L’Afghanistan? Un paradosso. Una conversazione tra Nadeem Aslam e Guido Rampoldi

06 Novembre 2008
Se stiamo ai precedenti e al senso comune, un occidentale e un orientale che scrivono ciascuno un romanzo sull'Afghanistan dei Taliban, dei burqa e di tutti gli spionaggi oggi lì riuniti, racconteranno quella bolgia da due prospettive molto diverse, se non opposte.
Essendo parte dell'esperimento non sono il più indicato per giudicare, Posso però affermare di aver colto tanto alterità quanto curiosi echi tra La veglia inutile del pakistano Nadeem Aslam e il mio La mendicante azzurra. La differenza principale, credo, nasce dalla minore o maggiore distanza con la storia di quella parte del mondo.
Aslam vi è dolorosamente dentro, come scopro quando lo chiamo a Londra, dove vive. Nel 1979 suo padre, regista e intellettuale comunista, fu costretto a fuggire con la famiglia in Gran Bretagna condannato all'esilio da una dittatura militare che partecipava alla "guerra santa" contro l'Armata rossa in Afghanistan e perciò godeva dell'appoggio occidentale. Quel conflitto partecipa allo sfondo del suo romanzo, e probabilmente è anche l'origine di uno stile tragico e lirico, come spesso è lo stile dell'esilio. La mia esperienza è stata diversa. Ho potuto entrare e uscire dall'Afghanistan dei Taliban con le salvaguardie di cui ancora godevano i giornalisti, e ho raccontato quel mondo stralunato in una forma più lieve. Vi ho ambientato una vicenda che si presta a essere letta anche come un romanzo d'avventura, e talvolta ho sconfinato nel paradossale senza temere di sporcare la tragedia afghana. Non è forse paradossale la stessa vicenda privata di Aslam? La Gran Bretagna che accolse generosamente lui e la sua famiglia è lo stesso Paese che in quel tempo sosteneva sia la dittatura che li aveva costretti all'esilio sia il fondamentalismo armato che da allora è la rovina del Pakistan.
Dunque cos'è per te la Gran Bretagna, Nadeem?, gli ho chiesto. È la tua nuova patria, o il Paese che ha cambiato in peggio la tua vera patria?
‟Le due cose insieme. Le sono grato perché ci accolse come rifugiati politici. Ma sono anche pieno dì risentimento.”
A me interessava raccontare questo Occidente, L'Occidente che con una mano dà e con l'altra prende, che salva e immola, che suscita speranze e le tradisce, che obbedisce alla propria etica e al tempo stesso la rinnega per perseguire i propri interessi. Credo che non esista al mondo sistema altrettanto generoso, e però così efficace nel soddisfare la propria avidita. Credo anche che questa difformità nel comportamenti rimandi a una natura duplice e irrisolta, più che a una doppiezza programmatica. Ma il confine è labile e comunque non evita all'Occidente di pagare il prezzo delle proprie ambiguItà, così come capita, e nella maniera più sorprendente, a un personaggio del mio romanzo,
Mi sono Imbattuto In questo Occidente double-face varie volte, A Peshawar, in Pakistan, era l'organizzazione umanitaria che garantiva una copertura ai servizi segreti statunitense e britannico, A Kandahar era la delegazione di una grande agenzia umanltana impegnata a convincere i Tallban a ingannare la stampa internazionale con cambiamenti cosmetici, affinché l'aggressIvità dei mullah verso le ragazze afghane non dissuadesse alcuni governi europei dal finanziare un certo progetto, da cui quei consulenti avrebbero ricavato buon lucro. A Islamabad era il segretario generale dell'Onu, che con l'avallo dell'amministrazione Bush, incontrava il ministro degli Esteri afghano, e implicitamente apriva la porta al riconoscimento dell'emirato, malgrado due mesi prima i Taliban avessero distrutto I Buddha di Bamyan.
Era l'Occidente che in precedenza aveva montato assieme a Bin Laden l'ambigua "guerra santa" contro i sovietici, e in seguito si affidò all'Onu e all'umanitarismo per tentare di montare una "pace" non meno ambigua, finché il gioco non gli esplose in faccia. Invece l'Occidente di Aslam è grossomodo un'emanazione del Pentagono, I suoi campioni sono guerrieri americani, militari o spie, che hanno combattuto l'Urss e ora combattono AI-Qaeda, "Una delle domande che intendo porre”, mi dice, "è se una superpotenza possa sacrificare un Paese sul tavolo dei propri giochi geopolitici e attendersi di non soffrirne le conseguenze. Cacciata l'Armata rossa, gli Usa e l'Occidente si disinteressarono all'Afghanistan, e decine di migliaia di persone morirono in una feroce guerra civile, Ma dieci anni dopo, 1'11/9, le conseguenze si abbatterono su tutti, non soltanto sugli afghani.
Uno dei protagonisti di La veglia inutile è appunto un giovanissimo kamikaze addestrato da AI-Qaeda, Aslam mi dice di aver incontrato ragazzi con quel passato: ‟Erano convinti che l'lslam fosse attaccato e in grandissimo pericolo”. Tuttora gli ispirano "molta simpatia". ‟Ho solo disprezzo per quelli che li convincono a immolarsi e a immolare innocenti. Ma loro no, sono civili, non sono bruti. Li paragona ai passeggeri del terzo aereo dirottato 1'11 settembre, gli americani che si ribellarono ai dirottatori e scelsero di schiantarsi al suolo.
Non credo che riuscirei a provare simpatia per un kamikaze, ma confesso di non aver trovato ripugnanti afghani che secondo i nostri codici andrebbero esecrati. Coltivatori di papavero da oppio, consapevoli di quel che avrebbe provocato In Europa il loro raccolto: ma il grano non garantiva abbastanza per ricoverare in una clinica i loro figli, in caso di bisogno, L'infermiere che a Kandahar eseguiva le amputazioni, uomo mitissimo, timido, era anche il sovrintendente dell'ospedale della città, dove dormiva con tutti i suoi averi, pochi panni e un Corano alto un metro, Il mujahid che al tempo della guerra contro i russi aveva strangolato 900 prigionieri, perché, mi disse, "non sapevamo cosa fare, dove tenerli, come sfamarli”. Quando compaiono nel mio libro, questi afghani non hanno lo stigma del male.
Ma un'altra cosa è la ferocia che i guerrieri afghani hanno abbattuto e abbattono sulle loro donne. Il romanzo di Aslam e Il mio ne raccontano da una prospettiva identica, contro quel pregiudizIo occidentale che vorrebbe le afghane contente di vivere in una condizione schiava giacché quella sarebbe "la loro cultura".
Come mi ricorda Aslam, anche in Pakistan gli occidentali chiamano "cultura" costumi in realtà imposti dall'estremlsmo islamlco: "Per esempio in Europa si crede che per i codici pakistani sia disdicevole mangiare in pubblico durante il Ramadan Ma nel 1979, quando lasciai il Paese, non era affatto così”.
Ingenuo o furbo, quel malinteso ci rende invisibili le ragazze afghane, la loro sofferenza, il loro coraggio, Oggi non esiste al mondo nulla di più eroico che insegnare aritmetica alle bambine di città e villaggi funestate dal Taliban. Eppure non conosciamo neppure il nome delle maestre giovanissime che sono state assassinate perché si cimentavano In un'impresa tanto rivoluzionaria. Non c'è un documentario, una corrispondenza, un monumento, una lista di nomi che ricordi il loro sacrificio.
A queste ragazze ho dedicato un romanzo la cui protagonista è appunto una maestra afghana. Sotto quel burqa ho messo l'odio inesorabile che avevo letto sui volti delle donne rifugiate a Quetta, mentre I bombardamenti americani smantellavano l'emirato.
Sette anni dopo, i Taliban sono in rimonta e molta parte del mondo chiede alla Nato di lasciare l'Afghanistan. Aslam non ama la Nato. Ignoro se sia comunista, però ritiene il comunismo lo strumento migliore per cambiare le società feudali. "Se sei un contadino o un manovale pakistano, afghano, Indiano, sei in possesso del tuo datore di lavoro. Può ammazzarti, bastonarti, stuprare tua figlia: qualunque cosa. Se si potesse spiegare a costoro che c'è un sistema attraverso il quale si può sradicare la classe feudale, credi che non ne sarebbero entuasiasti?”, dice.
Eppure sull'Afghanlstan Aslam non la pensa come la sinistra radicale europea, o come l'opinione pubblica pakistana. Del suo ultimo viaggio racconta: "Arrivo in Pakistan e tutti mi ripetono che l'imperialismo americano deve lasciare la regione. Entro In Afghanistan e tutti mi dicono che gli americani non devono andarsene, altrimenti torneranno I Taliban”. Come Aslam sa bene, hanno ragione gli afghani.

La mendicante azzurra di Guido Rampoldi

Oliver, detto Nix, lavora per le Nazioni Unite ed è alla sua prima missione in Afghanistan. Il paese è in mano ai talebani, regna il caos e gli attentati suicidi sono all’ordine del giorno. Nix lo sa bene, è preparato, ma non è pronto all’incontro che sconvolge la sua vita: una misteriosa mendicant…