Guido Viale: Automobile. La fine di un cattivo modello
05 Luglio 2002
E' difficile vedere nella crisi della Fiat soltanto il
risultato di una cattiva gestione (ci sarà anche quella, ma forse si può fare
di meglio che insegnare a padroni e manager il loro mestiere: d'altronde la
"vetturetta" con cui circa cinquant'anni fa la Cgil voleva insegnare
il mestiere a Valletta non è un bel precedente: non ha giovato né agli operai
né allo sviluppo). Forse è meglio vedere nella crisi della Fiat la
manifestazione precoce - in un paese che rappresenta un anello particolarmente
debole dello sviluppo capitalistico - di un passaggio storico che coinvolge, se
non i fondamenti del sistema produttivo (ma coinvolge anche quelli), per lo meno
l'organizzazione della mobilità nel suo complesso; e questo in una società in
cui la mobilità è diventata una componente essenziale dell'esistenza di
ciascuno di noi. La motorizzazione privata ha fatto il suo tempo; potrà forse
sopravvivere a se stessa più o meno a lungo (dipende anche da noi), ma niente
le potrà restituire il ruolo che ha avuto nel secolo scorso. Poco più di cento
anni fa l'invenzione del motore a scoppio ha provocato una rivoluzione nei
trasporti e nei modi di vita. In cinquant'anni l'automobile, nata come bene di
lusso per pochi, ha sostituito cavallo, carri e carrozze nel trasporto urbano
(nel trasporto interurbano erano già stati sostituiti dal treno a partire da un
secolo prima). L'affermazione del trasporto basato sul motore a scoppio,
ancorché inizialmente limitato ai ceti abbienti e poi al trasporto merci, è
stata una grande conquista per la vita urbana: ha liberato le strade dalla
presenza dei cavalli, delle loro onnipresenti deiezioni e dai loro cadaveri
abbandonati quando - molto spesso - schiattavano di fatica lungo il percorso.
L'inquinamento da moltiplicazione dei motori non era ancora avvertito come
problema (non si vedeva). I pericoli dovuti alla velocità e alla invadenza
delle automobili, invece, sì; ma erano stati "bypassati" in nome del
progresso.
Nella seconda metà del secolo scorso, la "democratizzazione" della motorizzazione privata nei paesi dell'Occidente prospero - un'auto ogni due abitanti in Europa e Giappone; una ogni 1,7 abitanti negli Stati Uniti e in Italia - ha trasformato l'automobile nel principale problema ambientale - ma anche economico e sociale - a cui il pianeta deve fare fronte: paesaggi sventrati da autostrade, viadotti, svincoli, gallerie, parcheggi; campi, prati e boschi ricoperti da croste d'asfalto; dissoluzione della struttura urbana compatta a favore della "città diffusa" (e degli orribili suburbi americani); inquinamento dell'aria; un numero di morti sulle strade paragonabile solo a quelli della seconda guerra mondiale; consumo di combustibili fossili e produzione di CO2 (i trasporti pesano per il 40% su entrambe queste variabili, e metà di questo impatto è riconducibile all'automobile privata: quanto basterebbe per rispettare i parametri di Kyoto); un onere insostenibile - mediamente il 20, ma per alcuni fino e oltre il 40% del bilancio familiare - per un numero crescente di persone; aumento incontrollato della mobilità, ma anche del tempo perso in imbottigliamenti, code e ricerca di parcheggi. Ma soprattutto distruzione sistematica della socialità, attraverso la trasformazione dello spazio (fisico) pubblico in scoli di traffico, garage a cielo aperto e chiusura dei cittadini - adulti, vecchi e soprattutto bambini - tra le lamiere delle loro auto (quando si trasferiscono da un posto all'altro) o tra le pareti domestiche, in compagnia della televisione, quando restano a casa. In altre parole, l'idiotismo di un isolamento pressoché totale. L'automobile, promessa di libertà (di movimento), ne è diventata la peggior nemica.
A poco più di cent'anni dall'invenzione del motore a scoppio una nuova tecnologia offre oggi la possibilità per liberarci per sempre da tutto ciò. Non si tratta dell'auto elettrica o delle celle a combustibile (l'uso dell'idrogeno), che non eliminano né lo spreco di energia (quale che sia la sua origine: fossile - ahimé ancora per molto - nucleare - dionescampi - o solare. Perché la principale riserva di energia che abbiamo a disposizione resta il risparmio), né, soprattutto, l'occupazione del suolo e degli spazi pubblici. Non c'è posto, sul pianeta Terra, per un tasso di motorizzazione all'europea - equivalente, al 2030, a cinque miliardi di automobili - né per il tasso auspicato da Loris Campetti - un'auto per famiglia - equivalente, alla stessa data, e tenedo conto del fatto che le famiglie del Terzo mondo saranno un po' più ampie, ad almeno due miliardi di automobili. E' ora di dircelo - e di dirlo - chiaro, altrimenti non facciamo che imbrogliare noi stessi, e con noi gli altri. O vogliamo mantenere solo per noi dell'Occidente ricco il fasullo "privilegio" di un modello di consumo non raggiungibile né praticabile dal resto dell'umanità?
La nuova tecnologia che può liberarci dall'inferno della motorizzazione privata è la fatidica "rete", messa al lavoro per trasformare la mobilità da bene a servizio: da attività subordinata al possesso di un'auto (chi non ce l'ha, spesso oggi non può più spostarsi) a potenzialità garantita da un servizio accessibile a tutti: cioè dal trasporto flessibile, o a domanda (in termini tecnici, Drts, Demand responsive transport system), il taxi collettivo e - in via transitoria - il car-sharing e il car-pooling. In altre parole, mezzi sempre in moto, invece che fermi ad arrugginire - mediamente - ventidue ore su ventiquattro; che effettuano in tempo reale un servizio porta a porta - che l'auto privata non garantisce più, perché non si riesce mai a parcheggiare dove si vuole - senza perdite di tempo e ingorghi, ed a costi - economici e ambientali - infinitamente inferiori a quello che spende il paese (la famigerata "azienda Italia") per mantenere un parco veicoli di oltre trenta milioni di vetture. Non c'è altra soluzione: né per le forze legate al capitale, né per chi pensa che un altro mondo è possibile. Basta non chiudere gli occhi di fronte alla realtà.
Naturalmente, come in tutte le grandi fasi di transizione, il problema non è solo quello di orientare la direzione del processo verso obiettivi condivisibili - questione tutt'altro che scontata: l'attaccamento di ciascuno di noi alla sua auto può tradursi in un disastro planetario - ma anche e soprattutto quello di chi ne paga i costi. E qui posso ben capire le preoccupazioni di Loris Campetti. Ma la soluzione non può essere quella di sostenere con qualche innovazione un modo di trasporto condannato a morte dal suo stesso successo. Una scelta del genere non fa che trascinare i lavoratori in un tunnel senza uscita.
La soluzione è prospettare un passaggio morbido e graduale - beato riformismo! - verso un nuovo sistema di mobilità. Un sistema in cui le conquiste tecnologiche dell'epoca dell'automobile vengano salvaguardate e valorizzate (perché anche il trasporto a domanda ha bisogno di veicoli), ma per il quale si devono individuare al più presto le forme di gestione e le opportunità - anche occupazionali - che offre. E' evidente infatti che un sistema di trasporto a domanda non può essere governato solo dai costruttori; soprattutto quando questi non hanno fatto nulla per anticipare i tempi. Ci vogliono anche gli enti locali, le associazioni degli utenti, le cooperative di autisti, il cervello dei programmatori, ecc. E Torino, come sede di una grande sperimentazione, sarebbe un posto ideale.
Nella seconda metà del secolo scorso, la "democratizzazione" della motorizzazione privata nei paesi dell'Occidente prospero - un'auto ogni due abitanti in Europa e Giappone; una ogni 1,7 abitanti negli Stati Uniti e in Italia - ha trasformato l'automobile nel principale problema ambientale - ma anche economico e sociale - a cui il pianeta deve fare fronte: paesaggi sventrati da autostrade, viadotti, svincoli, gallerie, parcheggi; campi, prati e boschi ricoperti da croste d'asfalto; dissoluzione della struttura urbana compatta a favore della "città diffusa" (e degli orribili suburbi americani); inquinamento dell'aria; un numero di morti sulle strade paragonabile solo a quelli della seconda guerra mondiale; consumo di combustibili fossili e produzione di CO2 (i trasporti pesano per il 40% su entrambe queste variabili, e metà di questo impatto è riconducibile all'automobile privata: quanto basterebbe per rispettare i parametri di Kyoto); un onere insostenibile - mediamente il 20, ma per alcuni fino e oltre il 40% del bilancio familiare - per un numero crescente di persone; aumento incontrollato della mobilità, ma anche del tempo perso in imbottigliamenti, code e ricerca di parcheggi. Ma soprattutto distruzione sistematica della socialità, attraverso la trasformazione dello spazio (fisico) pubblico in scoli di traffico, garage a cielo aperto e chiusura dei cittadini - adulti, vecchi e soprattutto bambini - tra le lamiere delle loro auto (quando si trasferiscono da un posto all'altro) o tra le pareti domestiche, in compagnia della televisione, quando restano a casa. In altre parole, l'idiotismo di un isolamento pressoché totale. L'automobile, promessa di libertà (di movimento), ne è diventata la peggior nemica.
A poco più di cent'anni dall'invenzione del motore a scoppio una nuova tecnologia offre oggi la possibilità per liberarci per sempre da tutto ciò. Non si tratta dell'auto elettrica o delle celle a combustibile (l'uso dell'idrogeno), che non eliminano né lo spreco di energia (quale che sia la sua origine: fossile - ahimé ancora per molto - nucleare - dionescampi - o solare. Perché la principale riserva di energia che abbiamo a disposizione resta il risparmio), né, soprattutto, l'occupazione del suolo e degli spazi pubblici. Non c'è posto, sul pianeta Terra, per un tasso di motorizzazione all'europea - equivalente, al 2030, a cinque miliardi di automobili - né per il tasso auspicato da Loris Campetti - un'auto per famiglia - equivalente, alla stessa data, e tenedo conto del fatto che le famiglie del Terzo mondo saranno un po' più ampie, ad almeno due miliardi di automobili. E' ora di dircelo - e di dirlo - chiaro, altrimenti non facciamo che imbrogliare noi stessi, e con noi gli altri. O vogliamo mantenere solo per noi dell'Occidente ricco il fasullo "privilegio" di un modello di consumo non raggiungibile né praticabile dal resto dell'umanità?
La nuova tecnologia che può liberarci dall'inferno della motorizzazione privata è la fatidica "rete", messa al lavoro per trasformare la mobilità da bene a servizio: da attività subordinata al possesso di un'auto (chi non ce l'ha, spesso oggi non può più spostarsi) a potenzialità garantita da un servizio accessibile a tutti: cioè dal trasporto flessibile, o a domanda (in termini tecnici, Drts, Demand responsive transport system), il taxi collettivo e - in via transitoria - il car-sharing e il car-pooling. In altre parole, mezzi sempre in moto, invece che fermi ad arrugginire - mediamente - ventidue ore su ventiquattro; che effettuano in tempo reale un servizio porta a porta - che l'auto privata non garantisce più, perché non si riesce mai a parcheggiare dove si vuole - senza perdite di tempo e ingorghi, ed a costi - economici e ambientali - infinitamente inferiori a quello che spende il paese (la famigerata "azienda Italia") per mantenere un parco veicoli di oltre trenta milioni di vetture. Non c'è altra soluzione: né per le forze legate al capitale, né per chi pensa che un altro mondo è possibile. Basta non chiudere gli occhi di fronte alla realtà.
Naturalmente, come in tutte le grandi fasi di transizione, il problema non è solo quello di orientare la direzione del processo verso obiettivi condivisibili - questione tutt'altro che scontata: l'attaccamento di ciascuno di noi alla sua auto può tradursi in un disastro planetario - ma anche e soprattutto quello di chi ne paga i costi. E qui posso ben capire le preoccupazioni di Loris Campetti. Ma la soluzione non può essere quella di sostenere con qualche innovazione un modo di trasporto condannato a morte dal suo stesso successo. Una scelta del genere non fa che trascinare i lavoratori in un tunnel senza uscita.
La soluzione è prospettare un passaggio morbido e graduale - beato riformismo! - verso un nuovo sistema di mobilità. Un sistema in cui le conquiste tecnologiche dell'epoca dell'automobile vengano salvaguardate e valorizzate (perché anche il trasporto a domanda ha bisogno di veicoli), ma per il quale si devono individuare al più presto le forme di gestione e le opportunità - anche occupazionali - che offre. E' evidente infatti che un sistema di trasporto a domanda non può essere governato solo dai costruttori; soprattutto quando questi non hanno fatto nulla per anticipare i tempi. Ci vogliono anche gli enti locali, le associazioni degli utenti, le cooperative di autisti, il cervello dei programmatori, ecc. E Torino, come sede di una grande sperimentazione, sarebbe un posto ideale.
Guido Viale
Guido Viale, nato a Tokyo nel 1943, e vive a Milano. Ha lavorato in diverse società di ricerca e progettazione in ambito economico, sociale e ambientale e svolge un’intensa attività …