Giorgio Bocca: Fiat. Quando per i torinesi era la mamma-padrona

10 Ottobre 2002
Quelli dell'indotto la chiamavano mamma, mamma Fiat, una mamma severa ma onnipresente. Torino era impensabile senza di lei. Torino senza la Fiat era impensabile anche dai comunisti, anche dai partigiani. Noi di "Giustizia e libertà" nei giorni della Liberazione stavamo in casa Agnelli, una occupazione che era anche una protezione del fondatore dell'azienda, il Senatore vecchio e malato. I capi del comunismo torinese, i Roveda e i Negarville, in quei giorni stavano nel Municipio, la città era rossa, i cortei operai riempivano strade e piazze, forse se non fossero arrivati gli americani il professor Valletta sarebbe finito in un forno, ma sulla Fiat operai e padroni su un punto erano d'accordo: "Salvaguardare la compagine lavorativa". Salvaguardare la concentrazione di cervelli e di tecniche, la cultura del lavoro. Togliatti di ritorno da Mosca aveva dato agli operai torinesi la parola d'ordine di lavorare, di ricostruire. La Torino della Fiat era quella della convivenza di odio e di stima, di rivolta e di consenso che veniva da lontano, dalla società monarchica e militare del vecchio Piemonte.
Era la Torino della cultura del lavoro, come quella militare della disciplina e della fatica. Il dialetto piemontese come unica lingua, i giornali non torinesi non solo rifiutati ma disprezzati, Milano remota e affarista, Roma a distanze africane. La Fiat del professor Valletta padrona indiscussa ma anche mamma. Le stelle della Fiat splendevano nella notte da Mirafiori ai Ricambi di corso Vercelli, segnavano la città intera, rosse come quelle del Cremlino. In quella Torino che era stata la culla del comunismo, una amministrazione comunista chiudeva gli occhi sulle evasioni fiscali della azienda-madre e faceva entrare e uscire dalle rimesse i tram secondo gli orari Fiat.
Non era servilismo e complicità, ma la legge dei grandi numeri: il lavoro delle banche era il lavoro Fiat per scontare le cambiali e le assicurazioni, la banca del sangue chiudeva quando chiudeva la Fiat e i donatori andavano in vacanza, le tredicimila boite o fabbrichette dell'indotto lavoravano per la Fiat, il Politecnico era pieno di studenti destinati a diventare ingegneri Fiat. Dall'anno della sua fondazione, il 1899, la Fiat aveva ereditato, adottato, conservato tutti i miti e i riti piemontesi, l'autoritarismo sabaudo e il costume militare: nelle scuole professionali Fiat si scattava sugli attenti quando passava un professore, guai a chi teneva le mani in tasca. Il professor Valletta "bollava" all'ingresso dell'azienda e dava cinquemila lire di premio al guardiano-sentinella che lo aveva fermato perché aveva dimenticato la tessera di riconoscimento.
Mamma Fiat non piaceva a tutti i torinesi, gli uomini di cultura: non erano perseguitati ma stavano appartati, ignoravano la Fiat e ne erano ignorati. Una telefonata di Tota Robiolo, la direttrice dell'ufficio stampa, faceva tremare i capicronisti colpevoli di avere pubblicato la notizia di un operaio morto in fabbrica per incidente sul lavoro: gli operai Fiat potevano morire solo sull'autoambulanza dell'ospedale. E poi la Tota ci sgridava se facevamo baccano mentre Valletta parlava agli azionisti: "Signori prego, un po' di silenzio, qui si fa l'Italia".
Nella Torino del primo dopoguerra si lavora a un ritmo sconosciuto nel resto del paese: otto ore al giorno e tempi strettissimi per gli operai. Più due ore di viaggio per pendolari; nove-dieci ore per i dirigenti. L'ingegner Gaudenzio Bono, direttore generale Fiat, fa questa vita: sveglia alle sette, alle otto in fabbrica, al lavoro fino alle otto di sera e oltre, una rapida cena, una passeggiatina in via Roma e alle dieci a letto. Come lui gli altri. "El travail", "Travaiuma", "Venta ruschè", bisogna lavorare. Il linguaggio della fabbrica trasferito in quello comune: "mi inganci l'ingegnere", "scusi ma il nostro parco uomini è al completo".
Così andavano le cose nella Torino dei piemontesi ma la Fiat in espansione aveva bisogno di uomini e nelle province povere del Sud c'era fame di lavoro. La prima ondata arrivò raccomandata dai parroci, per loro Torino era la terra promessa. Non scioperavano mai. La domenica portavano la famiglia a guardare la fabbrica e sopportavano il rifiuto dei piemontesi che appendevano sulla porta di casa o nei negozi i cartelli: "Qui non si affitta ai meridionali" o "Buon Natale ai piemontesi". Il problema di una scelta fra le due civiltà, la operaia e la contadina, non si poneva neppure, quella contadina degli immigrati veniva a una resa senza condizioni. Non gli restava altro che chiedere l'integrazione. Torino gliela concedeva, ma alternando il bastone con la carota. Da sempre nessun meridionale nella giunta municipale, neppure il professore emerito Gaetano Mosca che insegnava all'università in via Po, ma era di origini siciliane. Uno solo nella direzione Fiat, l'ingegner Gabrielli, di cui a Mirafiori si diceva: "È un terrone ma sembra proprio un piemontese".
Localismo e supponenza etnica ma in una struttura civile che escludeva il razzismo duro, da apartheid. Il bastone è durato fino agli anni Sessanta; dopo, anche i negozianti e gli affittacamere hanno capito che i meridionali potevano essere dei buoni clienti. Poi il professore è morto, Tota Robiolo è andata in pensione ed è arrivato l'Avvocato. Lui non si insediò subito al Lingotto, aveva ufficio al nono piano di un palazzo di vetro e cemento sul Lungo Po. Aveva quarantaquattro anni, una intelligenza viva, amara, un po' gattopardesca. I giornali, tutti, compresa l'Unità, evitavano di parlare della sua vita privata; la prima fotografia che pubblicarono lo mostrava al volante di una spider bianca, efebo del grande capitale, sorridente ai sottostanti Pirelli Valletta Bianchi, i feudatari dell'auto e della gomma seduti su una scomoda pedana, sotto il loro giovane sovrano. Uno che ha avuto miliardi e cortigiani dal giorno in cui è nato, ma ha resistito meglio di tanti altri. Lo incontrai per una intervista nell'anno della celebrazione dell'Unità italiana quando aveva ufficio sempre al piano più alto ma in corso Marconi. Avevo mandato le domande al suo assistente politico e culturale, Vittorino Chiusano che aveva scritto le risposte, togliendogli anche la fatica di leggerle. Risposte da liberal colto e attento ai problemi sociali. Le altre volte preferì improvvisare, fu meno politicamente corretto ma più divertente.
Allora Torino appariva come una città di geometriche sudditanze, in cui l'alienante era a sua volta alienato dalla sua corte. Tutto a Torino era suo, ma quel tutto lo teneva prigioniero. Come Massimo D'Azeglio e altri ministri della corte sabauda soffocati dalla etichetta e dalla noia torinesi, "andavano a respirar a Milano"; ogni tanto lo si vedeva fra la folla romana in via Barberini o sulle spiagge e le case da gioco di Cannes. Mai in via Roma a Torino dove rispettava il mestiere di re. Un privilegiato, non un mediocre. Poi venne la Fiat della automazione e della sconfitta operaia, la Fiat di Cesare Romiti. Il potere del sindacato era il controllo delle linee di produzione. La Fiat glielo tolse con l'automazione. La Fiat degli anni fra il 1973 e il 1978, gli anni della trasformazione, appariva come una fabbrica bombardata: qui un reparto funzionante, lì accanto il vuoto, qui una vecchia linea continuava a produrre i vecchi modelli e lì accanto erano già al lavoro le macchine "intelligenti". Fra i primi reparti automatizzati, il Meccanica 3 dove si faceva la "131".
La linea di produzione era scomparsa, le stazioni di montaggio autonome l'una dall'altra, i pezzi da assemblare in marcia sui robotcarries, i carrelli che seguivano le linee elettriche del pavimento. Se una squadra non teneva il ritmo la catena non saltava, la produzione non si arrestava, il cervello elettronico smistava i pezzi verso altre stazioni. Il sindacato è impotente, cerca di rimuovere il problema, si consola dicendo che l'automazione è solo una parte della produzione, che le armi tradizionali della classe operaia sono ancora valide. Arrivano in suo soccorso le contestazioni, le nevrosi dell'operaio-massa. La grande fabbrica le affida al sindacato, gli offre una nuova ragion d'essere. Si arriva al caso limite di Rivalta dove sono gli uomini del sindacato a fare un'inchiesta, a scoprire i colpevoli di un sabotaggio. L'automazione mette in crisi tutti, anche i capi. Una cosa era ricevere il programma di produzione scritto, mettersi a discutere con gli operai, controllarne l'esecuzione, un'altra è vederlo apparire su un monitor e sapere che non c'è niente da discutere visto che ci penserà il cervello elettronico. È in crisi anche la dirigenza tecnica. Gli ingegneri, i progettisti: è in crisi l'amministrazione un tempo potentissima.
L'innovazione è ambigua, quello che ti dà con una mano te lo toglie con l'altra. Si lavora di meno, le lavorazioni pericolose, perniciose, passano ai robot ma il rapporto fra gli operai e il sindacato si allenta, la funzione del sindacato si appanna. Poi a farmi conoscere bene l'automazione ci pensò Sergio Rossi, fondatore del Comau, la fabbrica dei robot in vendita anche lei per pagare i debiti. Rossi è un concentrato di operaismo piemontese, innovazione e tradizione. "Noi siamo quelli del truciolo", dice, "quelli venuti su al tornio che hanno respirato per anni polvere di ferro e fumo di olio. Ci sono due modi per capire se un'auto è ben fatta: con il computer e con il culo. Il computer può sbagliare, il culo no, è con il culo che senti come tiene la strada, come accelera, come frena". Lo seguii per mesi nell'Italia dell'alta tecnologia. Ci davamo appuntamento a Milano alla stazione aeronautica dei Vip. Lui è lì che mi aspetta con il suo pilota di fiducia che guida l'aereo e prepara i panini, tira fuori dal frigo le birrette gelate e il thermos del caffè. Andiamo a Foggia dove fanno i motori Fire, ad Avellino, Termoli, Montecassino, a Melfi a vedere le macchine intelligenti, le più avanzate del mondo, al confronto le linee di Detroit o di Stoccarda appaiono arretrare e la espansione Fiat continua, sembra non debba fermarsi mai.
La marcia dei quarantamila a Torino dà il colpo di grazia al sindacato. Sono anche gli anni del terrorismo, le Br uccidono capi officina e direttori ma la grande industria va per la sua strada. Ci sono i momenti difficili: vengono messi alla porta i colletti bianchi degli uffici, non servono più, sostituiti dai computer. Sono gli stessi che hanno marciato per difendere l'azienda, ma la rivoluzione tecnologica non perdona. Non dimenticherò quel giorno che gli impiegati occuparono per qualche ora la direzione di Mirafiori e poi ne uscirono rassegnati alla sconfitta. Venne fuori per prima una impiegata, una madamìn con il colletto di pelliccia, il soprabito scuro e un dignitoso scendere per le scale, ma le scappò una scarpetta che rotolò giù per i gradini, ultima umiliazione. Cambia anche il rapporto fra l'operaio e l'azienda.
La Fiat non è più il luogo del lavoro per tutta la vita, non è più la mamma, è un luogo dove si passa per qualche mese o qualche anno, per poi trovare un lavoro migliore. Dicono che Torino segua con rassegnazione e quasi indifferenza la crisi della fabbrica. Forse per un senso di impotenza. La deindustrializzazione è in marcia, il capo del governo vuole che sia fatto senatore a vita Mike Bongiorno, la gente guarda la televisione e si consola con il voyeurismo delle letterine e delle veline.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …