Antonio Tabucchi: Sofri, una grazia per l'Italia

18 Agosto 2002
È un piccolo aereo coraggioso che vola controcorrente, in un Paese dove la parola libertà ha subito una modificazione genetica, e faccio i miei migliori auguri al messaggio che reca.
Oggi compi sessant’anni. So che molte persone che trovano ingiusto che tu stia ancora in galera si riuniranno a Pisa, sotto le tue finestre, per così dire. I miei auguri sono per te, Bompressi e Pietrostefani, certo. Ma anche per tutti noi. Perché tu pesi assai sulle nostre coscienze di uomini divisi. C’è un «Noi diviso» (rubo l’espressione a un bellissimo libro di Remo Bodei) che ha sempre tormentato l’Italia, impedendole di farle acquisire l’idea di nazione compiuta e sufficiente; e che la rende una Repubblica anormale: anoressica o bulimica, a secondo dei momenti, con un’anomalia non solo verso gli altri Paesi europei ma soprattutto verso se stessa.
E questa anomalia che ne stravolge i tratti come un volto dipinto da Francis Bacon, le impedisce di riconoscersi allo specchio. Queste cesure, questi tagli, questi buchi, questi eczemi che il nostro Paese porta in viso, purtroppo non si curano con bandiere o inni nazionali, né con false pacificazioni che negano il passato affermando che avendo tutti ragione avevamo tutti torto. Si curano con un gesto reale, con il buon senso, con la prudenza. Ma non con la prudenza che Manzoni attribuisce a Don Abbondio, ma con la prudenza di cui parla il Cristo, quella di chi non sperpera invano il poco olio che ancora resta nelle nostre lampade. Definisco un atto di buon senso e di prudenza quello che si chiama un «atto di clemenza», anche se in realtà sarebbe un «atto di giustizia» nei tuoi confronti. In questa baldoria forse un piccolo gesto apparentemente insignificante da parte di chi può farlo, e invece estremamente significativo. Vorrebbe dire tante cose, agli Italiani. Oltre che ripristinare un senso di legalità ormai in apnea, anche un messaggio a suo modo storico. Io spero che coloro che dovrebbero capirlo lo capiscano. Altrimenti peggio per te, peggio per voi, prima di tutti. E poi peggio per noi, ma anche peggio per loro, perché anche loro affonderanno nella barchetta su cui stiamo tutti. Se lo Stivale si riempie d’Acqua, va a picco con tutti i passeggeri, anche quelli che stanno sul ponte di comando.
Io sono lontano, e non posso partecipare al «festeggiamento pisano». Uso questa parola perché in fondo gli amici che reclamano la fine dell’accanimento terapeutico che ti è inflitto festeggiano anche la serenità con la quale hai saputo affrontarlo, una serenità e una fermezza, in quest’Italia sguaiata e senza sterzo, che alle orecchie degli sguaiati che guidano a tutto gas il nostro Paese deve probabilmente sembrare beffarda. Ed è anche per questo che forse se la sono legata al dito: tu non chiedi niente a nessuno, e stai dove ti hanno messo, ripetendo tranquillamente che ti ci hanno messo ingiustamente. È una cosa logica. Ma la logica che guida coloro che guidano la barca è diversa. Essa corrisponde all’antico detto italico del cornuto e mazziato. Dopo aver fatto un sopruso, una cosa che sarebbe inaccettabile in un altro Paese europeo (una condanna senza neppure una prova, solo sulla parola di un pentito - e che parola! -), vorrebbero anche che il cornuto chiedesse scusa. Essendo lontano ho pensato di festeggiarti a mio modo parlando del tuo ultimo libro. «Altri Hotel», Mondadori Editore, appena uscito.
Io e te ci siamo conosciuti tardi e siamo diventati amici dopo. Venivamo da un’altra esperienza, da altri percorsi politici e culturali. Io non sono mai stato un rivoluzionario: sono sempre stato un intellettuale borghese, caratteristica che si è consolidata col tempo. Era il 1989, mi pare, era appena comincia la tua Odissea e io avevo letto sui giornali di un signore che vende le frittelle il quale, vent’anni dopo, vi inchiodava con la sua spontanea testimonianza resa a un sacerdote prima di essere resa ai carabinieri e credibile perché «aveva studiato dai salesiani» (sic, dagli atti del processo). L’incerta testimonianza del frittellaro, riportata dalla stampa italiana, mi suggerì allora un racconto intitolato: «Può il battere d’ali di una farfalla a New York provocare un tifone a Pechino?» (È la dizione esatta della cosiddetta teoria delle catastrofi). Il mio racconto uscì nel 1990, in un volume intitolato «L’angelo nero», dove si tratta soprattutto di malefatte, e fu subito oggetto di un’occhiuta magistrata, la dottoressa Laura Bortolé Viale, che lo inserì nella sentenza del primo processo d’appello, del 1991, in compagnia di un libro di Leonardo Sciascia: «Questa diabolica messinscena è anche il contenuto di due racconti pubblicati non a caso in concomitanza con l’inizio del processo di primo grado, ‟Una storia semplice” di Sciascia, e di secondo grado, ‟Può il battere d’ali di una farfalla a New York provocare un tifone a Pechino?”, di Tabucchi». Era la prima volta in Italia, dall’Inquisizione e dal Ventennio fascista, che due opere di letteratura venivano pubblicamente indicate al rogo dalle istituzioni giudiziarie. Ciò mi seccò assai. Fra l’altro anch’io avevo letto attentamente le teorie sulla cosiddetta «autonomia del personaggio» come ci insegnavano gli strutturalisti e i narratologi dell’epoca, e trovai dignitoso protestare: come si permetteva la signora magistrata, di violare l’intoccabilità dell’autonomia del mio personaggio? Se lei in quel poveraccio la cui falsa e contraddittoria confessione è fatta partorire da un maieuta di servizio, tipo il grande inquisitore o il pubblico ministero politico dei processi staliniani, vedeva Leonardo Marino, io rivendicavo il fatto che quello era il mio personaggio, che da Marino traeva sì ispirazione, ma che era assolutamente un personaggio autonomo inventato ed elaborato dalla mia fantasia. Oggi, passati dodici anni, devo ricredermi. La dottoressa Bertolé Viale aveva ragione in anticipo: quel personaggio è davvero Leonardo Marino. Nel senso che dai processi che sono seguiti, Marino ha fatto di tutto per assomigliare al mio personaggio. È diventato il mio personaggio. Mi ha copiato. «La macchina non era di quel colore che dico nella deposizione, è vero, mi sono confuso», ammette in un successivo dibattimento. Oppure: «sì, quel giorno a Pisa pioveva a dirotto, ora mio ricordo meglio signor Presidente», precisa, «non era una splendida giornata di sole, e dunque io e Sofri non passeggiavamo lungo l’Arno». «Sì con la macchina feci una manovra di retromarcia ma non fu proprio così, fu cosà, signor Presidente del tribunale, mi ero confuso». I giudici capiscono queste fessure del ricordo. Ma certo, è logico che un uomo che in un giorno della sua vita riceve l’ordine che sarà fatale per tutta la sua vita, possa non ricordare se quel giorno pioveva a dirotto oppure stava passeggiando sulle rive soleggiate dell’Arno che Leopardi amò tanto. Sono solo degli «assestamenti memoriali» dicono i giudici (sic!), perché così sono state definite queste robe di Marino dai volenterosi magistrati che hanno giudicato te Caro Sofri, con Bompressi e Pietrostefani. Assestamenti memoriali, termine quasi geologico, come quando si parla di terremoti. Ma fin dove può arrivare la scala Mercalli della burocrazia italiana? Forse il malore attivo che uccise l’anarchico Pinelli era solo il principio.
Caro Adriano, per «festeggiarti» da lontano mi ero proposto un compito, un compito di cui non sono capace. Volevo «recensire» il tuo libro ma mi rendo conto che esso non è «recensibile». Per parlarne in maniera seria e approfondita sarebbe necessario forse un altro libro. Perché è illibro di un umanista, parla di noi e del mondo, è troppo vasto per il riquadro di un articolo. Lo faccio dunque in maniera sbrigativa, quasi come pretesto, ma credo a suo modo sostanziale, proponendolo agli italiani tutti che si trovano felicemente in vacanza al mare e ai monti, come libro dell’estate. Anzi, dell’anno. Anzi, dell’epoca che ci è data da vivere. Dicendo loro: lettori vicini e lontani, tutto quello che vi circonda, televisione, opinionisti, finanzieri e politici soprattutto, hanno da tempo iniziato una campagna di diseducazione nei confronti della vostra intelligenza, al punto tale che ormai rischiate di non orientarvi più in questa selva selvaggia in cui l’allegro millenni ci ha introdotto. C’è un signore che al contrario di voi che state fuori, sta dentro. E dunque vede il mondo dal di dentro. Si chiama Adriano Sofri, è stato senza prova condannato a ventidue anni di galera e ha scritto un libro intitolato «Altri Hotel» (Mondadori Editore) raccogliendovi i suoi interventi pubblicati dal 1997 al 2002, dal suo dentro. Gli argomenti sono di varia umanità, ma non riguardano tanto lui (o lo riguardano solo in parte), riguardano soprattutto voi, cioè noi. Questo signore, secondo quanto vuole la nostra Costituzione, sta scontando una pena che ha il compito di «rieducarlo» perché in un paese occidentale e democratico come l’Italia il carcere ha il compito di «rieducare i cittadini» che non erano sufficientemente educati. Ebbene questa rieducazione ci pare ormai un accanimento terapeutico, come ho già detto, perché egli in queste sue pagine appare totalmente «rieducato», che la loro lettura contribuirà alla vostra rieducazione per la democrazia, la convivenza, l’intelligenza e altri beni preziosi che tutto intorno a voi cerca di farvi perdere. Per questo, di questo libro, raccomando la lettura a chi potrebbe fare un cosiddetto «atto di clemenza» verso un cittadino che dal di dentro si sta prendendo la briga (impresa titanica, peraltro) di rieducare alla chiarezza un Paese che pare vaghi nelle nebbie della demenza. Con la nebbia che caratterizza la nostra informazione libera, no si riesce a sapere bene chi potrebbe compiere un tale atto. Alcuni dicono un ministro, altri indicano un sottosegretario, i biografi di Caligola un cavallo, o un suo stalliere, o il cavaliere del cavallo. Io dopo avere interpellato credibili giuristi, continuo a pensare che l’atto sia di totale responsabilità del Presidente della Repubblica. E a lui mi rivolgo con il rispetto che si deve a un Presidente della Repubblica, che non è una cosa a da poco. Rifacendomi alla Storia, che è sempre maestra di vita, come si dice, ricordo che già ci furono personaggi del passato che non si rassegnarono al ruolo di comparse. Assai rari, un giorno fecero il gran rifiuto. Perché dettero un segnale che non erano imbalsamati, erano ancora vivi. E quel segnale, che necessariamente non era un gran rifiuto ma solo una piccola presa di posizione, cambiò il corso degli avvenimenti.
Stiamo a vedere, caro Adriano.
Auguri.

Antonio Tabucchi

Antonio Tabucchi (Pisa, 1943 - Lisbona, 2012) ha pubblicato Piazza d’Italia (Bompiani, 1975), Il piccolo naviglio (Mondadori, 1978), Il gioco del rovescio (Il Saggiatore, 1981), Donna di Porto Pim (Sellerio, 1983), Notturno indiano (Sellerio, 1984), I volatili del Beato Angelico (Sellerio, 1987), Sogni …