Edwad W. Said: Alternative palestinesi
18 Gennaio 2002
L’intifada palestinese è cominciata quindici mesi fa, ma da allora ha dato pochi risultati politici. E questo nonostante la forza dimostrata da un popolo che, sotto occupazione militare, disarmato, con una leadership insufficiente ed espropriato della sua terra, continua a sfidare la macchina da guerra israeliana.
Negli Stati Uniti, il governo e i mezzi di informazione «indipendenti» con poche eccezioni battono sul tasto delle violenze e degli atti di terrorismo compiuti dai palestinesi, sorvolando sui trentacinque anni di occupazione militare israeliana, la più lunga della storia moderna. Dall’11 settembre il governo americano accusa ufficialmente l’Autorità Palestinese, guidata da Yasser Arafat, di offrire riparo e persino aiuto ai terroristi. Un’accusa che ha dato nuovo fondamento all’assurda tesi del governo Sharon: nella guerra spietata e indiscriminata condotta da Israele contro civili, beni e istituzioni, Israele sarebbe la vittima e i palestinesi gli aggressori.
Brutalità israeliana
Così oggi i palestinesi sono rinchiusi in 220 ghetti controllati dall’esercito. Gli elicotteri Apache, i carri armati Merkava e gli F-16 forniti dal governo americano falciano ogni giorno persone, case, uliveti e campi; scuole e università, imprese e istituzioni civili sono paralizzate; centinaia di civili innocenti sono stati uccisi e decine di migliaia feriti; proseguono gli omicidi di leader palestinesi compiuti dagli israeliani. I tassi di disoccupazione e di povertà sono intorno al 50 per cento.
Il tutto mentre il generale Anthony Zinni continua a blaterare di «violenze» palestinesi, rivolgendosi a uno sventurato Arafat che non può neanche lasciare il suo ufficio di Ramallah perché i carri armati israeliani lo tengono prigioniero. E mentre i rimasugli delle sue varie forze di sicurezza si affannano a sopravvivere alla distruzione dei loro uffici e delle loro caserme. A peggiorare le cose, gli islamisti palestinesi hanno fatto il gioco dell’instancabile macchina propagandistica di Israele e dei suoi militari, compiendo capricciosi e sporadici attentati suicidi di cieca barbarie. Alla metà di dicembre i loro gesti hanno costretto finalmente Arafat a scatenare contro Hamas e la Jihad islamica quel che resta delle sue forze di sicurezza che hanno arrestato militanti, chiuso uffici, sparato qua e là e ucciso manifestanti.
Di fronte a questa accozzaglia di aggressioni israeliane brutali e illogiche la sconcertante risposta di Arafat è stata di continuare a chiedere il ritorno al tavolo delle trattative. Come se non fosse più che evidente l’intenzione di Sharon di ostacolare anche la minima eventualità di una trattativa; come se l’idea stessa del processo di pace di Oslo non fosse già svanita. Quello che mi sorprende è che, tranne pochissimi israeliani (fra cui, ultimamente, David Grossman), nessuno si fa avanti per dire apertamente che Israele perseguita i palestinesi in quanto abitanti originari del paese.
Segnali incoraggianti
Ma guardando più da vicino la realtà palestinese si scorge qualche segnale incoraggiante.
Per esempio, un recente sondaggio ha mostrato che Arafat e i suoi avversari islamisti (che a torto si autodefiniscono «la resistenza») riscuotono insieme fra il 40 e il 45 per cento dei consensi. Vuol dire che fra i palestinesi esiste una maggioranza silenziosa che non si schiera né con la politica dell’Autorità né con le violenze di Hamas. Come risposta a questo stato di cose, Arafat ha incaricato Sari Nusseibeh, personalità di spicco di Gerusalemme, presidente dell’università al-Quds e storico sostenitore di al-Fatah, di lanciare una specie di ballon d’essai pronunciando discorsi in cui fa capire che se Israele fosse appena un po’ più gentile, i palestinesi potrebbero anche rinunciare al loro diritto al ritorno.
Inoltre una sfilza di personalità palestinesi vicine all’Autorità (o per maggiore esattezza, che non sono indipendenti da essa) hanno firmato dichiarazioni e girato il paese insieme a esponenti pacifisti israeliani completamente privi di potere, screditati e inefficaci. Nelle loro intenzioni queste comparsate dovrebbero dimostrare che i palestinesi sono disposti a fare la pace a qualsiasi costo, anche tenendosi l’occupazione militare. Nel suo irrefrenabile desiderio di rimanere al potere, Arafat resta imbattuto.
Ma un po’ a margine di tutto questo, tra i palestinesi sta lentamente emergendo una nuova corrente di nazionalisti laici. È troppo presto per definirla un partito o un blocco. Per ora si tratta di un gruppo che ha una sua visibilità, indipendente e popolare. Tra i suoi membri ci sono Haidar Abdel Shafi e Mostafa Barghouti (da non confondere con l’attivista dei Tanzim Marwan Barghuti, suo parente alla lontana), Ibrahim Dakkak, i docenti universitari Ziad Abu Amr, Ahmad Harb, Ali Jarbawi e Fouad Moghrabi, i membri del consiglio legislativo Rawiya Al-Shawa e Kamal Shirafi, più alcuni scrittori come Hassan Khadr e Mahmoud Darwish, Raja Shehadeh, Rima Tarazi, Ghassan al-Khatib, Naseer Aruri, Eliya Zureik e io stesso.
Riacquistare fiducia
Alla metà di dicembre questo gruppo ha reso pubblico un documento di cui hanno ampiamente parlato i mezzi d’informazione arabi ed europei, mentre negli Stati Uniti nessuno ne ha fatto cenno. Nel documento si fa appello all’unità e alla resistenza dei palestinesi e si chiede la fine incondizionata dell’occupazione militare israeliana, ma si evita volutamente di chiedere la ripresa dei negoziati di Oslo. Siamo infatti convinti che negoziare un miglioramento delle condizioni dell’occupazione significhi prolungarla. La pace può tornare solo dopo la fine dell’occupazione.
Nel documento sottolineiamo in particolare la necessità di migliorare la situazione politica interna dei palestinesi: rafforzare la democrazia; «rettificare» il processo decisionale, interamente controllato da Arafat e dai suoi uomini; ribadire la sovranità della legge e l’indipendenza del potere giudiziario; impedire ulteriori sprechi del denaro pubblico; infine, consolidare le funzioni delle istituzioni in modo che i cittadini riacquistino fiducia nei loro rappresentanti. L’ultima richiesta, e anche la più decisiva, è quella di nuove elezioni parlamentari.
Al di là delle interpretazioni date a questo documento, la firma di tante personalità indipendenti e di spicco del mondo culturale, professionale e sindacale non ha lasciato indifferenti né i palestinesi (che ci hanno letto la critica più impietosa rivolta finora al regime di Arafat) né i militari israeliani. Inoltre, proprio mentre l’Autorità si affrettava a obbedire a Sharon e a Bush compiendo retate dei soliti sospetti islamisti, il dottor Barghouti ha portato in piazza un Movimento internazionale di solidarietà non violento, di cui fanno parte circa 550 osservatori europei (molti sono parlamentari di Strasburgo) arrivati in Israele a proprie spese. Alla manifestazione ha partecipato un gruppo di giovani palestinesi disciplinatissimi, che insieme ai loro compagni europei hanno compiuto azioni di disturbo agli spostamenti delle truppe e dei coloni israeliani, impedendo però lanci di pietre o spari da parte palestinese.
Fuori gioco
La dimostrazione ha messo efficacemente fuori gioco l’Autorità e i militanti islamisti e ha posto le premesse perché l’attenzione si concentri sull’occupazione militare israeliana. Questo accadeva mentre gli Stati Uniti ponevano il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che decideva l’invio di un gruppo internazionale di osservatori disarmati che si frapponesse fra l’esercito israeliano e i civili palestinesi.
Il primo risultato di questa iniziativa è stato che il 3 gennaio, dopo la conferenza stampa tenuta da Barghouti a Gerusalemme est con circa 20 esponenti europei, gli israeliani l’hanno arrestato, incarcerato e interrogato due volte, gli hanno rotto il ginocchio con i calci dei fucili e l’hanno ferito alla testa, dicendo che aveva turbato l’ordine pubblico ed era entrato illegalmente a Gerusalemme (anche se c’è nato e ha un permesso medico per entrarci).
Naturalmente lui e i suoi sostenitori non si sono scoraggiati e proseguiranno l’attività non violenta, che secondo me è il modo più efficace per prendere il controllo dell’intifada, già troppo militarizzata, per dare un respiro nazionale alla lotta per la fine dell’occupazione e degli insediamenti, e per indirizzare i palestinesi verso la nascita di un’entità statale e verso la pace. Israele deve temere più un palestinese indipendente, razionale e rispettato come Barghouti, che i barbuti estremisti islamici indicati a torto da Sharon come la principale minaccia terroristica per Israele. Per ora si limitano ad arrestarlo, com’è tipico della politica fallimentare di Sharon.
Il dovere della sinistra
E allora dov’è la sinistra israeliana e americana, che si affretta a condannare la «violenza» senza dire una parola sulla vergognosa e criminale occupazione militare israeliana? Suggerisco di salire sulle barricate (letterali e figurate) insieme a coraggiosi militanti come Jeff Halper e Luisa Morgantini, e di appoggiare questa nuova grande iniziativa laica palestinese. Dopo che per un anno si sono stracciati le vesti collettivamente, lamentando l’assenza di un movimento per la pace palestinese (ma da quando un popolo occupato militarmente deve avere un movimento per la pace?), i cosiddetti pacifisti in grado di influenzare i militari israeliani hanno il chiaro dovere politico di organizzarsi subito contro l’occupazione, senza condizioni e senza pretese.
Qualcuno l’ha fatto. Qualche centinaio di riservisti israeliani ha rifiutato di prestare servizio militare nei Territori occupati. Una serie di giornalisti, militanti, accademici e scrittori di varie tendenze (fra cui Amira Hass, Gideon Levy, David Grossman, Ilan Pappe, Dani Rabinowitz e Uri Avnery) denuncia da tempo la criminale futilità della campagna di Sharon contro il popolo palestinese. Sarebbe importante se un gruppo simile si facesse sentire negli Stati Uniti, dove, tranne qualche isolata voce ebraica di opposizione, c’è fin troppa complicità e propaganda. Quanto alla comunità araboamericana, è troppo esigua e disorientata dallo sforzo di tenere a bada l’incessante escalation delle misure imposte dal Procuratore generale Ashcroft: retate, racial profiling e attacco alle libertà civili.
È urgente creare un coordinamento fra i gruppi laici che appoggiano i palestinesi. Un popolo la cui semplice presenza è ostacolata più dalla dispersione geografica che dalle spoliazioni commesse dagli israeliani. Porre fine all’occupazione militare e a tutte le sue conseguenze è un imperativo sufficientemente chiaro. Adesso dobbiamo metterlo in pratica. E gli intellettuali arabi non devono esitare a schierarsi con noi.
(1) Racial profiling: prima si fa un profilo dei tipi di crimine commessi più comunemente dalle varie minoranze etniche presenti nel paese, poi lo si usa selettivamente per tenerle sotto controllo. Si finisce sospettati di certi crimini solo perché questi sono frequenti nel proprio gruppo etnico. Il sillogismo è: ultimamente tutti gli atti di terrorismo sono stati commessi da arabi, lei è arabo, quindi lei è un terrorista. Ndt
Traduzione di Marina Astrologo
Negli Stati Uniti, il governo e i mezzi di informazione «indipendenti» con poche eccezioni battono sul tasto delle violenze e degli atti di terrorismo compiuti dai palestinesi, sorvolando sui trentacinque anni di occupazione militare israeliana, la più lunga della storia moderna. Dall’11 settembre il governo americano accusa ufficialmente l’Autorità Palestinese, guidata da Yasser Arafat, di offrire riparo e persino aiuto ai terroristi. Un’accusa che ha dato nuovo fondamento all’assurda tesi del governo Sharon: nella guerra spietata e indiscriminata condotta da Israele contro civili, beni e istituzioni, Israele sarebbe la vittima e i palestinesi gli aggressori.
Brutalità israeliana
Così oggi i palestinesi sono rinchiusi in 220 ghetti controllati dall’esercito. Gli elicotteri Apache, i carri armati Merkava e gli F-16 forniti dal governo americano falciano ogni giorno persone, case, uliveti e campi; scuole e università, imprese e istituzioni civili sono paralizzate; centinaia di civili innocenti sono stati uccisi e decine di migliaia feriti; proseguono gli omicidi di leader palestinesi compiuti dagli israeliani. I tassi di disoccupazione e di povertà sono intorno al 50 per cento.
Il tutto mentre il generale Anthony Zinni continua a blaterare di «violenze» palestinesi, rivolgendosi a uno sventurato Arafat che non può neanche lasciare il suo ufficio di Ramallah perché i carri armati israeliani lo tengono prigioniero. E mentre i rimasugli delle sue varie forze di sicurezza si affannano a sopravvivere alla distruzione dei loro uffici e delle loro caserme. A peggiorare le cose, gli islamisti palestinesi hanno fatto il gioco dell’instancabile macchina propagandistica di Israele e dei suoi militari, compiendo capricciosi e sporadici attentati suicidi di cieca barbarie. Alla metà di dicembre i loro gesti hanno costretto finalmente Arafat a scatenare contro Hamas e la Jihad islamica quel che resta delle sue forze di sicurezza che hanno arrestato militanti, chiuso uffici, sparato qua e là e ucciso manifestanti.
Di fronte a questa accozzaglia di aggressioni israeliane brutali e illogiche la sconcertante risposta di Arafat è stata di continuare a chiedere il ritorno al tavolo delle trattative. Come se non fosse più che evidente l’intenzione di Sharon di ostacolare anche la minima eventualità di una trattativa; come se l’idea stessa del processo di pace di Oslo non fosse già svanita. Quello che mi sorprende è che, tranne pochissimi israeliani (fra cui, ultimamente, David Grossman), nessuno si fa avanti per dire apertamente che Israele perseguita i palestinesi in quanto abitanti originari del paese.
Segnali incoraggianti
Ma guardando più da vicino la realtà palestinese si scorge qualche segnale incoraggiante.
Per esempio, un recente sondaggio ha mostrato che Arafat e i suoi avversari islamisti (che a torto si autodefiniscono «la resistenza») riscuotono insieme fra il 40 e il 45 per cento dei consensi. Vuol dire che fra i palestinesi esiste una maggioranza silenziosa che non si schiera né con la politica dell’Autorità né con le violenze di Hamas. Come risposta a questo stato di cose, Arafat ha incaricato Sari Nusseibeh, personalità di spicco di Gerusalemme, presidente dell’università al-Quds e storico sostenitore di al-Fatah, di lanciare una specie di ballon d’essai pronunciando discorsi in cui fa capire che se Israele fosse appena un po’ più gentile, i palestinesi potrebbero anche rinunciare al loro diritto al ritorno.
Inoltre una sfilza di personalità palestinesi vicine all’Autorità (o per maggiore esattezza, che non sono indipendenti da essa) hanno firmato dichiarazioni e girato il paese insieme a esponenti pacifisti israeliani completamente privi di potere, screditati e inefficaci. Nelle loro intenzioni queste comparsate dovrebbero dimostrare che i palestinesi sono disposti a fare la pace a qualsiasi costo, anche tenendosi l’occupazione militare. Nel suo irrefrenabile desiderio di rimanere al potere, Arafat resta imbattuto.
Ma un po’ a margine di tutto questo, tra i palestinesi sta lentamente emergendo una nuova corrente di nazionalisti laici. È troppo presto per definirla un partito o un blocco. Per ora si tratta di un gruppo che ha una sua visibilità, indipendente e popolare. Tra i suoi membri ci sono Haidar Abdel Shafi e Mostafa Barghouti (da non confondere con l’attivista dei Tanzim Marwan Barghuti, suo parente alla lontana), Ibrahim Dakkak, i docenti universitari Ziad Abu Amr, Ahmad Harb, Ali Jarbawi e Fouad Moghrabi, i membri del consiglio legislativo Rawiya Al-Shawa e Kamal Shirafi, più alcuni scrittori come Hassan Khadr e Mahmoud Darwish, Raja Shehadeh, Rima Tarazi, Ghassan al-Khatib, Naseer Aruri, Eliya Zureik e io stesso.
Riacquistare fiducia
Alla metà di dicembre questo gruppo ha reso pubblico un documento di cui hanno ampiamente parlato i mezzi d’informazione arabi ed europei, mentre negli Stati Uniti nessuno ne ha fatto cenno. Nel documento si fa appello all’unità e alla resistenza dei palestinesi e si chiede la fine incondizionata dell’occupazione militare israeliana, ma si evita volutamente di chiedere la ripresa dei negoziati di Oslo. Siamo infatti convinti che negoziare un miglioramento delle condizioni dell’occupazione significhi prolungarla. La pace può tornare solo dopo la fine dell’occupazione.
Nel documento sottolineiamo in particolare la necessità di migliorare la situazione politica interna dei palestinesi: rafforzare la democrazia; «rettificare» il processo decisionale, interamente controllato da Arafat e dai suoi uomini; ribadire la sovranità della legge e l’indipendenza del potere giudiziario; impedire ulteriori sprechi del denaro pubblico; infine, consolidare le funzioni delle istituzioni in modo che i cittadini riacquistino fiducia nei loro rappresentanti. L’ultima richiesta, e anche la più decisiva, è quella di nuove elezioni parlamentari.
Al di là delle interpretazioni date a questo documento, la firma di tante personalità indipendenti e di spicco del mondo culturale, professionale e sindacale non ha lasciato indifferenti né i palestinesi (che ci hanno letto la critica più impietosa rivolta finora al regime di Arafat) né i militari israeliani. Inoltre, proprio mentre l’Autorità si affrettava a obbedire a Sharon e a Bush compiendo retate dei soliti sospetti islamisti, il dottor Barghouti ha portato in piazza un Movimento internazionale di solidarietà non violento, di cui fanno parte circa 550 osservatori europei (molti sono parlamentari di Strasburgo) arrivati in Israele a proprie spese. Alla manifestazione ha partecipato un gruppo di giovani palestinesi disciplinatissimi, che insieme ai loro compagni europei hanno compiuto azioni di disturbo agli spostamenti delle truppe e dei coloni israeliani, impedendo però lanci di pietre o spari da parte palestinese.
Fuori gioco
La dimostrazione ha messo efficacemente fuori gioco l’Autorità e i militanti islamisti e ha posto le premesse perché l’attenzione si concentri sull’occupazione militare israeliana. Questo accadeva mentre gli Stati Uniti ponevano il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che decideva l’invio di un gruppo internazionale di osservatori disarmati che si frapponesse fra l’esercito israeliano e i civili palestinesi.
