Giorgio Bocca: Pechino 2008. Il vecchio mix sport & politica per la gloria dei nuovi mandarini

29 Luglio 2008
L’uso dello sport a fini politici è antico quanto i giochi che si celebravano per celebrare un potente, come quelli di Alessandro Magno a Babilonia. Gli atleti più forti dell’Ellade venivano assoldati e pagati per vincere le Olimpiadi dai principi e dai tiranni della Magna Grecia. Sibari o Siracusa festeggiavano le loro vittorie nella corsa o nel lancio del disco, Pindaro gli dedicava le sue odi, per l’appunto pindariche, come fossero degli dei.
Io, ragazzo negli anni del Duce, pagai il mio tributo atletico alle glorie di una federazione fascista, quella di Cuneo, prestandomi a una miserevole traversata a nuoto del Mar Piccolo di Taranto, in un’acqua sporca di nafta e di meduse, dove fummo tuffati dall’alto di una nave e presto ripescati dalle barche di soccorso per rituffarci vicino all’arrivo sotto il ponte girevole. Il tutto con la connivenza degli organizzatori che volevano far sapere a Roma la partecipazione massiccia della gioventù fascista, centinaia di giovani arrivati da tutte le province italiane, compresa quella di Cuneo priva di mare.
Ma la prova scoperta e un po’ ridicola dell’uso dello sport a fini politici la ebbi, sempre a Cuneo, alla vigilia dei campionati mondiali di calcio poi vinti a Parigi dall’Italia di Vittorio Pozzo. Il quale non era un fascista ma un uomo d’ordine, ex ufficiale degli alpini. Così, un mattino che stavo in piazza Vittorio, dai portici di corso Nizza mi vedo uscire gli azzurri con in testa Monzeglio, sì il terzino della Roma che giocava a calcio con i figli di Mussolini, e magari anche il Duce si univa al gruppo che correva dietro un pallone. Che fanno gli azzurri? Dove li conduce il commissario tecnico? Attraversano la piazza e svoltano in via Boves verso i giardini pubblici dove c’è la statua del milite ignoto, il milite ignoto minuscolo dei giardini pubblici di provincia in metallo macchiato dal verderame. Tutti sugli attenti e Pozzo e Monzeglio depongono una corona di alloro, e noi muti a osservare il rito un po’ funebre per poi accompagnare la squadra che fa fianco destr come in caserma, in diagonale per piazza Vittorio e poi su al campo Monviso per l’allenamento del mattino.
Ero ormai un uomo fatto quando un uso spericolato dello sport per la politica mi coinvolse in Giappone alle Olimpiadi del ‘64. Stavo nella tribuna stampa, proprio sotto quella d’onore su cui aveva preso posto l’imperatore Hirohito, e quando ci fu la sfilata di apertura e passò la squadra americana con bandiera a stelle e strisce annotai sul mio taccuino: ‟Ma guarda come gira il mondo, quell’ometto in tribuna li avrebbe sterminati tutti, questi americani, e adesso sono loro a rendergli omaggio”. Le agenzie di stampa ripresero la mia corrispondenza, e i giornali nipponici mi dedicarono una minaccia di morte fattami da una associazione di ex combattenti del Sol Levante. Presa molto sul serio dai burocrati sportivi del Coni che mi costrinsero a scrivere una lettera di scuse all’imperatore-dio.
Ho seguito altre Olimpiadi nei cinegiornali, come quella di Berlino, nel 1936, dove Hitler assisteva alle gare avendo al fianco il maresciallo Goering, e ricordo la volta che si voltò con dispetto e uscì dallo stadio perché aveva vinto, dopo i cento metri, anche il salto in lungo Jesse Owens, ‟un negro”, battendo i campioni germanici di razza ariana. Lì conobbi anche la Riefenstahl, la regista morta centenaria di recente. Allora era la protetta di Goebbels, il ministro-propaganda, e girava dei documentari in cui gli atleti tedeschi sembravano appena usciti dal Walhalla, che è il loro paradiso.
La commistione tra politica e sport è inevitabile in tutte le dittature in cui la propaganda ingenua ma irresistibile impone di far vedere che chi abita in un paese privo di libertà si consola però vincendo corse e lanci. Quelli che esagerarono furono i tedeschi della Germania Est, una fetta della grande Germania: pochi soldi, non molti milioni di abitanti, ma detentori di tutti i record, sempre primi nelle gare, specie le femminili, a cui mandavano anche le atlete con la barba e il sesso incerto, anni dopo operate nelle cliniche di Casablanca. Proibito sollevare dei dubbi sul loro sesso, le burocrazie sportive di tutti i paesi, compresa la nostra, non lo tolleravano, anche loro avrebbero voluto poter chiudere un occhio sulle evidenze virili delle campionesse.
Poi ci fu, alle Olimpiadi di Città del Messico, lo scandalo degli atleti afro-americani che salutarono il pubblico a pugno chiuso come quelli del movimento antirazzista Black Panthers, cosa che entusiasmò la nostra Oriana Fallaci. L’uso della politica nello sport, nelle Olimpiadi in particolare, corre sempre il rischio dell’ipocrisia e della retorica. A quelle australiane venne messa in vetrina in tutti i modi Cathy Freeman, una quattrocentista aborigena che vinse l’oro e fu mostrata al mondo, in modo direi incauto, come campione di un popolo che sopravvive nelle riserve. E alle prossime cinesi assisteremo al trionfo atletico dei campioni di casa, selezionati tra un miliardo di persone e costretti ad allenamenti forzati. Per la gloria dei nuovi mandarini.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …