atmosferici. Da questa consapevolezza comune si staccavano solo certi nordici, pilotati da Capsar David Friedrich che, al pari dei loro colleghi impegnati nei temi di genere o di religione, sul tipo dei Nazareni, predicavano invece il ritorno a ‟prima di Raffaello”, e pompavano via decisamente l’atmosfera, presentando fatti e persone con un precisionismo di sapore lunare. I paesaggisti statunitensi dei primi dell’Ottocento, con un apice nel mitico Frederic Edwin Church, e a fianco tanti altri, da Thomas Cole a Albert Bierstadt a George Inness, ragionavano invece come se le praterie dell’Ovest, o le cime delle Montagne rocciose, o i grandi fiumi, ivi comprese le cascate del Niagara, si estendessero in un enorme frigorifero, incapace di ospitare i lieviti corrosivi dell’aria. E così i loro cieli si spalancano ampi, smisurati, nitidi, prestandosi agli effetti speciali di un technicolor avanti lettera, con albe di un rosa shocking, o tramonti allagati di rosso, o architettare cristalline di nevi e ghiacci eterni. Perfino la variante tropicale, che entra ovviamente nel repertorio panamericano, non offre mutazioni di rilievo, i cactus o le orchidee si elevano appuntiti, foranti, laceranti. Il realismo praticato da tutti questi cultori dell’immagine hi fi si deve subito avvalere degli inevitabili prefissi di ‟sur”, di ‟iper”, di magismo e simili. Inutile tentare paragoni con i dirimpettai europei, che invece seguono per lo più le buone regole dell’ossidazione aerea, logorante e corrosiva. È vero che anche presso di noi ci sono i cultori di una sorta di precisionismo, si pensi a Ippolito Caffi o a Massimo D’Azeglio, ma in questo caso essi devono cedere nel confronto, travolti dalle dimensioni enormi che la geografia del Nuovo Continente autorizza, anzi, impone. Si passa dai loro riquadri limitati a delle sorte di visioni su maxi-schermo.
Ma le cose cambiano quando si viene ai ‟nati” dopo il fatidico confine degli anni ’30 (dell’Ottocento), che guardano con più costanza verso l’Europa, o addirittura vengono a starci, come è il caso di James Abbot McNeill Whistler, che si aggira tra Londra e Parigi, vivendo gomito a gomito con Courbet e Manet, e allora la visione si spiana, si allarga, affonda nelle nebbie dell’indistinzione. Sappiamo poi bene che un’altra statunitense, Mary Cassatt, vive anche lei in stretto sodalizio con Manet (non Monet, il nostro Goldin prenda nota della scarsa presa che il pur ammirevole autore delle Ninfee esercita su chi viene dall’altra sponda dell’Oceano). Ma su tutti svetta Winslow Homer (1836-1910), che è indubbio merito della mostra bresciana presentare in misura sostanziosa, anche se nulla è sufficiente a rendere onore a tanta grandezza. Infatti, in barba a quanti ritengono che l’Impressionismo sia ‟solo” francese, o che in altre plaghe si trovi solo in misura vicaria, Homer potrebbe essere dichiarato il più grande impressionista in assoluto, e nell’intero Occidente. Monet ebbe il torto di vergognarsi via via della presenza umana, giudicandola importuna, fastidiosa, viceversa questa grandeggia nelle tele del suo dirimpettaio, si tratti di pescatori o di turiste che ammirano l’infuriare dei flutti, e accanto al protagonismo umano, Homer sa cogliere magnificamente l’agitarsi di code di pesci, o di ali di gabbiani. Non ci sono Monet o Sisley o Pissarro che reggano, davanti a tanta forza, caso mai noi europei, in un ideale cimento, dovremmo mettere in squadra, accanto a Manet e Degas, il nostro Giovanni Fattori, che giganteggia nella bella mostra dedicata ai Macchiaioli presso il romano Chiostro del Bramante. Del resto, Homer non fu certo una rara avis, sul fronte Usa, ma ebbe di rincalzo altri forti presenze, quali Thomas Eakins, Frederick Child Hassam, William Merrit Chase.
