Gianfranco Bettin: Concessa la semilibertà a Pietro Maso. Caino può cambiare

16 Ottobre 2008
Quando ho incontrato per la prima volta Pietro Maso, in carcere a Verona, mi sono chiesto se quello fosse un uomo. E’ una domanda che ci si può fare anche di fronte a certi carnefici e non solo davanti a delle vittime. Stavo scrivendo il mio romanzo reportage sulla sua vicenda e avevo letto i materiali, visto le tremende fotografie della scena del delitto, il sangue, i corpi straziati dei genitori. Avevo anche letto una lettera straordinaria che padre Davide Turoldo aveva scritto, dal suo letto di malato terminale, a commento di quel delitto, a Giorgio Lago. Turoldo alludeva a una deriva più vasta, in cui si perdeva la consapevolezza di cosa volesse dire essere uomini, proprio in un tempo difficile che lo esigerebbe più che mai.
Non furono la ferocia, la ‟mostruosità” a colpirmi, in Pietro. Fu proprio la loro assenza, in un certo senso, e poi fu qualcos’altro. Fu un’ottusità, una stolidezza che nemmeno negli animali, nemmeno nelle belve, penso di aver mai visto. Ed è ovvio, in fondo, che sia così. La ferocia degli animali è inscritta nella loro natura: può spaventare, ma non è mai aberrante, non è mai snaturata appunto. Quello che mi colpì in Maso – e, in seguito, in altre persone, non sempre protagoniste di vicende così efferate – fu l’aberrante, la mostruosa assenza di consapevolezza, cioè di quello che fa di noi degli esseri pensanti, capaci di coscienza, capaci di elaborare e rispettare valori e principi, capaci di capire e non solo di seguire un istinto, di compiacere pulsioni e appetiti. Tutto questo mi sembrò mancare totalmente in quel ragazzo. Non era pazzo, non era alterato (a mio parere, nemmeno al momento del delitto, anche se la sentenza finale gli riconobbe quest’attenuante evitandogli l’ergastolo). Il suo gesto orrendo era l’esatta conclusione, la più estrema e impensabile, di un processo di diseducazione che aveva svuotato lui e i suoi complici (e tanti altri, in realtà) di quella consapevolezza positiva e l’aveva riempito di idee e ambizioni sbagliate, terreno fertile per la pianta velenosa del delitto. Sentii freddo, incontrandolo. Freddo di desolazione.
Poi, negli anni, identikit come il suo, li ho visti riprodursi fin troppo. In effetti, Pietro era un uomo, ma un certo tipo di uomo. Come scrive Cormac McCarthy a proposito di certi tipi descritti in Non è un paese per vecchi: ‟mi pareva di non aver mai visto qualcuno così e mi è venuto da chiedermi se magari non era un nuovo tipo di persona”. Sì, Maso era un nuovo tipo di persona, uno di quelli disposti a tutto per avere l’oggetto dei propri desideri. E’ vero, tipi così ne sono sempre esistiti. Ma non in questa forma banale, non con questa diffusione sociale (anche se è raro che producano delitti così estremi, per fortuna: si fermano prima, di solito, ma i disastri che fanno sono lo stesso enormi).
Perciò, il percorso successivo di Maso meritava di essere seguito. In carcere Pietro è molto cambiato. Con lui gli operatori sono stati assidui e severi. Ha avuto il primo breve permesso solo dopo 15 anni di buona condotta. Ha limitato, fino ad annullarle, le smanie da personaggio che aveva prima del delitto e nei primi tempi di triste fama. Chi ne ha accompagnato il percorso carcerario racconta che è un’altra persona, che finalmente ha preso coscienza e che può essere aiutata a ritrovare una strada anche – parzialmente – fuori dal carcere prima di aver scontato tutta la condanna. E’ ciò che prescrive la nostra Costituzione ed è ciò che ogni persona di buon senso deve augurarsi. La scelta del tribunale di sorveglianza di Milano non va, perciò, intesa come espressione di lassismo o di buonismo. E’ solo coerente con l’ispirazione fondamentale della Repubblica e sorretta dalle perizie e dai referti di chi ha rigorosamente valutato il cammino del detenuto.
C’è bisogno di severità, di forti richiami a un ordine razionale, in questo tempo di disordini distruttivi. Se nessuno deve toccare Caino, ad Abele va resa giustizia. Ma c’è anche bisogno di storie vere di redenzione. C’è bisogno che si mostri possibile il ritorno dall’infamia. Che di Caino si sappia che ha davvero cambiato vita e cuore e coscienza. Oggi si chiede a Pietro Maso – in un certo senso, l’archetipo di queste cupe ‟persone nuove” - di dimostrarlo, ovviamente sotto osservazione e vigilanza. Se ci riuscisse, sarebbe una buona notizia per tutti.

Eredi di Gianfranco Bettin

Come Truman Capote scrisse A sangue freddo ispirandosi a una drammatica e sconvolgente vicenda di cronaca che studiò da vicino, così Gianfranco Bettin per scrivere L'erede fece una vera inchiesta sul caso di Pietro Maso, cercando di individuare le motivazioni profonde e le influenze del contesto ch…