Gian Carlo Caselli: Una Corte contro la barbarie
03 Maggio 2002
Il secolo XX ha conosciuto i lager, i gulag, lo sterminio di massa, la deportazione, la pulizia etnica in dimensioni non comparabili con il passato. Con l´istituzione della Corte penale Internazionale (superato il traguardo delle sessanta ratifiche del Trattato di Roma del luglio '98) nasce la concreta speranza che a queste barbarie possa essere posto un freno consistente. Occorre però che l´opinione pubblica, i media, le organizzazioni umanitarie e gli operatori della giustizia si attivino per far sì che la Corte (chiamata a perseguire e giudicare fatti di genocidio, crimini di guerra e contro l´umanità) diventi davvero internazionale, spingendo gli Stati che ancora esitano ad accettarla al più presto. E poi bisogna che la Corte - da semplice entità giuridica, e cioè complesso di regole, organi, competenze - diventi quanto prima realtà operativa in grado di produrre inchieste, incriminazioni, giudizi e sentenze. E´ questo un passaggio cruciale e per nulla scontato, che esige volontà politica di reperimento di risorse, di formazione di professionalità, di allestimento di strutture.
L´esempio fornito dal Tribunale per i crimini commessi nell´ex Jugoslavia è quanto mai illuminante: creato nel 1993 dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, questo Tribunale ad hoc per lunghi mesi è stato costretto di fatto all´inattività. Il professor Antonio Cassese, che ne è stato per molti anni il primo Presidente, descrive bene questa condizione quando ricorda che «Non avevamo letteralmente nulla: né locali, né denaro, né personale, né arredamenti... E persino quando, dopo i primi tre mesi, chiesi il rinnovo della locazione degli uffici mi fu opposto un rifiuto categorico mettendo così, in termini diplomatici, il Tribunale sulla strada» (in P. Hazan, La Justice face à la guerre, Stock2000, pag.89).
Il dramma è che questa forzosa inattività non si è consumata a costo zero. Mentre infatti il Tribunale stentava a decollare, la pulizia etnica martoriava la Bosnia orientale, Sarajevo implodeva sotto i bombardamenti, i suoi cittadini cadevano sotto il tiro degli snipers, il nuovo conflitto croato-bosniaco aggiungeva barbarie a barbarie. Ed allora la terribile domanda che dobbiamo porci è: "Siamo davvero sicuri che una parte di tutto ciò non si sarebbe potuta evitare grazie ad un Tribunale messo in condizione di funzionare subito?". In ogni caso, è evidente che tali iniziali incertezze non debbono ripetersi per la Corte penale internazionale.
Anche quando funzionante, poi, la Corte non potrà comunque trattare tutte le violazioni gravi del diritto umanitario. E´ illusorio pensare che una sola Autorità giudiziaria - per quanto bene organizzata, dotata di mezzi ed efficiente - sia in grado, da sola, di rispondere alle molteplici domande di giustizia che giungono da ogni parte del pianeta. Di nuovo, la lezione del Tribunale per i crimini nella ex Jugoslavia non può essere trascurata. Le dimensioni della sua attività sono racchiuse in alcuni dati (del gennaio-febbraio 2002): sono 42 le persone incriminate e detenute a disposizione del Tribunale, 30 i mandati di cattura non segretati ancora da eseguire, 67 gli imputati comparsi dinanzi ad un giudice nelle differenti fasi e gradi del giudizio, 11 le persone definitivamente condannate e 5 le assolte. Al di là delle cifre, va sottolineato che questa istituzione (la prima a 50 anni da Norimberga e Tokyo) è comunque riuscita, pur tra mille difficoltà, a perseguire e sottoporre a giudizio non solo esecutori ma anche pianificatori ed organizzatori di crimini, e persino un Capo di Stato. Incommensurabile, per altro, rimane la distanza tra i numeri degli imputati, giudicandi e giudicati, e la "magnitudo" delle devastazioni e dei lutti, questi ultimi valutabili nell´ordine di centinaia di migliaia. E su tutto s´impone, terribile, l´interrogativo: "Quanto grande sarà il numero degli impuniti per sempre e quanto altrettanto grande sarà il definitivo silenzio della giustizia di fronte alle vittime?".
Questo scenario di obiettiva inadeguatezza si riproporrà inevitabilmente anche per la Corte penale internazionale. E allora, che fare per rendere meno intollerabile lo scarto tra la domanda e la risposta di giustizia? E´ assolutamente essenziale che il lavoro della Corte penale internazionale non costituisca un unicum ma si integri in un vero e proprio sistema cui concorrano in primo luogo le giustizie nazionali. L´esempio del Belgio, che a partire dal 1999 ha adottato una legge che assegna alla giustizia interna una competenza universale per il genocidio, i crimini di guerra e contro l´umanità, non può restare l´eccezione ma deve al contrario essere diffuso. Non solo: l´istituzione di autorità giudiziarie miste - e cioè composte da magistrati locali ed internazionali - chiamate a trattare violazioni gravi del diritto umanitario commesse in regioni ove sono ormai cessati i conflitti, può fornire un contributo importante, come del resto confermato da quanto recentemente realizzato in Kosovo e a Timor Est.
L´esempio fornito dal Tribunale per i crimini commessi nell´ex Jugoslavia è quanto mai illuminante: creato nel 1993 dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, questo Tribunale ad hoc per lunghi mesi è stato costretto di fatto all´inattività. Il professor Antonio Cassese, che ne è stato per molti anni il primo Presidente, descrive bene questa condizione quando ricorda che «Non avevamo letteralmente nulla: né locali, né denaro, né personale, né arredamenti... E persino quando, dopo i primi tre mesi, chiesi il rinnovo della locazione degli uffici mi fu opposto un rifiuto categorico mettendo così, in termini diplomatici, il Tribunale sulla strada» (in P. Hazan, La Justice face à la guerre, Stock2000, pag.89).
Il dramma è che questa forzosa inattività non si è consumata a costo zero. Mentre infatti il Tribunale stentava a decollare, la pulizia etnica martoriava la Bosnia orientale, Sarajevo implodeva sotto i bombardamenti, i suoi cittadini cadevano sotto il tiro degli snipers, il nuovo conflitto croato-bosniaco aggiungeva barbarie a barbarie. Ed allora la terribile domanda che dobbiamo porci è: "Siamo davvero sicuri che una parte di tutto ciò non si sarebbe potuta evitare grazie ad un Tribunale messo in condizione di funzionare subito?". In ogni caso, è evidente che tali iniziali incertezze non debbono ripetersi per la Corte penale internazionale.
Anche quando funzionante, poi, la Corte non potrà comunque trattare tutte le violazioni gravi del diritto umanitario. E´ illusorio pensare che una sola Autorità giudiziaria - per quanto bene organizzata, dotata di mezzi ed efficiente - sia in grado, da sola, di rispondere alle molteplici domande di giustizia che giungono da ogni parte del pianeta. Di nuovo, la lezione del Tribunale per i crimini nella ex Jugoslavia non può essere trascurata. Le dimensioni della sua attività sono racchiuse in alcuni dati (del gennaio-febbraio 2002): sono 42 le persone incriminate e detenute a disposizione del Tribunale, 30 i mandati di cattura non segretati ancora da eseguire, 67 gli imputati comparsi dinanzi ad un giudice nelle differenti fasi e gradi del giudizio, 11 le persone definitivamente condannate e 5 le assolte. Al di là delle cifre, va sottolineato che questa istituzione (la prima a 50 anni da Norimberga e Tokyo) è comunque riuscita, pur tra mille difficoltà, a perseguire e sottoporre a giudizio non solo esecutori ma anche pianificatori ed organizzatori di crimini, e persino un Capo di Stato. Incommensurabile, per altro, rimane la distanza tra i numeri degli imputati, giudicandi e giudicati, e la "magnitudo" delle devastazioni e dei lutti, questi ultimi valutabili nell´ordine di centinaia di migliaia. E su tutto s´impone, terribile, l´interrogativo: "Quanto grande sarà il numero degli impuniti per sempre e quanto altrettanto grande sarà il definitivo silenzio della giustizia di fronte alle vittime?".
Questo scenario di obiettiva inadeguatezza si riproporrà inevitabilmente anche per la Corte penale internazionale. E allora, che fare per rendere meno intollerabile lo scarto tra la domanda e la risposta di giustizia? E´ assolutamente essenziale che il lavoro della Corte penale internazionale non costituisca un unicum ma si integri in un vero e proprio sistema cui concorrano in primo luogo le giustizie nazionali. L´esempio del Belgio, che a partire dal 1999 ha adottato una legge che assegna alla giustizia interna una competenza universale per il genocidio, i crimini di guerra e contro l´umanità, non può restare l´eccezione ma deve al contrario essere diffuso. Non solo: l´istituzione di autorità giudiziarie miste - e cioè composte da magistrati locali ed internazionali - chiamate a trattare violazioni gravi del diritto umanitario commesse in regioni ove sono ormai cessati i conflitti, può fornire un contributo importante, come del resto confermato da quanto recentemente realizzato in Kosovo e a Timor Est.
Gian Carlo Caselli
Gian Carlo Caselli (Alessandria, 1939) è stato giudice istruttore a Torino dove, per un decennio, ha condotto le inchieste sulle Brigate rosse e Prima linea. Dal 1993 al 1999 ha …