Boris Biancheri: La medicina di Bush per l'America

30 Agosto 2002
Le ferite dell'11 settembre. Uno a uno, i governi europei, prima cercando di non fare troppo rumore, poi via via più apertamente, prendono le distanze da Washington e dalla filosofia americana su cosa significhi e come si combatta il terrorismo. C’è chi, come la Francia o il Belgio, lo ha detto quasi subito; chi, come Schroeder, lo ha fatto con teutonica pesantezza spinto anche da motivi elettorali; chi, come il governo italiano, ha lasciato che a parlare fosse piuttosto la sinistra ma non l’ha contraddetta; perfino Blair, l’allievo diligente che continua a mandare i suoi aerei a bombardare l’Iraq, avanza riserve.
Sul divario Europa-America si è acceso un ampio dibattito cui hanno partecipato grandi nomi della politologia mondiale da Nye alla Spinelli, da Kissinger a Krauthammer. Qualcuno ne ha parlato con scherno, altri con rammarico: ma che divario ci sia non lo nega nessuno. Non è solo il terrorismo a dividere le due sponde dell’Atlantico, ma è questo il punto esemplare perché l’attacco alle Torri Gemelle aveva prodotto un generale e autentico sentimento di solidarietà e comunità di intenti con gli Stati Uniti. Nello spazio di un anno questo sentimento si è profondamente modificato.
Fra le tante, intelligenti interpretazioni che sono state date, se ne può aggiungere una che attiene a un dato di psicologia elementare. Io credo che l’opinione pubblica europea non abbia mai percepito cosa realmente l’11 settembre abbia significato per la grandissima maggioranza degli americani. Immaginiamo una persona qualunque, che bada ai propri affari. E’ giovane, in buona salute e guarda con fiducia al futuro. Un giorno come gli altri, senza che nessun sintomo l’abbia preavvertita, da un casuale, banalissimo esame del sangue scopre di avere una malattia grave, forse mortale.
Nulla, per quella persona, sarà come prima. La sua vita, le sue abitudini, i suoi pensieri gireranno e si orienteranno attorno a quel problema centrale: come vincere quella battaglia. Anche i suoi amici, naturalmente, si preoccupano, gli danno consigli, gli testimoniano solidarietà. Ma dopo un po’ per loro la vita riprende con altre priorità. Per lui, o per lei, non è così: la priorità resta quella. Questo è quanto è accaduto agli americani l’11 settembre. Non serve fare dell’ironia e sottovalutare un simile stato d’animo. Non può certo sottovalutarlo il Presidente degli Stati Uniti, che deve dimostrare ai cittadini che sta facendo quanto è possibile per vincere il male.
Un altro 11 settembre, magari con l’impiego di armi chimiche o batteriologiche, rivelerebbe che la malattia, anziché regredire, progredisce: questo timore prevale su ogni altra considerazione di opportunità o di politica internazionale. Senza dubbio gli americani hanno ragione quando sentono che il loro sistema, le loro istituzioni, il loro modo di vivere sono il bersaglio della maggior parte dei tanti terrorismi che affliggono il mondo: erano già il bersaglio dei terrorismi di sinistra europei e latino-americani dei decenni passati e lo sono ancora per i loro epigoni; lo sono oggi per le varie forme di terrorismo che si ispirano all’Islam.
Lo sono, semplicemente, perché a differenza del terrorismo di matrice nazionalistica, si tratta di terrorismi che volevano e vogliono ribaltare l’ordine del mondo e gli Stati Uniti sono al centro di quel che c’è di ordine nel mondo. Il male è che il terrorismo è difficile da combattere e forse impossibile da vincere definitivamente. E’ più facile vincere guerre tradizionali, come in Afghanistan, come probabilmente in Iraq. E’ quello che Bush, per dimostrare che la malattia che ha colpito l’America può essere dominata, ha fatto o si accinge a fare.

Boris Biancheri

Boris Biancheri (1930-2011) è nato in Italia da padre ligure e da madre di origine russa. Ha girato il mondo e ha trascorso parte della vita in Grecia, Francia, Giappone, …