A ben vedere, l’attuale ampia rassegna bresciana è contrassegnata da due nuclei ben distinti, con uno spartiacque tra le due metà del secolo, e in fondo dall’una e dall’altra vengono indicazioni contradditore, rispetto al culto unidirezionale che il curatore in passato aveva dedicato ‟solo” ai Francesi. La prima metà della mostra passa in rassegna il paesaggismo prodotto dalle generazioni dei nati tra gli ultimi decenni del Settecento e i primi due o tre del secolo successivo, cioè da coloro i cui dati anagrafici corrispondono a quelli dei massimi cultori del vedutismo nostrano sul tipo della grande coppia inglese Turner-Constable, e poi Corot, e poi ancora i Barbizonniers, prima dell’avvento degli Impressionisti, francesi o di altre sponde. Ebbene, presso i ‟vecchi parapetti” europei questo squadrone nobile era comunque e dovunque convinto che si dovessero seguire i precetti leonardeschi, che cioè le vedute di terre e mari e monti dovessero risultare sfumate da un’immersione profonda nei dati atmosferici. Da questa consapevolezza comune si staccavano solo certi nordici, pilotati da Capsar David Friedrich che, al pari dei loro colleghi impegnati nei temi di genere o di religione, sul tipo dei Nazareni, predicavano invece il ritorno a ‟prima di Raffaello”, e pompavano via decisamente l’atmosfera, presentando fatti e persone con un precisionismo di sapore lunare. I paesaggisti statunitensi dei primi dell’Ottocento, con un apice nel mitico Frederic Edwin Church, e a fianco tanti altri, da Thomas Cole a Albert Bierstadt a George Inness, ragionavano invece come se le praterie dell’Ovest, o le cime delle Montagne rocciose, o i grandi fiumi, ivi comprese le cascate del Niagara, si estendessero in un enorme frigorifero, incapace di ospitare i lieviti corrosivi dell’aria. E così i loro cieli si spalancano ampi, smisurati, nitidi, prestandosi agli effetti speciali di un technicolor avanti lettera, con albe di un rosa shocking, o tramonti allagati di rosso, o architettare cristalline di nevi e ghiacci eterni. Perfino la variante tropicale, che entra ovviamente nel repertorio panamericano, non offre mutazioni di rilievo, i cactus o le orchidee si elevano appuntiti, foranti, laceranti. Il realismo praticato da tutti questi cultori dell’immagine hi fi si deve subito avvalere degli inevitabili prefissi di ‟sur”, di ‟iper”, di magismo e simili. Inutile tentare paragoni con i dirimpettai europei, che invece seguono per lo più le buone regole dell’ossidazione aerea, logorante e corrosiva. È vero che anche presso di noi ci sono i cultori di una sorta di precisionismo, si pensi a Ippolito Caffi o a Massimo D’Azeglio, ma in questo caso essi devono cedere nel confronto, travolti dalle dimensioni enormi che la geografia del Nuovo Continente autorizza, anzi, impone. Si passa dai loro riquadri limitati a delle sorte di visioni su maxi-schermo.
Ma le cose cambiano quando si viene ai ‟nati” dopo il fatidico confine degli anni ’30 (dell’Ottocento), che guardano con più costanza verso l’Europa, o addirittura vengono a starci, come è il caso di James Abbot McNeill Whistler, che si aggira tra Londra e Parigi, vivendo gomito a gomito con Courbet e Manet, e allora la visione si spiana, si allarga, affonda nelle nebbie dell’indistinzione. Sappiamo poi bene che un’altra statunitense, Mary Cassatt, vive anche lei in stretto sodalizio con Manet (non Monet, il nostro Goldin prenda nota della scarsa presa che il pur ammirevole autore delle Ninfee esercita su chi viene dall’altra sponda dell’Oceano). Ma su tutti svetta Winslow Homer (1836-1910), che è indubbio merito della mostra bresciana presentare in misura sostanziosa, anche se nulla è sufficiente a rendere onore a tanta grandezza. Infatti, in barba a quanti ritengono che l’Impressionismo sia ‟solo” francese, o che in altre plaghe si trovi solo in misura vicaria, Homer potrebbe essere dichiarato il più grande impressionista in assoluto, e nell’intero Occidente. Monet ebbe il torto di vergognarsi via via della presenza umana, giudicandola importuna, fastidiosa, viceversa questa grandeggia nelle tele del suo dirimpettaio, si tratti di pescatori o di turiste che ammirano l’infuriare dei flutti, e accanto al protagonismo umano, Homer sa cogliere magnificamente l’agitarsi di code di pesci, o di ali di gabbiani. Non ci sono Monet o Sisley o Pissarro che reggano, davanti a tanta forza, caso mai noi europei, in un ideale cimento, dovremmo mettere in squadra, accanto a Manet e Degas, il nostro Giovanni Fattori, che giganteggia nella bella mostra dedicata ai Macchiaioli presso il romano Chiostro del Bramante. Del resto, Homer non fu certo una rara avis, sul fronte Usa, ma ebbe di rincalzo altri forti presenze, quali Thomas Eakins, Frederick Child Hassam, William Merrit Chase.
Renato Barilli
Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …