Renato Barilli: Paolina, due secoli da Venere Vincitrice

21 Gennaio 2008
La Galleria Borghese di Roma è uno scrigno prezioso che raccoglie, nei due piani della collezione permanente, un tale numero di capolavori da far invidia a qualsiasi altro grande museo del mondo. Lo sanno bene i visitatori che si accalcano in quelle sale non vastissime intralciandosi il passo alle porte o lungo le scale elicoidali. Tra i tanti capolavori, uno dei più venerati è senza dubbio il ritratto di Paolina Bonaparte, stesa seminuda su un divano in sembianza di Venere Vincitrice, realizzato da Antonio Canova (1757-1822) e da lui presentato al pubblico romano nel suo atelier esattamente nel 1808, dopo circa quattro anni di lavoro. Giusto pertanto celebrare i due secoli da una simile epifania, come avviene in questo momento. Giusto anche che l’opera non sia stata allontanata dal sito in cui trova splendido e tradizionale ricetto, e che inoltre venga accompagnata da un florilegio di altri aspetti in cui si è prodotta l’attività di questo artista, assai più complesso e dialettico di quanto usualmente si pensi. Ma a questo punto sorgono due problemi. In primo luogo, dato che le stanze Borghese sono piene come un uovo, questi diversi esempi del percorso canoviano hanno dovuto esservi ficcati dentro quasi con la forza, in confusa coabitazione con i capolavori, diciamo così, stanziali. C’è un ottimo sistema di freccette a indicare l’itinerario di visita, ma prende l’aria della mappa per una caccia al tesoro, e non so quanto il pubblico normale sia in grado di andare a scovare quei lacerti così sparpagliati dello stile canoviano, e soprattutto di ricucirli tra loro. Ma c’è un disagio ben più grave, in quanto la Paolina, e l’opera tutta del maestro di Possagno, non sono affatto la ciliegina che viene a consacrate la lauta torta Borghese, una succosa abbuffata del meglio che l’Occidente abbia partorito, dall’antichità greco-romana ai secoli d’oro del naturalismo moderno, con Raffaello, Tiziano e Bernini in prima linea. L’arte del Canova inaugura quell’epoca assolutamente di segno contrario che indichiamo, in mancanza di meglio, col termine di contemporaneo, e che comunque si pone in fiera opposizione al moderno. Basti andare a vedere i dipinti canoviani, qui opportunamente esposti, in cui fa la sua comparsa sua maestà la deformazione quasi espressionista, con quei nudi di donna che si gonfiano come otri, viscidi come lontre, con testine piccole, animate da occhietti indemoniati. Del resto, non diversamente consuonano i disegni che offrono membra allungate, tese, nel caso degli atleti, in modi forzosi e artificiali. Insomma, ovunque abbiamo un artista che prende a schiaffoni i sacri canoni del naturalismo, la superficie ispecchiante non è più piana, bensì flessa, parabolica, comunque mostruosamente deformante. Si ricorre allora all’ipotesi di un Canova schizofrenico, diviso tra le avventure notturne di un Mr. Hyde che fa il verso alle soluzioni «inglesi» di Füssli e Blake, o a quelle di un altro indemoniato e visitato da spettri notturni quale fu Goya. Ma, si dirà, se Dio vuole rispunta la luce diurna e Canova rientra nei panni di un compassato e perbenista Dr Jeckyll. Intanto, non è così nella produzione bozzettistica, in cui egli affronta la creta con pollice furioso, ungulandone gli ammassi, spezzando le membra delle figure, facendole crollare su se stesse, e così aprendo la via a un Arturo Martini, o addirittura a un Lucio Fontana. Ma ancora una volta i benpensanti hanno una carta nella manica per riportare l’artista un’immagine di compunto conformismo, si sa che la fase del bozzetto è consegnata al «far presto», alle soluzioni provvisorie, poi viene il «finito», e a quel punto Canova diventa il campione di quelle perfezioni levigate, irreprensibili che ne fanno appunto il rappresentante insuperato del Neoclassicismo. Un movimento che i «moderni» hanno sempre detestato, per esempio, un grande storico dell’arte con tutti gli strumenti tarati sul naturalismo caravaggesco e simili come Roberto Longhi ha sinceramente detestato il Canova, mentre i suoi allievi, più ipocriti, si arrampicano sugli specchi per salvare capra e cavoli e mandar giù il boccone amaro costituito da quei marmi francamente insopportabili, per chi abbia in mente canoni di freschezza, di brivido atmosferico e simili. Il fatto è che, di fronte ad essi, bisogna cambiare pedale, accogliere alcuni dei presupposti del contemporaneo, secondo cui non si deve più rappresentare fedelmente, bensì presentare, magari il già fatto, e per esempio andare a prelevare da una sorta di banca dati museali delle forme appunto già confezionate. Non è affatto estraneo al Canova il concetto, poi messo in campo da Duchamp, del ready-made. E così, la nostra Paolina vuole essere una citazione dalle bellezze stereotipate dei monumenti funebri romani dove le illustri estinte si presentano stese nel triclinio destinato a un finale ed eterno banchetto funebre. Lo ha ben capito Jeff Koons, nei nostri anni, che ha immortalato se stesso e Cicciolina in pose analoghe. E si veda soprattutto il divano-triclinio su cui giace Paolina, quello sì è un ready-made, anche se rifatto, ma avendo cura di mantenere il polimaterismo delle borchie, delle dorature, dei drappi pendenti.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …