"Gaia Servadio è stata inviata di guerra, cronista politica, reporter di mafia; ha vissuto in castelli e stamberghe, è stata benestante e poverissima, spericolata, comunque, sempre. Soprattutto, non ha mai rinunciato e ancora non rinuncia a vedere il bichiere mezzo pieno."
Isabella Bossi Fedrigotti, Il Corriere della Sera

Questo libro egocentrico, spregiudicato, beffardo, impetuoso, hippy, pettegolo, esilarante, snob, vitalissimo, compiaciuto e colto riflette bene l'autrice, nel senso che gli attribuiti qui elencati calzano alla sua persona.
Leonetta Bentivoglio, La Repubblica

Qui di seguito, alcuni momenti del libro.

Persino l’asfalto era crivellato di buchi, dappertutto macerie, mattoni anneriti dagli incendi, pietre fuligginose, pallottole incastrate tra brandelli di mura. Le case quasi completamente distrutte avevano lasciato una traccia come se avessero voluto proclamare la propria passata esistenza. I muri più alti, quelli che una volta avevano sorretto stanze dove vivevano famiglie in situazioni domestiche più o meno normali, mi arrivavano sì e no alla cintola. Era appena possibile indovinare l’esistenza di una strada, di una piazza, di un quartiere. Il paesaggio era brutto e doloroso, eppure avevo fatto un vero sforzo per vedere Stalingrado. [...]
Per una bambina, nell’inverno del 1943, Stalingrado era un suono, non una città, probabilmente non sapevo neanche cosa fosse uno stato o una nazione; Stalingrado era un simbolo, la luce in fondo al tunnel, la speranza. Non che capissi molto, avevo quattro anni, ma sapevo che, dopo Stalingrado, forse la guerra non sarebbe stata vinta dai cattivi. Capivo però che eravamo in pericolo.
Alla fine degli anni cinquanta, incontrai a Londra un giovane oxfordiano che aveva un passato siciliano – era un discendente dei Whitaker – e che aveva formato una Danilo Dolci Society. Volevo farne parte? Non solo diventai membro di questo gruppo di brava gente, ma mi trovai a gestire somme, a prendere decisioni e persino a trattare questioni italiane con persone ben piu anziane e mature di me. Pero della Sicilia non sapevo assolutamente niente, a parte che avevo un nonno di Messina, un nonno bellissimo, morto di peritonite a meno di quarant’anni. Della mafia non si parlava, anzi, era maleducato nominarla, ma ero l’unica del gruppo che conosceva Danilo Dolci. Il quale, con un colpo di genio, aveva richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica sulla poverta e l’ingiustizia che regnavano in Sicilia. Aveva organizzato uno sciopero alla rovescia. E cioe, dato che tra Partinico e Trappeto non c’era una strada e che, benche fosse stata progettata, non veniva costruita (avrebbe dato fastidio alla mafia), un gruppo di braccianti non pagati si mise al lavoro. Trappeto era sul mare, vicino a Montelepre, dove regnava Salvatore Giuliano – Turiddu –, che sequestrava i ricchi e uccideva gli sbirri. Dall’altra parte della montagna c’erano la Conca d’Oro e Palermo; dopo le sette di sera, il coprifuoco. Era un altro tipo di guerra.
Andai a Torino a parlare con il mio direttore e gli chiesi di mandarmi in Israele, Giulio De Benedetti mi chiese se ero matta, e disse che comunque la guerra non ci sarebbe stata. Insistetti. Se scoppiava la guerra gli avrei mandato degli articoli e lui doveva pubblicarli. Vedremo, mi rispose. Cosi Inge e io partimmo con uno degli ultimi voli. La hall del King David Hotel a Gerusalemme era piena di valigie, pacchi e bauli. Tutti se ne andavano alla chetichella, e non solo i turisti. Il portiere ci fece dei prezzi stracciati e l’albergo rimase vuoto, a parte i corrispondenti. Due giorni dopo il nostro arrivo, l’aeroporto venne chiuso ai civili.
È difficile ricreare l’atmosfera di una terra circondata da nemici che promettevano di sterminare i suoi abitanti. Come avrei visto piu avanti, entrando a Gaza, sugli striscioni appesi per le strade apparivano ebrei dai nasi adunchi che annaspavano nel mare.
LI AFFOGHEREMO TUTTI, dicevano le scritte in arabo – ma anche in inglese, tanto per non essere fraintesi. Fotografai quelle immagini
Camminavamo per Londra, non arrivavamo mai, e Philip parlava e parlava, disperato, di Primo Levi, di quello che avevano significato i suoi scritti, degli incontri a Londra e poi a Torino. Sai, non porto mai nessuno nel mio studio. Difatti non sapevo neanche che lo avessi. Che credi? Che in quella casa riesca a scrivere? Scrivere era la sua missione, la sua passione, e lo faceva bene. Ci sono pagine di Philip che vorrei sapere a memoria. Ma non è uno scrittore ebreo come a volte dice di essere, Philip Roth è lo scrittore dell’epica americana. Descrive l’America contemporanea, come aveva fatto Nabokov, che con Lolita (e altri meravigliosi romanzi) canta la saga di gente sempre in movimento.
Passavano i taxi, ma Philip camminava e camminava. Senti, ma dov’è questo tuo studio? Perché?, sei stanca? A volte Philip mi intimidiva con la forza della sua determinazione, se decideva qualcosa non bisognava contraddirlo.
Lo avevo incontrato qualche anno prima a colazione da una dama americana, con la casa a Chester Square, cuoco, domestici e mazzi di orchidee. La tavolata discuteva di Woody Allen, allora ai primi film, humour newyorkese ebraico e borghese, e la tavolata di gente esimia – compresi Martin Amis e Mick Jagger – lo ammirava. Philip, che mi era seduto accanto e con il quale fino allora c’era stata una piatta conversazione, si volto verso di me e mi chiese cosa ne pensavo io, di Woody Allen. Non mi interessa affatto, gli risposi. Al che Philip si impose sulla conversazione generale. Sentite, questa qui ha detto la cosa giusta, l’unica che bisognava dire e pensare: non e che sia bello o brutto, non le interessa.
Middle brow, inutile. Cosi comincio la nostra amicizia.

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Raccogliamo le vele di Gaia Servadio

Raccogliamo le vele dispiega, secondo una deliberata struttura virgiliana, i fatti che sono parte della ricchissima biografia di Gaia Servadio, donna segnata dal destino felice di stare nel mondo con la scioltezza della ragazza che è sempre stata. Figlia del chimico Luxardo Servadio, cono…