Il primo risultato di questa iniziativa è stato che il 3 gennaio, dopo la conferenza stampa tenuta da Barghouti a Gerusalemme est con circa 20 esponenti europei, gli israeliani l’hanno arrestato, incarcerato e interrogato due volte, gli hanno rotto il ginocchio con i calci dei fucili e l’hanno ferito alla testa, dicendo che aveva turbato l’ordine pubblico ed era entrato illegalmente a Gerusalemme (anche se c’è nato e ha un permesso medico per entrarci).
Naturalmente lui e i suoi sostenitori non si sono scoraggiati e proseguiranno l’attività non violenta, che secondo me è il modo più efficace per prendere il controllo dell’intifada, già troppo militarizzata, per dare un respiro nazionale alla lotta per la fine dell’occupazione e degli insediamenti, e per indirizzare i palestinesi verso la nascita di un’entità statale e verso la pace. Israele deve temere più un palestinese indipendente, razionale e rispettato come Barghouti, che i barbuti estremisti islamici indicati a torto da Sharon come la principale minaccia terroristica per Israele. Per ora si limitano ad arrestarlo, com’è tipico della politica fallimentare di Sharon.
Il dovere della sinistra
E allora dov’è la sinistra israeliana e americana, che si affretta a condannare la «violenza» senza dire una parola sulla vergognosa e criminale occupazione militare israeliana? Suggerisco di salire sulle barricate (letterali e figurate) insieme a coraggiosi militanti come Jeff Halper e Luisa Morgantini, e di appoggiare questa nuova grande iniziativa laica palestinese. Dopo che per un anno si sono stracciati le vesti collettivamente, lamentando l’assenza di un movimento per la pace palestinese (ma da quando un popolo occupato militarmente deve avere un movimento per la pace?), i cosiddetti pacifisti in grado di influenzare i militari israeliani hanno il chiaro dovere politico di organizzarsi subito contro l’occupazione, senza condizioni e senza pretese.
Qualcuno l’ha fatto. Qualche centinaio di riservisti israeliani ha rifiutato di prestare servizio militare nei Territori occupati. Una serie di giornalisti, militanti, accademici e scrittori di varie tendenze (fra cui Amira Hass, Gideon Levy, David Grossman, Ilan Pappe, Dani Rabinowitz e Uri Avnery) denuncia da tempo la criminale futilità della campagna di Sharon contro il popolo palestinese. Sarebbe importante se un gruppo simile si facesse sentire negli Stati Uniti, dove, tranne qualche isolata voce ebraica di opposizione, c’è fin troppa complicità e propaganda. Quanto alla comunità araboamericana, è troppo esigua e disorientata dallo sforzo di tenere a bada l’incessante escalation delle misure imposte dal Procuratore generale Ashcroft: retate, racial profiling e attacco alle libertà civili.
È urgente creare un coordinamento fra i gruppi laici che appoggiano i palestinesi. Un popolo la cui semplice presenza è ostacolata più dalla dispersione geografica che dalle spoliazioni commesse dagli israeliani. Porre fine all’occupazione militare e a tutte le sue conseguenze è un imperativo sufficientemente chiaro. Adesso dobbiamo metterlo in pratica. E gli intellettuali arabi non devono esitare a schierarsi con noi.
(1) Racial profiling: prima si fa un profilo dei tipi di crimine commessi più comunemente dalle varie minoranze etniche presenti nel paese, poi lo si usa selettivamente per tenerle sotto controllo. Si finisce sospettati di certi crimini solo perché questi sono frequenti nel proprio gruppo etnico. Il sillogismo è: ultimamente tutti gli atti di terrorismo sono stati commessi da arabi, lei è arabo, quindi lei è un terrorista. Ndt
Traduzione di Marina Astrologo
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Edward W. Said è nato nel 1935 a Gerusalemme ed è morto a New York il 25 settembre 2003. Esiliato da adolescente in Egitto e poi negli Stati Uniti, è …