Edward W. Said: Palestina. Guardare avanti

15 Aprile 2002
Chiunque abbia qualsiasi rapporto con la Palestina oggi è impietrito, sdegnato e sconvolto. Benché sia quasi una ripetizione di quel che accadde nel 1982, l’attuale offensiva coloniale di Israele contro il popolo palestinese (con l’appoggio disinformato e grottesco di George W. Bush) è in realtà peggiore delle due precedenti scorrerie di Sharon contro i palestinesi, nel 1971 e nel 1982. Oggi il clima politico e morale è molto più incivile e degradato. Il ruolo negativo dei media (che si sono concentrati quasi esclusivamente sugli attentati suicidi palestinesi, isolandoli dal contesto dei trentacinque anni di occupazione illegale israeliana dei Territori) è più marcato nel favorire le posizioni israeliane. Il potere degli Stati Uniti è incontrastato. La guerra contro il terrorismo ha monopolizzato l’agenda globale e nel mondo arabo l’incoerenza e la frammentazione sono più grandi che mai, almeno finora.
Gli istinti omicidi di Sharon sono stati potenziati (se si può usare questa parola) e amplificati da tutti gli elementi che abbiamo citato. Significa che il premier israeliano può fare impunemente più danni che mai, benché sia indebolito – come mai prima – dal fallimento che si ottiene con l’odio e la negazione ostinata, che alla fine non portano alcun successo, né politico né militare. Questo tipo di conflitto tra popoli contiene più elementi di quanti se ne possano eliminare con i carri armati e l’aviazione. E una guerra contro dei civili disarmati – non importa quante volte Sharon ripeta fragorosamente e in modo scriteriato i suoi stupidi ritornelli sul terrore – non potrà mai raggiungere un risultato politico veramente duraturo come quello che i suoi sogni gli fanno credere di poter raggiungere.
I palestinesi non se ne andranno. Sharon finirà quasi certamente per cadere in disgrazia ed essere ripudiato dal suo stesso popolo: non ha un piano, se non quello di distruggere qualunque cosa abbia a che fare con la Palestina e i palestinesi. Perfino nella sua feroce fissazione su Arafat e sul terrorismo riesce solo ad aumentare il prestigio del leader palestinese, attirando nel frattempo l’attenzione sulla cieca monomania delle sue posizioni. Ma alla fine Sharon è il problema d’Israele. Per noi oggi la principale preoccupazione è fare onestamente tutto il possibile per garantire che si vada avanti, malgrado le enormi sofferenze e devastazioni che ci infligge una guerra criminale.
Quando un noto e rispettato politico in pensione come Zbigniew Brzezinski dice esplicitamente alla televisione statunitense che Israele si comporta come il governo segregazionista bianco dell’apartheid in Sudafrica, si può star certi che non è l’unico a pensarla così e che un numero crescente di americani e di cittadini di altri paesi si sta lentamente disilludendo e persino disgustando per il comportamento di Israele. Che viene visto come un protetto degli Stati Uniti che costa davvero troppo, aumenta l’isolamento di Washington e ne danneggia seriamente la reputazione presso i suoi alleati e i suoi cittadini. La domanda è: in questo momento difficilissimo quali lezioni possiamo trarre?
Quello che adesso dirò è estremamente sintetico e selettivo, ma è il frutto di molti anni di lavoro per la causa palestinese di una persona che appartiene sia al mondo arabo sia a quello occidentale. Non sono in grado di dire tutto, ma ecco alcune delle riflessioni che posso fornire in quest’ora difficilissima. Ognuno dei quattro punti che seguono è collegato agli altri.

1. Una delle grandi cause morali del nostro tempo
Nel bene o nel male, la Palestina non è solo una causa araba e islamica: è importante per molti mondi differenti e contraddittori che s’intersecano. Lavorare per la Palestina significa essere necessariamente consapevoli di queste dimensioni e tenersi costantemente aggiornati al riguardo. Per questo abbiamo bisogno di una leadership altamente istruita, vigile e raffinata, e che sia sostenuta democraticamente. Soprattutto, come Mandela non si è mai stancato di dire nel corso della sua lotta, dobbiamo avere la consapevolezza che la Palestina è una delle più grandi cause morali del nostro tempo. Perciò, dobbiamo trattarla come tale.
Non è una questione di commercio né di baratti né di costruirsi una carriera. È solo una causa che dovrebbe permettere ai palestinesi di conquistare la rispettabilità morale e di conservarla.

