Giorgio Bocca: Perché la nostra società ha condannato i giovani

03 Marzo 2008
Con la campagna elettorale torna il ‟largo ai giovani” ma in modo poco convinto, come un luogo comune che bisogna rispolverare, come una vecchia etichetta. Il Partito Democratico ha mandato in pensione alcuni notabili anziani, come De Mita o Pannella, ma presenta nella piazza più importante, Milano, Veronesi. La destra ha tentato di presentare alcune attricette formose, di quelle che Berlusconi tiene sulle ginocchia, ma nessuno le ha prese sul serio. I giovani sono assenti dallo scontro elettorale, cantano, danzano e fanno all’amore, ma la politica non gli interessa, il protagonismo giovanile in politica è cosa passata. Nella storia recente l’Italia ha assistito a quattro alluvioni giovaniliste, a quattro periodi in cui i giovani hanno dominato la scena politica: l’arditismo della Prima Guerra Mondiale, poi trasformatosi in squadrismo, la Resistenza all’occupante nazista, il ‘68, il terrorismo di massa. Più o meno tutti e quattro partoriti dalle guerre insensate della vecchia Europa.
L’arditismo squadrista si compone con gli ‟spostati” della guerra ‘15-18, le migliaia di giovani borghesi promossi ufficiali di complemento per guidare le masse della guerra totalitaria. Congedati dopo la vittoria, abbandonati senza arte né parte nei retrobottega della provincia, trascinati da un’ondata antidemocratica, visionaria e furibonda, figli di una classe media che ha disprezzo di se stessa, di una società che gli appare come un ammasso di avidità, soperchierie e inganni, a un tempo rivoluzionari e reazionari, nemici dei ‟pescicani”, i profittatori di guerra, ma anche dei proletari che gli contendono il potere politico, carichi di odio per la società dei mercanti, di ‟fede punica”, come dice Mussolini, e pronti a mettere a ferro e fuoco il proletariato contadino. Una società impazzita dove tutti si cibano di schematismi, di ricatti totali, di giudizi perentori. Per Bernard Shaw la democrazia si riduce alle due dittature opposte: la borghese e la proletaria, i diritti conquistati dalle rivoluzioni liberali sono specchietti per le allodole. Ci vorranno sessanta anni prima che i comunisti capiscano che le libertà, da essi chiamate formali, sono le libertà fondamentali tout court. Più di sessanta anni prima che il comunista Berlinguer rifiuti il leninismo machiavellico, riscopra la necessità di una morale e predichi l’austerità, subito chiamata dai suoi avversari ‟la filosofia di tirar la cinghia”. È ancora una guerra a mettere in moto la seconda alluvione giovanile, quella partigiana. Una guerra persa, un regime finito già il 25 luglio del ‘43 quando il vecchio re arresta Mussolini e tenta di sostituire il fascismo con un ritorno alla monarchia parlamentare.
L’incontro tra i giovani delusi dal fascismo e il vecchio antifascismo dell’opposizione, dei 4.700 a 2.800 anni di carcere dai tribunali speciali, della emigrazione, della Guerra di Spagna, l’incontro impossibile nel luglio e nell’agosto del ‘43, avviene nel settembre, quando alla scomparsa dello Stato e dei vecchi poteri avviene la scelta resistenziale, quando i giovani raccolgono nel fango le stellette militari abbandonate dal regio esercito. La terza alluvione giovanile è quella del ‘68, del movimento studentesco nato nei campus americani e poi arrivato a Parigi, nella Sorbona e negli atenei di Torino, Milano, Roma. Di questa alluvione ho un ricordo diretto e sconcertante, come di fronte a un fenomeno che non sono riuscito a capire e ho sentito estraneo al mio modo di pensare. Mi incontro col ‘68 a Parigi, come inviato del ‟Giorno”. Dovrei occuparmene in modo professionale, da giornalista, ma lo vivo come un fatto politico, come una deviazione dall’eredità partigiana. I motti del ‘68 francese come ‟l’immaginazione al potere” mi sembrano dannunziani, marinettiani, futuristi e in qualche modo fascisti. Assisto agli scontri fra la polizia e gli studenti nel Quartiere Latino, e mi accorgo di parteggiare in qualche modo per i poliziotti, di condividere la diffidenza pasoliniana per i finti rivoluzionari del movimento studentesco, per i figli di papà della buona borghesia che si scontrano con i poveracci. La quarta alluvione, quella del terrorismo di massa, la vedo nel ‘77 al congresso contro la repressione di Bologna, dove arrivano da ogni parte d’Italia i nuovi squadristi, i giovani di Autonomia Operaia, di Potere Operaio, di Prima Linea che girano con la pistola nella città dei comunisti d’ordine, del comunismo all’emiliana che è ‟il capitalismo gestito dai compagni”. Mia moglie e io alloggiamo all’hotel Jolly, i nostri tre figli arrivati al convegno come a una festa, sotto i portici. Entro in un’aula dove sono riuniti i giovani di una radio rivoluzionaria, e si mettono a cantare ‟Radio Alice non si tocca, sequestriamo”. La storia delle quattro alluvioni giovanilistiche può confermarci nell’impressione che tutta la storia sia un va e vieni privo di senso. Ci sono stati secoli filosofici come il ‘700, in cui sembrava possibile il primato della ragione, normale rispondere alle domande sull’esistenza: ‟Chi sono? Che devo fare? Che cosa sono i diritti? Cosa sono le leggi?” e altri secoli in cui, nella scomparsa di Dio tutto è diventato possibile, in cui nessuno sa più rispondere alle domande più semplici, in cui le risposte dei nostri strumenti più avanzati come i computer sono ancora quelli dei robot che per dire ‟non sappiamo”, dicono ‟non esiste”. Anche in questa campagna elettorale in corso le idee sulla democrazia che abbiamo sono molto vaghe. È democrazia riservare ai partiti il potere di comporre le liste elettorali, di scegliere gli eletti, di disporre dei ‟collegi blindati”, di patteggiarli con gli alleati, di disporre cioè di poteri che dovrebbero appartenere agli elettori. La storia ha un senso? Lo storicismo è una nostra invenzione di comodo? Ci sono stagioni in cui ai giovani tutto è proibito, controllato. Altre in cui tutte le porte si aprono, in cui Alessandro il macedone adolescente può partire alla conquista del mondo, Napoleone ventunenne comandare l’armata d’Italia, Scipione il giovane dai capelli inanellati sbarcare in Africa per sconfiggere Annibale. Il tempo presente non sembra favorevole ai giovani. Le tecniche dominanti e proliferanti tagliano la società in sezioni orizzontali, un computer non è un semplice strumento di cui servirsi, ma un enigma dalle mille potenzialità, e persino un paio di sci non è più di due tavole di legno da usare sulla neve, ma un miracolo tecnico che curva da solo e scende sicuro in neve fresca.
Essere giovani oggi più che un’occasione è una condanna, più che un dono una sfida impari. I miti rivoluzionari sono caduti senza risolvere il nostro destino di morte e di guerra, anche il riformismo non ha cambiato il mondo, si è ridotto a una sorta di packaging che impacchetta la realtà mutevole e sfuggente. Quando ero bambino mia madre, una maestra, mi fece saltare la quinta elementare. Entrai nelle medie come il più giovane, ma era una scorciatoia inutile, mi ritrovai come gli altri alle prese con le difficoltà della vita.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …