Incontro con Isabel Allende
03 Gennaio 2008
La somma dei giorni è denso di amori saffici, droghe psichedeliche e amici in bancarotta. Ma nonostante questo un inno al matrimonio e al bisogno di tribù. «Trascorro dieci ore al giorno inchiodata ad una sedia girando intorno alle frasi una e mille volte per raccontare qualcosa nel modo più efficace possibile. Soffro con le storie, mi immedesimo nei personaggi, indago, studio, correggo, edito, rivedo traduzioni e per di più giro il mondo promuovendo i miei libri con la tenacia di un venditore ambulante». Quando la incontriamo, all’Università di Trento, Isabel Allende usa questa frase del suo ultimo libro per descriversi. Il libro è uscito in spagnolo con il titolo La suma de los dias. Adesso Isabel Allende è libera. Si trova in quella metà dell’anno nella quale viaggia, riceve premi, vede gli amici e incontra i suoi lettori. Quei sei mesi che - come dice lei - le servono «per riempire il pozzo dell’immaginazione» fino ad un altro 8 gennaio. La data magica. Quella che attende ogni anno perché è la stessa in cui venticinque anni fa iniziò a Caracas, mentre faceva l’insegnante in esilio, la lettera al nonno morente che divenne il suo primo e fortunatissimo romanzo. Ha bisogno dell’inverno, del raccoglimento, e di un’assoluta solitudine per scrivere; e dell’estate, dei viaggi, e degli altri per cercare quello che scriverà. Il suo ultimo libro - ne ha scritti diciassette - è un’altra incursione nella memoria, nel privato della sua "tribù", e riprende il filo dei suoi romanzi più fortunati da La casa degli spiriti a Paula. «Ho avuto due muse nella mia carriera di scrittrice: una nonna molto fantasiosa e un’agente letteraria piuttosto energica, Carmen Ballcels. Quest’ultimo libro è per lei», ammette la Allende che è stata convinta dalla famosa "musa" catalana a scrivere ancora sulla sua famiglia. Ne La suma de los dias racconta alla figlia Paula, morta dopo un anno di coma nel 1992, tutto quello che le è accaduto nei quindici anni trascorsi dalla sua scomparsa. Così scopriamo in una saga tutta californiana che suo figlio Ernesto ha perso la moglie venezuelana, Celia, madre dei suoi tre figli, fuggita con Sally per un amore lesbico. Che la scrittrice si è fatta un intervento di plastica facciale «per tirar via le rughe». Che la sua migliore amica e un mucchio di illustratori sono andati in bancarotta per colpa dei computer. Che la nipote del marito è stata adottata da una coppia di donne, buddiste e omosessuali. E, infine, che per ritrovare l’ispirazione e scrivere i tre romanzi per ragazzi promessi ai nipoti (La città delle Bestie, Il bosco dei pigmei e Il Regno del Drago d'oro, tutti pubblicati in Italia da Feltrinelli) la Allende è ricorsa ai metodi psichedelici della Beat Generation, prima fumando erba e poi ingerendo una pozione di ayahuaca, l’allucinogeno delle tribù amazzoniche. Ma nonostante Lsd, marijuana, viaggi in India e coppie gay, La suma de los dias è un cantico alla famiglia (magari più contemporanea e aperta, meno cattolica ma pur sempre monogamica), una sinfonia al matrimonio e al bisogno di tribù, quelle dove i nonni allevano i nipoti, così tipico della cultura latina: «Ho una famiglia composita, allargata, con adozioni e aggiunte, di persone che a volte non hanno legami di sangue. La famiglia ci dà protezione, sicurezza e compagnia, anche se a volte ci dà anche ai nervi». Per questo genere di esercizio - il ricordo - Isabel Allende ha un’alleata e una cassaforte: le centinaia di lettere che si scrivono lei, che vive a Sausalito in California, e sua madre che vive in Cile. Ogni anno la madre le restituisce tutte quelle che lei le ha scritto «perché, se muoio, non finiscano nelle mani sbagliate» e, rileggendole, Isabel Allende ricostruisce toni e scenari di un melodramma familiare che «per fortuna continua, perché altrimenti di cosa diavolo potrei scrivere io?». Vista da vicino, la cosa che colpisce di più della Allende è, insieme alla perseveranza e all’energia (è instancabile), l’attenzione che dedica al suo pubblico, ai lettori. Anche in questo è infaticabile. Vorrebbe coccolarli tutti, uno per uno. Si ferma per la strada a firmare autografi, sopporta le confidenze di chi incontra, osserva, chiede, c’è. Non si sottrae mai quando è in pubblico. Maledice i tacchi altissimi (i tacones) che le massacrano le caviglie ma le sono imposti dal suo scarso metro e cinquanta d’altezza («altrimenti non mi vedono e mi calpestano») e resta ore a disposizione dei fan, soprattutto donne di qualsiasi età. Non recita mai. è semplice, diretta, comprensiva. Ha una specie di cinismo dell’onestà che la rende serena e piena, dice, come una Yemayà, la dea brasiliana della fertilità. In macchina, mentre attraversiamo la periferia di Trento con Elena Liverani, la sua traduttrice italiana, Isabel Allende si sofferma sul suo amore per l’Italia e racconta di essere andata spesso in vacanza sul lago di Como. «Ci andiamo di nascosto, in incognito, io e Willie». Poi sorride sulla confusione che fanno spesso i giornali tra lei e la cugina con lo stesso nome, l’altra Isabel, terza figlia di Salvador Allende, il presidente cileno destituito e suicida per il golpe di Pinochet. «Con tutto quello che lei combina in politica, anche la Cia avrà un intero dossier tutto sbagliato su di me, che vivo in California». L’errore più banale è lo scambio delle foto sugli articoli ma perfino la casa editrice Datanews ha inserito per sbaglio in un libretto, peraltro utilissimo, di interviste alla scrittrice un colloquio tutto politico con la cugina deputato. Isabel adora gli audiolibri, i libri letti su cd. Le ricordano i racconti di sua nonna e delle vecchie domestiche della sua casa in Cile, che le trasmisero miti e leggende popolari e che, vizio dell’epoca, ascoltavano i romanzi radiofonici, le telenovelas di allora. Oggi gli audiolibri lei li ascolta in macchina. Nel tragitto tra la sua casa e l’ufficio di San Francisco. Sono appena venti minuti ma poiché compra solo gialli e polizieschi le capita di fermarsi e parcheggiare per restare in ascolto fino alla fine della storia. Più tardi, a cena, sceglie un gioco al quale non puoi sottrarti e che le serve per conoscere nuove storie, nuovi personaggi. «Come avete conosciuto il vostro compagno/a?», chiede ai presenti. Per fortuna inizia lei e racconta di Willie. Suo marito, un omone leggiadro genere Paul Newman, occhi azzurri e Borsalino, che - dice Isabel - ha trascorso la vita «facendo l’avvocato delle cause perse», andò a cercarla durante una sua conferenza letteraria negli Stati Uniti perché aveva letto D’amore e ombra e s’era convinto che l’autrice avesse il suo stesso modo di concepire l’amore. Con due divorzi alle spalle e qualche figlio disperso nell’alcol e nelle droghe, Willie Gordon partì all’attacco invitando a cena la Allende che si negò per diversi giorni e cedette solo quando lui si presentò con una Porsche sotto il suo albergo alla vigilia del suo ritorno a casa, in Venezuela. Da quel momento in poi tutto avvenne alla velocità della luce «perché l’urgenza è inseparabile dall’amore». Isabel tornò a Caracas, fece le valige e si trasferì in California. A casa di Willie. Era il 1987. Qualche tempo dopo Paula, la figlia ventottenne, s’ammalò di porfiria e cadde in coma. Ma ad ucciderla fu la malasanità e un corto circuito che bloccò per alcuni minuti la macchina dell’ossigeno bruciandole il cervello. La famiglia, racconta la Allende in La suma de los dias, lo seppe soltanto molti anni dopo grazie a una infermiera che lesse il libro e prese il coraggio di confessare quello che era successo in ospedale, a Madrid: lo stato vegetativo di Paula non era una conseguenza della malattia ma della negligenza. Le ceneri della figlia sono state disperse in un bosco non lontano dalla collina sulla baia di San Francisco nella quale si trova oggi la casa di Isabel Allende e dove, tra un capitolo e l’altro, lei passeggia in cerca di segnali e fantasmi dall’aldilà. Femminista, socialista, amica della coppia Clinton e di Michelle Bachelet, Isabel Allende parla più volentieri dei suoi sogni erotici con Antonio Banderas che di politica. Sugli americani è categorica: «Adorano l’idea dell’immigrazione, è il fondamento del sogno americano. Un povero diavolo che arriva negli Stati Uniti con una valigia di cartone può diventare milionario. Ma poi detestano gli immigrati». Contesta Bush, «una presidenza disgraziata», ed è molto preoccupata per il Venezuela «perché Chavez sta sbagliando tutto». Ha familiari e amici a Caracas ma si rifiuta di andarci. «Non potrei stare zitta. Per me sarebbe inevitabile dire quello che penso di Chavez e diventare una "persona non grata", allora preferisco non andarci, neppure per presentare i miei libri. Ci tornerò quando non ci sarà più Chavez». Adesso anche sul femminismo la Allende ha qualche dubbio. «Non sono mai stata nel personaggio della donzella salvata dal principe. Ero sempre l’amazzone che si batteva contro il drago per salvare se stessa e la sua gente. Fin da quando ero bambina sono stata responsabile da sola di me stessa e del mio futuro, ma adesso sono stanca. Stufa di uccidere draghi: vorrei essere anch’io salvata dal principe». Poi, tornando alla letteratura, si diverte a raccontare di una svista che sta nella sua trilogia cilena. Messi in fila, La figlia della fortuna, Ritratto in seppia e La casa degli spiriti attraversano la storia del Cile e dell’America latina, con un piccolo problema: c’è un personaggio che perde una gamba amputata in battaglia e riappare anni dopo in un altro romanzo con tutte e due le gambe. Pasticci del realismo magico.
Isabel Allende
Isabel Allende è nata a Lima, in Perù, nel 1942, ma è vissuta in Cile fino al 1973 lavorando come giornalista. Dopo il golpe di Pinochet si è stabilita in …