Renato Barilli: Fischli & Weiss, l’arte tra Montale e lo Zen

03 Marzo 2008
La Fondazione Trussardi ha avuto il merito di catturare il passaggio, per varie città d’Europa (Londra, Parigi, Amburgo, Zurigo) di un’ampia retrospettiva dedicata al duo svizzero Peter Fischli (1951) e David Weiss (1946), abituati a lavorare insieme ormai da parecchi decenni. L’ampia rassegna si può ammirare nelle sale sontuosamente tardobarocche del milanese Palazzo Litta (a cura di B. Curiger, M. Gioni e V. Todoli, fino 16 marzo, cat. edito da Tate Modern). La coppia svizzera ha illustrato come meglio non si potrebbe l’ampia gamma di risorse contenute nel continente del cosiddetto ‟concettuale”, un termine arduo, se non ci si affretta a spiegare che in sostanza esso consiste in una revisione dei modi tradizionali per rivolgersi alla realtà: non più la matita o il pennello, anzi, meglio proscrivere questi utensili consueti, e sostituirli con operazioni ben diverse: l’andare a prendere le cose stesse, il darle in foto, o infine l’offrirle in termini linguistici. Tutto ciò, come non si può mancare di precisare, corrisponde alla famosa formulazione trinitaria avanzata, attorno al ’68, dall’artista statunitense, ma da tempo saldamente ambientato presso di noi, Joseph Kosuth, con le sue celebri proposte ‟une e trine”, dove poniamo una sedia veniva data sia ‟tale e quale”, sia in foto, sia attraverso una neutra e asettica voce di vocabolario. Ma mentre Kosuth e compagni, cioè i protagonisti della congiuntura sessantottesca, frequentavano i riti del concettuale in modi forse troppo rigidi e compassati, è stato merito di chi, come i nostri due, è giunto poco dopo sulla piazza, andare ad applicare queste ampliate possibilità in modi decisamente lirici, pronti ad approfittare delle tentazioni e suggestioni del caso. Noi italiani li potremmo considerare come dei devoti seguaci della poetica di Montale, dedita alle ‟occasioni”, o addirittura alla raccolta di ossi di seppia, di relitti casuali, ma tanto ricchi di richiami evocativi. O forse meglio ipotizzare che su un solido impianto di rigore occidentale sia andata ad attecchire un’aura prossima allo spirito Zen del buddismo orientale, quella che ci dice che un trepido volo di farfalle può procurare disastri e sconvolgimenti a catena. Infatti, se andiamo a visitare le varie stanze di Palazzo Litta, dapprima siamo accolti da assembramenti di oggetti effettuati secondo un registro molto casual, quasi in omaggio al recupero del trash, dell’objet trouvé, che viene volutamente a stonare con lo squisito decoro del luogo. Ma i nostri due non si limitano certo ad accatastare quei reperti in assorta immobilità, al contrario, ne creano catene di movimenti fortuiti, un peso si sposta lungo un asse, questo si alza percuotendo un altro oggetto, che a sua volta scivola e determina qualche minuto disastro, e così via, come quando un castello di carte si affloscia, ogni incidente ne mette in moto altri. Naturalmente, riesce assai difficoltoso produrre dal vivo questi giochi del caso in una sede museale, meglio offrirli in immagine, con ricorso a un video. Del resto, quel premere di mille minute ‟occasioni” può approdare assai bene in tanti minuscoli referti fotografici, col che entra, nel repertorio dei due, anche il motivo della serialità. È tanto ricca di imprevisti, la vita, sia nella sua dimensione naturale sia in quella urbana, che di quelle foto è opportuno sciorinarne sul tavolo una serie illimitata, dandosi appunto al piacere del collezionismo, il tutto all’insegna del fatto che la realtà, il caso, madre natura, o anche l’artificio umano, hanno più fantasia di quanta possa arridere alle menti, anche se illuminate, di due artisti, e dunque, bisogna raccogliere, elencare, saccheggiare le risorse offerte perfino dalle promozioni turistiche. Per prendere le misure di una città, di una località geografica, o anche di un rito, di una manifestazione folclorica, che cosa c’è di meglio dell’andare a impadronirsi delle mazzette messe in vendita ad uso di consumatori anche di basso conio? Non c’è da avere paura del kitsch, se con esso si rende omaggio alle inesauste capacità di cui danno prova la vita e il caso nel sorprenderci. E beninteso, accanto alle cartoline illustrate, il turista di oggi fa uso anche di immagini proiettate, per esempio, una passeggiata in qualche orto botanico ben fornito ci permette di trarre magnifiche immagini di fiori, orchidee, pianticelle rare. Ma, si dirà, fin qui manca all’appello il terzo corno della sacra trimurti kosuthiana, la scrittura, ovviamente il duo svizzero non manca di rispondere anche su questo fronte, e infatti va a collezionare frasi fatte, proverbi, sentenze, come escono da una fertile fantasia popolare e vengono vergati con scrittura spontanea su muri e staccionate. Basterà andare a prelevare queste scritture corsive con le pinze, e riproporle in negativo, con traccia luminosa su fondo nero.
Tutto è lecito, insomma, agli esercizi del ‟concettuale”, tranne il ricorso ai mezzi delle belle arti di un tempo? No, i nostri ci provano anche in questa direzione, andando a frequentare una scultura affidata al pollice o alla stecca, che vanno a modellare di fretta, quasi col furore del primo getto, dei blocchi di creta. Ma anche in questo caso si tratta di visualizzare occasioni, idoli della tribù, icone di pronto uso, immagini di culto popolare, il pollice fremente viene in aiuto alla registrazione fotografica o alla scritta verbale.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …