Giulietto Chiesa: Casus belli
23 Maggio 2002
Andiamo con ordine. Che la versione ufficiale del «siamo stati colti di sorpresa» non stesse in piedi nemmeno alla più elementare delle verifiche, non è sfuggito a molti osservatori. In pochi giorni, apparentemente, subito dopo il disastro, Fbi e Cia riuscirono a individuare i nomi di diciannove dei venti kamikaze (i nomi, sia ben chiaro, perché le vere identità rimangono tuttora oscure), i luoghi dove alloggiarono alcuni di loro (per esempio la cittadina di Fort Laudersdale, in Florida), in molti casi perfino le fotografie, le carte di credito usate (stranezza delle più inquietanti, che quei signori usassero per pagare il mezzo più facilmente esposto a indagini). In pochi giorni non si ottengono questi risultati se non esistono dei files precedentemente aperti.
Il fatto è che il ventesimo kamikaze lo avevano già in mano fin dal 16 agosto. Zacarias Moussaui, arrestato dall'Fbi a Eagan, Minnesota, 26 giorni prima dell'11 settembre. Allievo pilota nella locale Pan Am Flight Academy. Un solerte cittadino avvisa; il locale ufficio dell'Fbi fulmineamente agisce, ma la pratica si ferma. Non si sa dove.
Se si torna indietro nel tempo si vede che l'arresto di Moussaui non poteva passare inosservato. Per il semplice fatto che rappresentava la conferma di quasi tutte le tracce precedentemente accumulate dai servizi segreti americani. In particolare quella del 5 luglio (meno sessanta giorni all'impatto) e quella del memorandum della Cia del 6 agosto (meno trentasei giorni all'impatto). Nel primo caso fu Richard Clark, capo dell'antiterrorismo, a riferire a tutti gli altri capi dello spionaggio che «qualche cosa di terribile, di spettacolare sta per accadere» e che l'obiettivo «sarà un edificio». Nel secondo caso furono allertate le compagnie aeree civili. Evidentemente si erano ricordati del rapporto dei servizi che Bill Clinton aveva ricevuto nel settembre 1999, dove si diceva che «combattenti suicidi (...) potrebbero gettarsi con un aereo (...) contro il Pentagono, la sede della Cia o la Casa Bianca». Anticipazione quasi perfetta.
Parlare - come ha fatto Thomas Friedman sul New York Times - di «mancanza d'immaginazione» da parte dell'Amministrazione non è possibile: tutto era già stato «immaginato» da molto tempo.
La vera novità di questi ultimi giorni consiste nella rivelazione - questa davvero sconvolgente - che il sabato immediatamente precedente la catastrofe, cioè all'incirca tre giorni prima, il presidente Bush (o qualcuno per lui) aveva già fatto compilare quello che la stampa usa definisce un «ordine presidenziale», per la preparazione dell'offensiva militare contro Al Qaeda in Afghanistan. In contemporanea, per giunta, con l'assassinio, nella Valle del Panshr, di Ahmad Shah Massud.
Dunque il governo americano non era affatto distratto, non stava con le mani in mano. Stava anzi preparando un'offensiva militare su larga scala. Adesso sappiamo che «Infinite Justice» era stata preparata prima dell'11 settembre.
Ma - e non è chiaro per quale ragione - George Bush non diede corso e rinviò tutto alla settimana successiva. In quei tre giorni fatali Al Qaeda scatenò l'attacco. Naturalmente, su queste basi, non si può concludere nulla.
Salvo che a Washington non stavano dormendo. Restano mille ipotesi sul perché di quel rinvio. Tra queste mille ipotesi ce n'è una che merita di essere presa in considerazione e che, stranamente, non è finora venuta in mente quasi a nessuno. Che, cioè, l'Amministrazione (o qualcuno al suo interno, che agiva con una certa libertà) avesse molte informazioni per prevedere un attacco terroristico, e avesse ritenuto che una dura risposta a un'offensiva terroristica contro l'America sarebbe stata di gran lunga preferibile a un attacco a freddo degli Stati uniti. Come motivarlo, infatti? Inoltre, in tal caso, un attacco terroristico contro gli Usa in guerra, avrebbe potuto apparire come una ritorsione giustificata (o giustificabile).
La scelta sarebbe stata, dunque, politica, e basata su una valutazione errata delle dimensioni del possibile attacco terroristico. L'11 di settembre fu altra cosa rispetto a ciò che ci si aspettava. Forse le cose non sono andate esattamente così. Stiamo congetturando. Ma è certo che questa teoria spiega molte delle cose inspegabili che stanno emergendo adesso.
Il fatto è che il ventesimo kamikaze lo avevano già in mano fin dal 16 agosto. Zacarias Moussaui, arrestato dall'Fbi a Eagan, Minnesota, 26 giorni prima dell'11 settembre. Allievo pilota nella locale Pan Am Flight Academy. Un solerte cittadino avvisa; il locale ufficio dell'Fbi fulmineamente agisce, ma la pratica si ferma. Non si sa dove.
Se si torna indietro nel tempo si vede che l'arresto di Moussaui non poteva passare inosservato. Per il semplice fatto che rappresentava la conferma di quasi tutte le tracce precedentemente accumulate dai servizi segreti americani. In particolare quella del 5 luglio (meno sessanta giorni all'impatto) e quella del memorandum della Cia del 6 agosto (meno trentasei giorni all'impatto). Nel primo caso fu Richard Clark, capo dell'antiterrorismo, a riferire a tutti gli altri capi dello spionaggio che «qualche cosa di terribile, di spettacolare sta per accadere» e che l'obiettivo «sarà un edificio». Nel secondo caso furono allertate le compagnie aeree civili. Evidentemente si erano ricordati del rapporto dei servizi che Bill Clinton aveva ricevuto nel settembre 1999, dove si diceva che «combattenti suicidi (...) potrebbero gettarsi con un aereo (...) contro il Pentagono, la sede della Cia o la Casa Bianca». Anticipazione quasi perfetta.
Parlare - come ha fatto Thomas Friedman sul New York Times - di «mancanza d'immaginazione» da parte dell'Amministrazione non è possibile: tutto era già stato «immaginato» da molto tempo.
La vera novità di questi ultimi giorni consiste nella rivelazione - questa davvero sconvolgente - che il sabato immediatamente precedente la catastrofe, cioè all'incirca tre giorni prima, il presidente Bush (o qualcuno per lui) aveva già fatto compilare quello che la stampa usa definisce un «ordine presidenziale», per la preparazione dell'offensiva militare contro Al Qaeda in Afghanistan. In contemporanea, per giunta, con l'assassinio, nella Valle del Panshr, di Ahmad Shah Massud.
Dunque il governo americano non era affatto distratto, non stava con le mani in mano. Stava anzi preparando un'offensiva militare su larga scala. Adesso sappiamo che «Infinite Justice» era stata preparata prima dell'11 settembre.
Ma - e non è chiaro per quale ragione - George Bush non diede corso e rinviò tutto alla settimana successiva. In quei tre giorni fatali Al Qaeda scatenò l'attacco. Naturalmente, su queste basi, non si può concludere nulla.
Salvo che a Washington non stavano dormendo. Restano mille ipotesi sul perché di quel rinvio. Tra queste mille ipotesi ce n'è una che merita di essere presa in considerazione e che, stranamente, non è finora venuta in mente quasi a nessuno. Che, cioè, l'Amministrazione (o qualcuno al suo interno, che agiva con una certa libertà) avesse molte informazioni per prevedere un attacco terroristico, e avesse ritenuto che una dura risposta a un'offensiva terroristica contro l'America sarebbe stata di gran lunga preferibile a un attacco a freddo degli Stati uniti. Come motivarlo, infatti? Inoltre, in tal caso, un attacco terroristico contro gli Usa in guerra, avrebbe potuto apparire come una ritorsione giustificata (o giustificabile).
La scelta sarebbe stata, dunque, politica, e basata su una valutazione errata delle dimensioni del possibile attacco terroristico. L'11 di settembre fu altra cosa rispetto a ciò che ci si aspettava. Forse le cose non sono andate esattamente così. Stiamo congetturando. Ma è certo che questa teoria spiega molte delle cose inspegabili che stanno emergendo adesso.
Giulietto Chiesa
Giulietto Chiesa (1940) è giornalista e politico. Corrispondente per “La Stampa” da Mosca per molti anni, ha sempre unito nei suoi reportage una forte tensione civile e un rigoroso scrupolo …