I trentanni della legge 180. E Basaglia liberò tutti
13 Maggio 2008
Dimenticare la legge Basaglia? Un punto di vista sconcertante, almeno a dare ascolto a Eugenio Borgna, psichiatra di grande esperienza clinica - ma anche uomo di idee, raffinato conoscitore di filosofia e di letteratura, di poesia in particolare, per non dire della passione che da sempre coltiva per l’arte e per la musica.
La questione andrebbe vista forse da un’altra angolazione: più culturale che medica, ma non proprio irrilevante. Approvata il 13 maggio del 78, oggi compie trent’anni la legge nota anche col numero 180: cancellando la barbarie dei manicomi, ha tentato innanzitutto di restituire il sentimento della dignità ai malati, di considerare le loro vite "degne di essere vissute", non proprio un accidenti della natura più matrigna. Un tentativo nobile, sorretto da una forte idealità, segno - tra l’altro - che quegli anni non potranno restare nella memoria soltanto come la stagione plumbea del terrorismo o della collusione di massa con la "violenza giusta".
Quel tentativo - bisogna riconoscerlo - è comunque almeno in parte fallito: ma non "per colpa" della legge, voluta da un gruppo di psichiatri eccellenti prima che "rivoluzionari", aggettivo retorico di cui ormai si può fare a meno - sempre che sulle questioni di civiltà non ci siano tentazioni di sapore regressivo. Non c’è infatti un bilancio negativo di quello che è stato fatto rispetto a quello che resta da fare: sarebbe impossibile dimostrare il contrario, se non alterando i dati ufficiali.
Il punto è un altro e riguarda piuttosto le discutibili scelte nella modalità delle cure, il "come" viene ancora oggi affrontato il dolore mentale, prima ancora dei "luoghi" più o meno adeguati all’assistenza di chi sta male e a volte malissimo. Il problema riguarda una certa miserrima cultura psichiatrica, priva di qualsiasi orizzonte etico, che continua con ostinazione a oggettivare gli esseri più sofferenti, a racchiuderli in gabbie diagnostiche senza senso prima ancora che senza anima, a utilizzare sempre e solo lo strumento dei farmaci: magari per sedarli se sono maniacali o per eccitarli se sono depressi. Il ricorso alla chimica, molto spesso utile, a volte indispensabile, diventa sempre una scorciatoia brutale in assenza di una disponibilità all’ascolto e quindi alla comprensione, alla capacità di cogliere un senso in quell’affondare tragico nella notte nera della follia, in quella condizione fatale che si traduce in esperienze segnate dall’ossessione e dall’enigma.
Già molto tempo fa questo genere di riflessioni coinvolgevano Eugenio Borgna, che oggi ha 78 anni, è primario emerito dell’ospedale maggiore di Novara - per suo merito non più un manicomio, ormai da tanto - e autore d’innumerevoli saggi, uno più brillante dell’altro: psichiatra da sempre in trincea ("dove si spara da tutte le parti"), uomo dalla sensibilità e dall’emotività molto accese, del tutto privo delle varianti intellettuali dell’algore.
Il tragitto del suo pensiero teorico è ora tracciato in un’antologia intitolata Nei luoghi perduti della follia: il volume raccoglie scritti pubblicati tra il 1964 e il 1984 e in qualche modo somiglia al "laboratorio di un autore", come scrive Federico Leoni nell’introduzione molto ben curata. ‟È una definizione più o meno accettabile - fa invece notare Borgna - trattandosi di scritti autonomi, completi, molto ramificati. Di sicuro non li sento datati e tanto meno estranei, non sono schegge’ successivamente ricomposte, ma lavori complessi che rimandano alla colpa, la morte, la nostalgia, il dolore, il concetto dell’io, il tema della schizofrenia ”. Sono scritti piuttosto tecnici, seppure di grande intensità, sottratti agli scaffali di biblioteche e archivi, che precorrono brillantemente i contenuti dei libri successivi pensati per un pubblico più ampio, meno specialistico.
In questo libro ad apparire credibile, agguerrita del suo antiriduzionismo, è comunque la psichiatria di area fenomenologica (Borgna ne è un esponente di punta, insieme con Bruno Callieri): decisamente estranea all’utopia farmacologica e alle pure classificazioni diagnostiche, ma anche a certe derive "antipsichiatriche" di un tempo, all’idea tutta ideologica che fosse la società cattiva a produrre la malattia. Oggi è facile sorridere di queste sciocchezze dovute ai furori anticapitalistici dell’epoca, ma allora a sinistra un po’ tutti
Non nel caso di Borgna. Basta dare un’occhiata a un suo testo datato 1978 che ha per titolo La parabola agonica della psichiatria, messo in chiusura alla raccolta antologica - uno scritto davvero sorprendente per chiarezza e lucidità. In un passaggio si legge: ‟La contestazione radicale delle ideologie psichiatriche (di quelle ancorate al positivismo scientifico-naturalistico in particolare) e la drastica riaffermazione della problematicità di ogni definizione articolativa di malattia’ mentale (e di ab-normalità’) sono state condotte avanti con estremo rigore dai movimenti antipsichiatrici; e sono in sé del tutto accettabili nella misura nondimeno in cui esse non ripropongano una diversa ideologia: l’assolutizzazione ideologica (cioè) delle categorie (conoscitive) sociologiche e sociogenetiche”. E ancora, più direttamente: ‟In ogni epoca storica e in ogni forma di società ci sono stati (e ci sono) i malati’ mentali. Le moderne indagini epidemiologiche non sono riuscite a dimostrare differenze qualitative nella frequenza d’insorgenza della schizofrenia nei diversi strati sociali”.
Lo stesso Basaglia, nei dieci anni precedenti all’approvazione della "sua" legge, aveva scritto testi di grande interesse teorico. ‟Erano - dice Borgna - lavori rigorosi di psichiatria fenomenologica, seppure più legati a Jaspers che a Binswanger. Poi, però, nell’enfasi rivoluzionaria’, su un piano più politico che del rigore indispensabile al metodo scientifico, in parte è scivolato anche lui su quel terreno molto franoso: il continente vastissimo e sempre inesplorato della follia diventava la conseguenza più o meno diretta di situazioni di ordine generale assegnando alla società il ruolo del diavolo”.
Ci sono state delle forzature o anche delle ingenuità, ma Borgna non è in linea con i critici più severi della legge, non la trova culturalmente rozza, schematica, demagogica, tecnicamente sbagliata, socialmente ingiusta «Sono argomenti che - già sul piano del metodo - trovo inconsistenti. La fuoriuscita dai manicomi lager è stata un’impresa che ancora oggi meriterebbe un consenso assoluto e senza riserve. Non è l’architettura di quella legge che dovrebbe scuotere le coscienze, ma piuttosto la violenza spropositata della psichiatria ufficiale, l’accademia orientata esclusivamente in senso farmacologico, le scuole di specializzazione segnate dalla sindrome del deserto emozionale e affettivo nei confronti dei pazienti».
Dalla lettura degli scritti di Borgna, è chiaro come anche la fenomenologia di matrice husserliana non gli sia stata sufficiente: poco alla volta l’interrogazione incessante sulla follia viene investita di tutti i grandi dilemmi filosofici della seconda metà del Novecento. Con un rimando costante anche alla grande letteratura, spesso utilissima a rischiarare le oscurità dell’anima. ‟Ad esempio - dice Borgna - le cose che Goethe ha scritto di Ottilia nelle Affinità elettive rappresentano un’anticipazione straordinaria, quasi profetica di quella sindrome clinica, oggi quanto mai problematica, che è l’anoressia”.
Dire però che la follia è la sorella sfortunata della poesia, pensare alla disperazione degli schizofrenici come a qualcosa di non troppo dissimile dalla nostra angoscia, può forse dissimulare gli aspetti più sgradevoli e alienanti della psicosi. ‟È vero”, dice Borgna. ‟Guai a precipitare nel gorgo della trionfalizzazione della malattia, guai però a non cogliere i significati umani che sopravvivono al suo interno, e in forme molto più intense e originali che in noi così spaventosamente normali’, divorati dalla banalità e dal vuoto, rapinati dalle chiacchiere e dall’incapacità di dare ascolto al dolore che sempre lo implora”.
La questione andrebbe vista forse da un’altra angolazione: più culturale che medica, ma non proprio irrilevante. Approvata il 13 maggio del 78, oggi compie trent’anni la legge nota anche col numero 180: cancellando la barbarie dei manicomi, ha tentato innanzitutto di restituire il sentimento della dignità ai malati, di considerare le loro vite "degne di essere vissute", non proprio un accidenti della natura più matrigna. Un tentativo nobile, sorretto da una forte idealità, segno - tra l’altro - che quegli anni non potranno restare nella memoria soltanto come la stagione plumbea del terrorismo o della collusione di massa con la "violenza giusta".
Quel tentativo - bisogna riconoscerlo - è comunque almeno in parte fallito: ma non "per colpa" della legge, voluta da un gruppo di psichiatri eccellenti prima che "rivoluzionari", aggettivo retorico di cui ormai si può fare a meno - sempre che sulle questioni di civiltà non ci siano tentazioni di sapore regressivo. Non c’è infatti un bilancio negativo di quello che è stato fatto rispetto a quello che resta da fare: sarebbe impossibile dimostrare il contrario, se non alterando i dati ufficiali.
Il punto è un altro e riguarda piuttosto le discutibili scelte nella modalità delle cure, il "come" viene ancora oggi affrontato il dolore mentale, prima ancora dei "luoghi" più o meno adeguati all’assistenza di chi sta male e a volte malissimo. Il problema riguarda una certa miserrima cultura psichiatrica, priva di qualsiasi orizzonte etico, che continua con ostinazione a oggettivare gli esseri più sofferenti, a racchiuderli in gabbie diagnostiche senza senso prima ancora che senza anima, a utilizzare sempre e solo lo strumento dei farmaci: magari per sedarli se sono maniacali o per eccitarli se sono depressi. Il ricorso alla chimica, molto spesso utile, a volte indispensabile, diventa sempre una scorciatoia brutale in assenza di una disponibilità all’ascolto e quindi alla comprensione, alla capacità di cogliere un senso in quell’affondare tragico nella notte nera della follia, in quella condizione fatale che si traduce in esperienze segnate dall’ossessione e dall’enigma.
Già molto tempo fa questo genere di riflessioni coinvolgevano Eugenio Borgna, che oggi ha 78 anni, è primario emerito dell’ospedale maggiore di Novara - per suo merito non più un manicomio, ormai da tanto - e autore d’innumerevoli saggi, uno più brillante dell’altro: psichiatra da sempre in trincea ("dove si spara da tutte le parti"), uomo dalla sensibilità e dall’emotività molto accese, del tutto privo delle varianti intellettuali dell’algore.
Il tragitto del suo pensiero teorico è ora tracciato in un’antologia intitolata Nei luoghi perduti della follia: il volume raccoglie scritti pubblicati tra il 1964 e il 1984 e in qualche modo somiglia al "laboratorio di un autore", come scrive Federico Leoni nell’introduzione molto ben curata. ‟È una definizione più o meno accettabile - fa invece notare Borgna - trattandosi di scritti autonomi, completi, molto ramificati. Di sicuro non li sento datati e tanto meno estranei, non sono schegge’ successivamente ricomposte, ma lavori complessi che rimandano alla colpa, la morte, la nostalgia, il dolore, il concetto dell’io, il tema della schizofrenia ”. Sono scritti piuttosto tecnici, seppure di grande intensità, sottratti agli scaffali di biblioteche e archivi, che precorrono brillantemente i contenuti dei libri successivi pensati per un pubblico più ampio, meno specialistico.
In questo libro ad apparire credibile, agguerrita del suo antiriduzionismo, è comunque la psichiatria di area fenomenologica (Borgna ne è un esponente di punta, insieme con Bruno Callieri): decisamente estranea all’utopia farmacologica e alle pure classificazioni diagnostiche, ma anche a certe derive "antipsichiatriche" di un tempo, all’idea tutta ideologica che fosse la società cattiva a produrre la malattia. Oggi è facile sorridere di queste sciocchezze dovute ai furori anticapitalistici dell’epoca, ma allora a sinistra un po’ tutti
Non nel caso di Borgna. Basta dare un’occhiata a un suo testo datato 1978 che ha per titolo La parabola agonica della psichiatria, messo in chiusura alla raccolta antologica - uno scritto davvero sorprendente per chiarezza e lucidità. In un passaggio si legge: ‟La contestazione radicale delle ideologie psichiatriche (di quelle ancorate al positivismo scientifico-naturalistico in particolare) e la drastica riaffermazione della problematicità di ogni definizione articolativa di malattia’ mentale (e di ab-normalità’) sono state condotte avanti con estremo rigore dai movimenti antipsichiatrici; e sono in sé del tutto accettabili nella misura nondimeno in cui esse non ripropongano una diversa ideologia: l’assolutizzazione ideologica (cioè) delle categorie (conoscitive) sociologiche e sociogenetiche”. E ancora, più direttamente: ‟In ogni epoca storica e in ogni forma di società ci sono stati (e ci sono) i malati’ mentali. Le moderne indagini epidemiologiche non sono riuscite a dimostrare differenze qualitative nella frequenza d’insorgenza della schizofrenia nei diversi strati sociali”.
Lo stesso Basaglia, nei dieci anni precedenti all’approvazione della "sua" legge, aveva scritto testi di grande interesse teorico. ‟Erano - dice Borgna - lavori rigorosi di psichiatria fenomenologica, seppure più legati a Jaspers che a Binswanger. Poi, però, nell’enfasi rivoluzionaria’, su un piano più politico che del rigore indispensabile al metodo scientifico, in parte è scivolato anche lui su quel terreno molto franoso: il continente vastissimo e sempre inesplorato della follia diventava la conseguenza più o meno diretta di situazioni di ordine generale assegnando alla società il ruolo del diavolo”.
Ci sono state delle forzature o anche delle ingenuità, ma Borgna non è in linea con i critici più severi della legge, non la trova culturalmente rozza, schematica, demagogica, tecnicamente sbagliata, socialmente ingiusta «Sono argomenti che - già sul piano del metodo - trovo inconsistenti. La fuoriuscita dai manicomi lager è stata un’impresa che ancora oggi meriterebbe un consenso assoluto e senza riserve. Non è l’architettura di quella legge che dovrebbe scuotere le coscienze, ma piuttosto la violenza spropositata della psichiatria ufficiale, l’accademia orientata esclusivamente in senso farmacologico, le scuole di specializzazione segnate dalla sindrome del deserto emozionale e affettivo nei confronti dei pazienti».
Dalla lettura degli scritti di Borgna, è chiaro come anche la fenomenologia di matrice husserliana non gli sia stata sufficiente: poco alla volta l’interrogazione incessante sulla follia viene investita di tutti i grandi dilemmi filosofici della seconda metà del Novecento. Con un rimando costante anche alla grande letteratura, spesso utilissima a rischiarare le oscurità dell’anima. ‟Ad esempio - dice Borgna - le cose che Goethe ha scritto di Ottilia nelle Affinità elettive rappresentano un’anticipazione straordinaria, quasi profetica di quella sindrome clinica, oggi quanto mai problematica, che è l’anoressia”.
Dire però che la follia è la sorella sfortunata della poesia, pensare alla disperazione degli schizofrenici come a qualcosa di non troppo dissimile dalla nostra angoscia, può forse dissimulare gli aspetti più sgradevoli e alienanti della psicosi. ‟È vero”, dice Borgna. ‟Guai a precipitare nel gorgo della trionfalizzazione della malattia, guai però a non cogliere i significati umani che sopravvivono al suo interno, e in forme molto più intense e originali che in noi così spaventosamente normali’, divorati dalla banalità e dal vuoto, rapinati dalle chiacchiere e dall’incapacità di dare ascolto al dolore che sempre lo implora”.
Nei luoghi perduti della follia di Eugenio Borgna
I libri ai quali Eugenio Borgna ha abituato i suoi lettori sono grandi arazzi, ampie sinfonie, in cui temi e motivi si inseguono e si riannodano in una trama di voci, in un intreccio di conversazioni, in un intrattenersi nello spazio della parola infinito, infinitamente modulato, variato, interrott…