Isabel Allende tra storia, schiavismo e passioni
Quando Toulouse Valmorain, erede di una piantagione di zucchero a Saint-Dominque, sbarcò incredulo al porto di Le Cap non sapeva che quella terra, fino a pochi anni prima, non aveva padroni né servi, né pirati o millantatori, ma solo una società fatta di razze differenti e una magica religione che a Papa Bondye e ai loa affidava preghiere e speranze. Valmorain dimenticò presto gli ideali illuministici e quando comprò Zarité dalla cortigiana più sensuale e corteggiata, si era già abbandonato sia al suo destino da ricco, grazie allo sfruttamento di neri che ‟soffrono meno a differenza dei bianchi che non avrebbero retto quello che loro sopportavano”, sia a quello di proprietario che approfittava del potere perché in quel tempo ‟chi non ne abusava non meritava di averlo”. A nove anni Zarité desiderava solo scappare e spingersi verso le vette più alte, regno dei cacicchi morti e ora culla dei neri fuggiaschi raccolti in comunità guerriere pronte alla ribellione. Ma i suoi piccoli piedi e le sue povere forze la costrinsero ad abbandonarsi a un sorte segnata dal dolore, destinata all’asservimento ai voleri, troppo spesso violenti e carnali, di un padrone irrispettoso e spesso ingrato, che esercitava potere assoluto su altre vite con il conseguente carico di tentazione e degradazione.
Zarité, invece, seppe amare sebbene con paura. Si abbandonò a un piacere originario privo di imposizioni o di obblighi ma, sciaguratamente, non duraturo perché ‟il destino di un guerriero è la guerra e non l’amore”. Quando finalmente l’isola tremò per il fragore di un odio antico che aveva atteso quel pretesto per esplodere, Zarité, da madre quale sarebbe poi diventata, lottò affinché la giustizia prevalesse sull’ingiusta oppressione nera, si batté affinché il sangue versato desse poi spazio al trionfo dell’abolizionismo che, ‟come una palla di neve che rotolando cresce e prende velocità”, non sarebbe stato frenato da alcuno. Resa coraggiosa dall’affetto materno e dalla brama di riscatto, Zarité si avventurò in una nuova terra e aiutata da padre Antoine, un don Cristoforo decisamente temerario, e da chi come lui appoggiò l’emancipazione degli schiavi, contribuì a dare vita all’identità latinoamericana moderna.
La minuziosa attenzione per quei particolari che nei manuali di storia sono da sempre celati, la voglia di abitare corpi di donne che con durezza hanno collaborato affinché i diritti di tutti, e non solo dei neri, venissero integrati in costituzioni e trattati, hanno spinto la Allende a incarnarsi nella pelle nera della protagonista, ‟la cui immaginazione può far si che le cose accadano”. Soffre, spera, ama, vive la sua libertà con adolescente contentezza Zarité e con lei anche il lettore. Il potere della scrittrice consiste proprio nel trasportare, chi sfoglia le pagine, in quel lontano fine 700, tra Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, Rivoluzione francese e consolato napoleonico. Quello della Allende è un libro di attese, tutto è questione di tempo: liberazione, assoluzione, arrivi, ritorni, fughe, nascite e morti. Ogni cosa è scandita dal battito di Zarité che, forse involontariamente, agisce allo stesso tempo da matrona e da dea, proprio come la sua protettrice Erzuli, sulla vita di tutti i personaggi che sulla scena appaiono per restarci o per essere dimenticati. Tutti comunque in attesa di essere condotti, appunto, ne L’Isola sotto il mare.