2. Saper parlare all’opinione pubblica statunitense
Ci sono diversi tipi di potere, e quello militare è naturalmente il più ovvio. Ciò che ha permesso a Israele di fare quel che fa ai palestinesi da cinquantaquattro anni è il risultato di una campagna meticolosamente e scientificamente pianificata per legittimare le azioni israeliane e, contemporaneamente, sminuire e cancellare le azioni palestinesi. Qui non si tratta solo di disporre di un esercito potente ma di influenzare l’opinione pubblica, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa occidentale. È il frutto di un lavoro lento e metodico, in cui la posizione d’Israele è vista come quella con cui ci si identifica facilmente, mentre si pensa ai palestinesi come ai nemici d’Israele, quindi ripugnanti, pericolosi, contro di "noi".
Dalla fine della Guerra fredda l’Europa è diventata quasi irrilevante per quanto riguarda l’organizzazione dell’opinione pubblica, delle immagini e del pensiero. Gli Stati Uniti (al di là della stessa Palestina) sono il principale teatro di battaglia. Noi non abbiamo mai capito quanto fosse importante organizzare sistematicamente il nostro lavoro politico in questo paese. In modo che, per esempio, l’americano medio non pensi immediatamente al "terrorismo" quando sente pronunciare la parola "palestinese". Questo tipo di lavoro può servire davvero a proteggere qualsiasi passo avanti compiuto attraverso la nostra resistenza sul campo all’occupazione israeliana.
Perciò, se Israele ha potuto trattarci così è perché non siamo stati protetti da nessun settore dell’opinione pubblica capace di dissuadere Sharon dal compiere i suoi crimini di guerra e dall’affermare di essersi limitato a combattere il terrorismo. Data l’immensa forza di diffusione, insistente e ripetitiva, delle immagini trasmesse per esempio dalla Cnn, dove lo spettatore e contribuente americano si vede ripetere in modo ossessivo l’espressione "attentato suicida" un centinaio di volte all’ora, è una gravissima negligenza non aver avuto a Washington una squadra di persone come Hanan Ashrawi, Leila Shahid, Ghassan Khatib, Afif Safie, solo per fare alcuni nomi, pronte a comparire sulla Cnn o su un qualsiasi altro canale televisivo per raccontare la storia palestinese. Per spiegare il contesto e favorire la comprensione, assicurandoci una presenza morale e narrativa con un valore positivo, anziché puramente negativo. Abbiamo bisogno di una leadership che si renda conto che questa è una delle lezioni basilari della moderna politica in un’era di comunicazione elettronica. Non averlo capito è una componente della tragedia di oggi.

3. Conoscere l’America
È assolutamente inutile operare politicamente e responsabilmente in un mondo dominato da un’unica superpotenza senza avere una profonda familiarità e conoscenza di questa superpotenza – gli Stati Uniti d’America – e della sua storia, le sue istituzioni, le sue correnti e controcorrenti, la sua politica e la sua cultura. E, soprattutto, senza una perfetta conoscenza operativa della sua lingua. Sentire i nostri portavoce, così come gli altri arabi, dire le cose più ridicole sull’America, rimettersi alla sua clemenza, maledirla e subito dopo chiederne l’aiuto, il tutto in un inglese miseramente inadeguato e frammentario, dimostra una incompetenza da far piangere.
L’America non è monolitica. Abbiamo amici e potenziali amici. Possiamo coltivare, mobilitare e usare le nostre comunità e quelle collegate come una parte integrante della nostra politica di liberazione, proprio come fecero i sudafricani, o come fecero gli algerini in Francia durante la loro lotta di liberazione.
Pianificazione, disciplina, coordinamento. Non abbiamo capito la politica della non violenza. Né, soprattutto, abbiamo capito l’importanza del cercare di rivolgerci agli israeliani direttamente, come fece l’African National Congress con i sudafricani bianchi, nell’ambito di una politica di inclusione e rispetto reciproco. La coesistenza è la nostra risposta all’esclusivismo e alla belligeranza israeliani. Questo non vuol dire darsi per vinti: è creare solidarietà e perciò isolare gli intolleranti, i razzisti, i fondamentalisti.

4. Una società forte, nonostante tutto
La lezione più importante che dobbiamo trarre a proposito di noi stessi è evidente nelle terribili tragedie che Israele sta causando nei Territori occupati. Noi siamo un popolo e una società; e malgrado il feroce attacco di Israele contro l’Autorità Palestinese, questa nostra società ancora funziona. Siamo un popolo perché abbiamo una società funzionante che va avanti – come è andata avanti per gli ultimi cinquantaquattro anni – malgrado ogni tipo di abuso, ogni svolta crudele della storia, ogni disgrazia patita, ogni tragedia che abbiamo attraversato.
La nostra più grande vittoria su Israele è che uomini come Sharon non se ne rendono conto, ed è per questa ragione che sono destinati al fallimento, malgrado la loro grande potenza e la loro terribile, disumana crudeltà. Noi abbiamo superato le tragedie e i ricordi del nostro passato, mentre gli israeliani come Sharon non l’hanno fatto. E per questo sarà ricordato solo come un assassino di arabi e un politico fallito, che ha portato al suo popolo più malcontento e insicurezza. Un vero leader dovrebbe certamente lasciare dietro di sé qualcosa su cui le generazioni future possano costruire. Sharon, Mofaz e tutti gli altri uomini coinvolti in questa prepotente e sadica campagna di morte non lasceranno che tombe. La negazione genera negazione.
Credo di poter dire che noi palestinesi lasceremo in eredità un progetto e una società sopravvissuta a ogni tentativo di annientarla. E questo è già qualcosa. Sta alla generazione dei miei e dei vostri figli andare avanti a partire da qui, criticamente, razionalmente, con speranza e con pazienza.

Traduzione di Nazzareno Mataldi

Edward W. Said

Edward W. Said è nato nel 1935 a Gerusalemme ed è morto a New York il 25 settembre 2003. Esiliato da adolescente in Egitto e poi negli Stati Uniti, è …