Umberto Galimberti: Quando una madre uccide

14 Maggio 2002
Una madre nasconde in una lavatrice il corpicino della bambina che otto mesi prima aveva generato. Di fronte a questi casi tutti avvertiamo che, oltre ai familiari, le vittime che muovono a compassione sono almeno due: la bambina e sua madre. Sì, anche sua madre. E i sentimenti che nascono sono di condanna, ma anche di pietà, anzi più di pietà che di condanna. Questo senso di pietà porta di solito a quelle facili diagnosi che parlano di raptus o di depressione. Il raptus non esiste.
È fantapsicologia ipotizzare una vita che scorre normalmente e normalmente continua a trascorrere dopo l´eccesso. I raptus sono comode invenzioni per tranquillizzare ciascuno di noi ed esorcizzare il timore di essere anche noi dei potenziali omicidi.
La depressione invece esiste, ma non porta all´omicidio, porta semmai al suicidio e non quando si è depressi, ma quando si esce dalla depressione, perché quando si è depressi non si ha neanche la forza di alzarsi dal letto o dalla sedia.
Sgombriamo allora il campo da queste facili diagnosi e volgiamoci semplicemente a quel male che sempre più minaccia le famiglie di oggi e che si chiama isolamento, che rende il nucleo familiare incapace di oltrepassare le mura che lo recingono e lo secretano, creando l´ambiente adatto alla disperazione, che non è la depressione. Nel chiuso di quelle pareti ogni problema si ingigantisce perché non c´è un altro punto di vista, un termine di confronto che possa relativizzare il problema, o che consenta di diluirlo nella comunicazione, quando non di attutirlo nell´aiuto e nel conforto che dagli altri può venire.
Il nucleo familiare è diventato oggi un nucleo asociale. Quel che succede in casa resta lì compresso e incomunicato. Quando si esce di casa, ciascuno indossa una maschera, quella convenuta, il cui compito è di non lasciar trasparire proprio nulla dei drammi, delle gioie o dei dolori che si vivono dentro quelle mura ben protette.
La tutela della privacy ha proprio nella famiglia il suo cono d´ombra. La non ingerenza nel privato, se da un lato è il fondamento della nostra libertà personale, è anche un fattore di disinteressamento reciproco, e quindi una macchina formidabile che crea solitudine e, nella solitudine, quell´ingigantimento dei problemi che la comunicazione sa ricondurre nella loro giusta dimensione, mentre l´isolamento rende di proporzioni tali da farli apparire ingestibili. Fino a quel limite dove l´unica via d´uscita sembra quella della soppressione violenta del problema, non importa in quale modo.
L´incapacità di gestire un regime familiare, dove le difficoltà oggettive possono mescolarsi con i fantasmi della mente e con le speranze deluse, produce una tragedia che forse poteva essere evitata se quel nucleo familiare si fosse aperto e reso permeabile allo scambio sociale.
Privatizziamo tutto, liberiamoci il più possibile dal sociale che sa di stantio, e per molti puzza persino di comunismo, assaporiamo fino in fondo quella distorsione del concetto di libertà, per cui «in casa mia faccio quello che voglio», e poi ci accorgiamo che quello che «voglio» finisce con l´essere quello che «posso», anzi quello che da solo non «posso fare», perché senza sociale non si può gestire l´handicap, non si può gestire la vecchiaia, e neppure l´infanzia, se non con il sacrificio totale di un componente della famiglia, che a questo punto può veder chiusi i suoi orizzonti di vita e, in un momento di disperazione, fare il gesto che uccide.
Poi ci saranno le perizie psichiatriche che parleranno di depressione, di raptus improvviso, e accrediteranno questa tesi con tutte quelle parole vane che stanno al posto di due sole parole: «isolamento» della famiglia e assoluta «latitanza» del sociale.
E, in effetti, se i valori che oggi circolano non sono più solidarietà, relazione, comunicazione, aiuto reciproco, ma business, immagine, tranquillità, tutela della privacy, dite un po´ perché questi terribili fatti non devono accadere. Allora, invece di concentrarci morbosamente sulla dinamica dei fatti, come la cultura dei polizieschi ci ha da tempo abituato, partiamo proprio da questo fatto per incominciare a riflettere se, con la difesa strenua del privato, non stiamo alle volte costruendo noi quell´isolamento del nucleo familiare che, senza sociale, non ce la fa a gestire problemi che non possono essere caricati solo sulle spalle di un padre e di una madre.
Con questo non intendiamo giustificare il gesto della madre che ha messo in lavatrice la sua bambina, ma denunciare la cultura dell´isolamento in cui la sacralizzazione del privato ha ridotto di fatto la famiglia, che troppo spesso registra in sé l´effetto del collasso sociale. Se infatti la società è solo la sommatoria delle solitudini delle famiglie, perché una famiglia inavvertita e inascoltata, e che a sua volta non ha voglia di farsi notare né di parlare, perché questa famiglia non può impazzire? Qui non occorrono pareri di esperti. È sufficiente considerare che se l´uomo è un animale sociale, quando gli si toglie la società, quella vera, sostituita con quella televisiva e poi con quella virtuale, perché un animale del genere non può impazzire? Non è invece la cosa più probabile? In queste condizioni, è molto facile «passare all´atto», come dicono gli psicoanalisti, cioè «sopprimere» il problema. Un male comune, dunque, che talvolta può arrivare all´eccesso. Ma proprio perché è comune, proprio perché coinvolge tutti noi, non evitiamo di guardarlo e di rifugiarci nella comoda diagnosi di raptus o depressione, da cui naturalmente ci sentiamo immuni.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …