Guido Viale: Non solo Fiat. E' l'auto che tramonta
17 Ottobre 2002
Quello che manca nell'attuale dibattito sulla crisi della Fiat è un
approccio storico al fenomeno auto, che non è una realtà eterna, ma ha avuto
un inizio e può avere - o sta avendo - una fine. Cento anni fa l'invenzione del
motore a combustione interna (propulsore e combustibile di peso e dimensioni
ridotte, tali da poter essere montati sullo chassis di una carrozza, cosa
impossibile con la macchina a vapore) ha dato l'avvio alla progressiva
sostituzione dei cavalli, dei carri e delle carrozze con i veicoli motorizzati
nei percorsi urbani e in quelli extraurbani secondari (cioè non serviti dalla
ferrovia). Questo processo si è sviluppato nel corso di trenta anni negli Stati
Uniti, di cinquanta in Europa, e di cento nel resto del mondo (tanto che in
alcuni di questi paesi è ancora in corso). I vantaggi erano indubbi: le
automobili non sporcano la strada e richiedono meno manutenzione e sono più
veloci di un essere vivente. Prima dell'auto c'erano già tecnologia, mestiere -
cioè professionalità - e una quota non irrilevante di business e di
occupazione anche nella costruzione di carri e carrozze, tanto che la nascente
industria automobilistica era partita appropriandosi di alcune innovazioni
sviluppate in quel campo: telai, balestre, soffietti, ecc. Ma nessuno, mano a
mano che l'automobile si faceva strada, innanzitutto nel trasporto urbano di
lusso e di merci e nella mobilità rurale, ha mai pensato di sostenere il traino
animale con incentivi e politiche ad hoc.
La conquista del settore della mobilità urbana di massa, e non solo più di élite, da parte dell'auto negli Stati Uniti - anni `20 e `30 - è invece un'altra storia. A quell'epoca il trasporto pubblico di massa si era già diffuso grazie a tram e metropolitane che viaggiavano su rotaie e sfruttavano la propulsione elettrica, due soluzioni che hanno entrambe bisogno di un tracciato fisso. Per scalzarle a favore delle motorizzazione privata, la grande industria statunitense dell'automobile aveva comprato a una a una le società private - o, più spesso, municipali - che gestivano il trasporto pubblico locale e poi le aveva chiuse. Chi voleva muoversi doveva comprarsi un'auto. In Italia lo smantellamento dei binari dei tram è continuato fino alla fine degli anni `70. Poi ci si è accorti che era un errore.
L'auto come veicolo pressoché esclusivo della mobilità interurbana è stata invece imposta negli anni `50 con un la costruzione di una rete nazionale di autostrade, ricalcata su quella costruita in Germania negli anni `30, che sono rimaste i modelli insuperati di tutti i successivi programmi di lavori pubblici (governo Berlusconi e legge-obiettivo compresi) a livello mondiale.
Con l'imposizione dell'auto come soluzione privilegiata di mobilità, si sono andate affermando anche le principali caratteristiche dell'epoca in cui viviamo: individualismo (e solitudine): l'importante è potersi spostare quando, dove e con chi si vuole e per il resto si sta chiusi in casa, in ufficio o in fabbrica, dato che strade, piazze, giardini, marciapiedi e cortili sono stati sottratti agli umani per consegnarli alle auto; consumismo: nonostante tutte le innovazioni, l'auto resta l'archetipo incontrastato dei consumi nelle società "opulente" (a cui si sacrifica spesso la parte più rilevante del proprio reddito), e la principale aspirazione in tutte quelle che non lo sono; sprawl urbano, cioè "città diffusa": le città hanno cessato di addensarsi intorno agli edifici che ne esprimevano le funzioni fondamentali, o di allinearsi lungo gli assi radiali definiti dai tracciati del trasporto pubblico (tram e metropolitane) per sparpagliarsi - insieme al sistema industriale (i famosi distretti) su tutto il territorio, azzerando la storica differenza tra campagna e città.
Tra i lasciti dell'auto alla nostra epoca ci sono anche i cambiamenti climatici (i trasporti - in gran parte su gomma - sono responsabili del 40 per cento circa dell'effetto serra) e, da ultimo, le guerre: quella del Golfo, quella in Afganistan (pianificata ben prima dell'11 settembre), quella in Cecenia e la prossima ventura in Iraq - ma anche gran parte del conflitto arabo israeliano, per lo meno dal 1973 - non hanno altra ragione che la sete di petrolio del parco-macchine dell'Occidente.
La schizofrenia
L'auto ha stravinto, ma è da tempo soffocata dal suo stesso successo: continua a invadere tutto il territorio disponibile, ma ogni auto in più non fa che sottrarre "spazio vitale" a tutte le altre; scarica impunemente in propri miasmi in atmosfera, ma il cielo, che per gli antichi era una sfera di cristallo e da Copernico in poi uno spazio infinito, si è dimostrato incapace di contenerli tutti. Inoltre l'auto non offre più niente di quello che aveva promesso: la libertà di andare dove si vuole si è trasformata nella clausura dell'imbottigliamento; la libertà di partire quando si vuole nella rigida programmazione degli spostamenti per evitare le ore di punta; l'indipendenza dai tracciati rigidi del trasporto pubblico nella costrizione dei sensi unici, delle zone vietate o a traffico limitato, nei percorsi che si avvitano su se stessi per scoraggiare l'afflusso; la produttività garantita dalla velocità, nella lentezza della regolamentazione semaforica, delle code, della quotidiana ricerca di varchi e di parcheggi.
Il fatto è che la modalità di trasporto fondata sull'automobile richiede che ciascuno abbia sempre e ovunque un'auto a propria disposizione e la soluzione adottata per raggiungere questo obiettivo è consistita nell'obbligare ciascuno di noi - di quelli di noi che possono permetterselo - a comprarne una. Con la conseguenza che tutte quelle auto non stanno più negli spazi a loro disposizione; e non ci staranno più per quanti sforzi facciamo per accrescerli, anche a spese del paesaggio, del retaggio monumentale, degli equilibri ambientali, della socialità, della salute. E ci staranno ancora meno se il modello di mobilità occidentale (un'auto ogni due persone) si diffondesse in tutto il resto del mondo, che è la strategia oggi perseguita da tutte le case automobilistiche, Fiat compresa.
Questa strategia, in cui tutti noi siamo coinvolti dai nostri comportamenti quotidiani, ha le caratteristiche una corsa di lemmings verso il suicidio collettivo. C'è un parallelismo stretto tra l'ostinazione con cui tutte le mattine ci "mettiamo in macchina" per andare incontro a un sicuro ingorgo, da cui non sappiamo neanche se usciremo in tempo - perché questo è l'unico modo che conosciamo o abbiamo a disposizione per spostarci - e l'ostinazione con cui le case automobilistiche continuano a riproporre tutti gli anni lo stesso prodotto (con varianti sempre più insignificanti) perché è diventato una droga per l'economia e nessuno sa proporre un'altra strada per sostenere occupazione e sviluppo. Queste due pazzie sono accomunate da una terza: l'ostinazione con cui continuiamo ad accrescere con i nostri comportamenti l'effetto serra, nonostante che sia ormai chiaro a tutti che ciò si sta trasformando sotto i nostri occhi in una catastrofe.
E' difficile pensare che tutto ciò dipenda solo dalla mancanza di una politica industriale - o da una errata politica industriale - del governo, dopo che per decenni nell'industria automobilistica e in quelle connesse del petrolio, dei pneumatici e dell'asfalto è stato pompato il meglio delle risorse del paese: non solo dalla parte dell'offerta, con regalie di ogni genere ai produttori, ma sempre più, mano a mano che queste non bastavano più, anche dalla parte della domanda, incentivando il consumatore a cambiare auto o a comprarne una in più.
La crisi attuale dipende proprio dalle politiche industriali che sono state messe in atto in passato, con un crescendo continuo mano a mano che ci avviciniamo ai giorni nostri: e non solo in Italia, ma in tutto il mondo, come ci fa notare anche Marcello De Cecco su la Repubblica di domenica 13 ottobre, puntando il dito sugli incentivi "privati" (finanziamento delle vendite a rate a tassi irrisori) con cui l'industria auto di tutto il mondo è stata sostenuta nel corso degli ultimi anni. Se in Italia i nodi sono arrivati al pettine prima che in altri paesi industriali, è stupido attribuirne la causa alla stupidità della dirigenza Fiat, che non avrebbe investito abbastanza in "nuovi modelli".
Viene da dire: meno male che non lo ha fatto, gettando nel pozzo senza fondo di una causa persa una quantità doppia di risorse, che in una maniera o nell'altra avrebbero dovuto essere fornite dallo stato, o che sarebbero comunque state sottratte ad altre destinazioni. C'è qualcuno che pensa davvero che la Fiat avrebbe potuto evitare di incappare nelle maglie della crisi che l'industria automobilistica attraversa a livello mondiale con modelli più "seducenti", un po' più di elettronica costipata sotto il cruscotto, un motore un po' più pulito - in attesa dell'idrogeno: cioè Aspettando Godot - o magari un'alleanza più stretta con un colosso multinazionale? D'altronde quella c'è già; ma c'è da piangere a pensare che qualcuno aspetta di là una soluzione alla crisi.
La crisi è arrivata in Italia prima che altrove perché in Italia sono arrivati prima al pettine i nodi della saturazione del mercato: innanzitutto il backlash, cioè il contraccolpo, degli incentivi espliciti o nascosti forniti alla Fiat dalle politiche economiche (protezionismo, autostrade, contributi a fondo perduto, incentivi alla rottamazione, credito a go-go); tanto che i padroni della Fiat hanno potuto costruirsi un impero finanziario in altri settori, anche se che l'automobile è l'unico settore industriale rimasto al paese. Ma era l'unico anche in passato, perché siderurgia, costruzioni, macchine utensili, gomma, e persino l'informatica, finché avevano un peso, non ne erano che appendici e avevano nell'industria automobilistica il loro home bread market. Poi i problemi connessi alla densità automobilistica d'Italia, la più alta del mondo sulla base sia dei veicoli per abitante, che dei veicoli per chilometro di strada - e le strade non sono certo poche. Infine, i problemi connessi all'incidenza dell'automobile sui consumi privati e sulla spesa pubblica, se ci fossero statistiche affidabili.
Ma, soprattutto, in Italia è arrivata al suo culmine la schizofrenia delle politiche pubbliche sull'auto: da una lato una promozione senza ritegno delle vendite - con tutte le salmerie al loro servizio: pubblicità e spettacolo, ma anche urbanistica, analisi sociale, educazione, critica del costume, ecc. - accompagnate, per non "irritare" l'automobilista-elettore, dal lassismo più bieco nell'osservanza delle regole: sicurezza, sosta e parcheggio, rumore, velocità, standard di produzione, gestione della rottamazione e del recupero, tutela dei centri storici e del paesaggio, ecc.
Dall'altro una politica sempre più improvvisata, raccogliticcia, priva di respiro, per far fronte alle emergenze che l'invadenza dell'auto sta accumulando a ritmi sempre più rapidi: targhe alterne, Ztl (Zone a Traffico Limitato) improvvisate e prive di controlli, blocchi del traffico e della distribuzione delle merci, regolamentazione del parcheggio senza programmazione, miliardi spesi per far posto, sottoterra, a poche centinaia di auto, quando quelle che bisognerebbe togliere dalla strada sono centinaia di migliaia. Non parliamo dei sottopassi e cavalcavia urbani che devastano interi quartieri nella speranza di sciogliere ingorghi che improvvisamente - se e quando l'opera viene conclusa - si riformano uguali a poche centinaia di metri di distanza. Qualcuno si è mai chiesto quanto possono essere affidabili amministrazioni che si imbarcano in politiche del genere? E quanto ha pesato l'impasse generata da questa crisi epocale dell'auto - l'incapacità di trovare una qualunque soluzione praticabile ai problemi del traffico - sulla credibilità di politici ridotti al ruolo del
Il grande vigile urbano
Questa "strategia" - una vera e propria non-scelta - ha impedito finora alla maggior parte di noi di vedere (come ne La lettera rubata di Poe) ciò che invece è macroscopicamente davanti ai nostri occhi: e cioè che da almeno dieci anni ha fatto il suo ingresso nel mondo una nuova tecnologia che rende il possesso dell'auto individuale obsoleto e superfluo, com'erano diventati obsoleti e superflui carri e carrozze mano a mano che progrediva la tecnologia del motore a scoppio e tutti gli sforzi per tenere in vita un sistema così antiquato sono condannati alla sconfitta, come lo era il sistema del traino animale. Questa tecnologia, inutile dirlo, perché in realtà lo sappiamo tutti, e l'interconnessione in rete wireless, senza fili.
Il tramonto dell'auto, soffocata dal suo stesso successo, e della mobilità privata, suggerisce nuove strade. Il trasporto pubblico flessibile, cioè a domanda. In modo da aggiungere ai treni e ai bus urbani car sharing, car pooling e taxibus, cioè un surplus di organizzazione e di "sistema". Ma le amministrazioni comunali dovrebbero crederci, e investirvi denaro e intelligenze.
L'elettronica è una risorsa di governo dei sistemi, e il sistema da governare non è il singolo veicolo, che l'industria automobilistica sta imbottendo sempre più di gadget per cercare di renderlo più sicuro, più attraente, più comodo; bensì l'insieme della mobilità. Ci troviamo ormai di fronte a fenomeni grotteschi, come gli studi - in cui vengono dilapidati miliardi di dollari - per introdurre nelle auto - e nelle autostrade - sistemi elettronici di guida automatica dei veicoli: per metterli tutti in fila, a velocità costante, lungo un tracciato predefinito, ciascuno con il suo bel motore che consuma energia e scarica inquinanti, esautorando completamente il ruolo dell'autista. Ma allora, non era meglio il treno? E' forse con ricerche di questo tipo che si vorrebbe salvare la Fiat? Ed è per fare questo tipo di ricerca che a Torino è stato aperto - il momento non poteva essere peggiore - un corso di laurea in ingegneria dell'automobile? Lo sviluppo della rete apre le porte, nel settore della mobilità di passeggeri e merci, come in molti altri campi, al trapasso dall'economia del possesso all'economia dell'accesso. La rete rende superfluo disporre di un'auto personale per andare dove si vuole, quando si vuole e con chi si vuole; e permette di disporre di un'auto - di qualsiasi tipo di auto: con o senza autista, da soli o in forma condivisa, e di qualsiasi tipo e modello, a seconda dell'uso che se ne vuol fare - o di un equivalente mezzo di trasporto, in qualsiasi momento e in qualsiasi punto di qualsiasi città occidentale, per tutto il tempo in cui la si usa, permettendo ad altri di fare altrettanto. Ma senza abbandonare un veicolo inutilizzato per una media di 22 ore al giorno a ingombrare la strada - rallentando gli spostamenti di chi effettivamente si muove - e a incidere pesantemente sui nostri bilanci personali, su quelli delle amministrazioni cittadine e dello stato, e sullo stato dell'ambiente.
Questi sistemi si chiamano - in gergo - Drts (Demand responsive Transport System, cioè trasporto a domanda), ovvero trasporto pubblico flessibile, taxibus, taxi collettivo, car sharing, car pooling (oltreché, beninteso, trasporto pubblico di massa su linee urbane di forza e sulle tratte interurbane, bicicletta e un più intenso uso dei piedi) e possono costare meno sia a noi che all'erario, sia a chi gestisce i sistemi di mobilità o le infrastrutture di trasporto che ha chi ne subisce impatti e conseguenze non sempre piacevoli. Qualsiasi risorsa destinata a potenziare questi sistemi è un investimento sul futuro. Qualsiasi risorsa gettata nel miglioramento qualitativo dei veicoli attuali o nella cosiddetta "fluidificazione del traffico" a parità di veicoli in circolazione è una dilapidazione irresponsabile di ricchezza.
Ma per imboccare una strada del genere bisogna crederci: cioè investire risorse e individuare i soggetti giusti. Questi ultimi non sono e non credo che possano essere rappresentati dall'industria automobilistica. Sostenere che la riconversione della Fiat passi attraverso il suo impegno nella promozione del trasporto urbano flessibile è un non-senso. Certamente il trasporto urbano ed extraurbano continuerà ad avere bisogno di veicoli - e quindi anche di automobili - adatti alle nuove funzioni. E questo richiede non solo officine meccaniche e catene di montaggio, ma anche laboratori di ricerca, uffici di progettazione, reparti di sperimentazione: cioè una parte di quel patrimonio di risorse umane di cui si paventa giustamente la dispersione.
Ma il compito di riorganizzare la mobilità urbana è di chi ha la responsabilità della gestione del territorio; e non può essere delegato. Un secolo fa, in presenza di sviluppi tecnologici che rendevano possibile raggiungere la totalità dei cittadini - e soprattutto le classi più povere - con servizi fino ad allora appannaggio dei ricchi, alcune municipalità si assunsero la responsabilità di produrre e fornire gas, luce, acqua, trasporti, rifiuti, comunicazioni, ecc. Ne nacquero diverse società municipalizzate che per quasi un secolo hanno caratterizzato il panorama industriale dell'Italia e che oggi vengono dimesse. Ma non dovrebbe venir dimesso il governo di queste funzioni, anche perché, dove i privati sono subentrati alle società pubbliche, non sempre i risultati sono stati brillanti.
Oggi, di fronte a sviluppi tecnologici che rendono possibile rivoluzionare i sistemi della mobilità urbana, azzerando la causa principale dell'impasse in cui è incappata la nostra vita quotidiana, occorre uno sforzo analogo per restituirne il governo ai rappresentanti della cittadinanza; ed anche per riassorbire, nella nuova filiera del trasporto pubblico al servizio di tutti, una parte almeno di quella manodopera che l'industria automobilistica sta liquidando.
E' sbagliato spingere i lavoratori ad aggrapparsi ad un relitto che affonda: la salvezza sta in un sistema di garanzie e nei progetti che guardano al futuro. Non è detto che lo sforzo delle amministrazioni locali debba assumere nuovamente la forma di una società municipalizzata: può essere un consorzio di soggetti pubblici e privati, in modo da realizzare al meglio quella sacrosanta distribuzione delle responsabilità che è il volto positivo del principio di sussidiarietà. Certamente non è facile per un'amministrazione locale cambiare il segno di un modo di agire che si radica nell'ostinazione senza sbocchi dei nostri comportamenti. Ma è importante trovare un accordo sulla direzione da imboccare.
Un sistema di mobilità flessibile impone soglie di ingresso al di sotto delle quali le funzionalità della rete sono precluse. Per questo vanno studiate attentamente ex-ante. Il car sharing non può essere organizzato, come ora, con 10 vetture: ce ne vogliono, solo per partire, 10.000 per ogni grande città, con la certezza, per di più, di un rientro degli investimenti solo a lungo termine. Per fare il taxi collettivo non si può partire con meno di 1000-2000 vetture - e occorre fare i conti, senza demonizzarli ma senza nascondere i problemi - con la forza contrattuale e soprattutto elettorale del mondo dei taxisti.
Per fare il taxibus, o altre forme di Drts, con cui sostituire il trasporto di massa nelle ore e sui tracciati in cui è maggiormente sottoutilizzato, occorre investire in mezzi adatti e soprattutto in campagne serie di comunicazione (da questo punto di vista Milano rappresenta forse l'esempio peggiore che si possa immaginare). Per ottimizzare la distribuzione delle merci - ai negozi e a domicilio - occorre mettere a disposizione dei piccoli trasportatori le risorse necessarie per "fare sistema" associandosi. E soprattutto, per fare tutto ciò, bisogna avere la forza politica di imporre e di far rispettare i divieti: ma solo una volta che si siano garantite alternative praticabili e convenienti.
Non è vero che oggi non ci sono risorse per intraprendere uno sforzo del genere. Se il denaro che oggi viene gettato nel pozzo senza fondo delle metropolitane - che non sono altro che un gigantesco pedaggio che la città paga per far sì che alcune linee di forza del trasporto urbano di massa non interferiscano con il traffico di superficie (cioè per permettere alle auto private di occupare gratis tutto il suolo pubblico) - o in quello dei sottopassi, dei sovrappassi, dei sistemi di semafori "intelligenti" e quant'altro la moderna ingegneria civile mette a disposizione della perpetuazione dello stato di cose presente, se quel denaro venisse utilizzato per finanziare in misura adeguata progetti di car pooling, car sharing, taxi collettivo, taxibus e linee tranviarie di superficie comode e veloci, in cinque anni il volto di una città italiana cambierebbe radicalmente.
E ai turisti convocati da tutto il mondo, per esempio per assistere a una manifestazione sportiva su cui si sono investiti miliardi destinati a lasciare le cose come prima, non si farebbe trovare una città intasata dal traffico e magari sconvolta da cantieri che non si è riusciti a chiudere in tempo, ma un sistema di mobilità veramente innovativo, in grado di promuovere in tutto il mondo i risultati raggiunti a livello locale dall'industria del trasporto urbano; e, al suo seguito, anche quel che resta dell'industria automobilistica locale.
La conquista del settore della mobilità urbana di massa, e non solo più di élite, da parte dell'auto negli Stati Uniti - anni `20 e `30 - è invece un'altra storia. A quell'epoca il trasporto pubblico di massa si era già diffuso grazie a tram e metropolitane che viaggiavano su rotaie e sfruttavano la propulsione elettrica, due soluzioni che hanno entrambe bisogno di un tracciato fisso. Per scalzarle a favore delle motorizzazione privata, la grande industria statunitense dell'automobile aveva comprato a una a una le società private - o, più spesso, municipali - che gestivano il trasporto pubblico locale e poi le aveva chiuse. Chi voleva muoversi doveva comprarsi un'auto. In Italia lo smantellamento dei binari dei tram è continuato fino alla fine degli anni `70. Poi ci si è accorti che era un errore.
L'auto come veicolo pressoché esclusivo della mobilità interurbana è stata invece imposta negli anni `50 con un la costruzione di una rete nazionale di autostrade, ricalcata su quella costruita in Germania negli anni `30, che sono rimaste i modelli insuperati di tutti i successivi programmi di lavori pubblici (governo Berlusconi e legge-obiettivo compresi) a livello mondiale.
Con l'imposizione dell'auto come soluzione privilegiata di mobilità, si sono andate affermando anche le principali caratteristiche dell'epoca in cui viviamo: individualismo (e solitudine): l'importante è potersi spostare quando, dove e con chi si vuole e per il resto si sta chiusi in casa, in ufficio o in fabbrica, dato che strade, piazze, giardini, marciapiedi e cortili sono stati sottratti agli umani per consegnarli alle auto; consumismo: nonostante tutte le innovazioni, l'auto resta l'archetipo incontrastato dei consumi nelle società "opulente" (a cui si sacrifica spesso la parte più rilevante del proprio reddito), e la principale aspirazione in tutte quelle che non lo sono; sprawl urbano, cioè "città diffusa": le città hanno cessato di addensarsi intorno agli edifici che ne esprimevano le funzioni fondamentali, o di allinearsi lungo gli assi radiali definiti dai tracciati del trasporto pubblico (tram e metropolitane) per sparpagliarsi - insieme al sistema industriale (i famosi distretti) su tutto il territorio, azzerando la storica differenza tra campagna e città.
Tra i lasciti dell'auto alla nostra epoca ci sono anche i cambiamenti climatici (i trasporti - in gran parte su gomma - sono responsabili del 40 per cento circa dell'effetto serra) e, da ultimo, le guerre: quella del Golfo, quella in Afganistan (pianificata ben prima dell'11 settembre), quella in Cecenia e la prossima ventura in Iraq - ma anche gran parte del conflitto arabo israeliano, per lo meno dal 1973 - non hanno altra ragione che la sete di petrolio del parco-macchine dell'Occidente.
La schizofrenia
L'auto ha stravinto, ma è da tempo soffocata dal suo stesso successo: continua a invadere tutto il territorio disponibile, ma ogni auto in più non fa che sottrarre "spazio vitale" a tutte le altre; scarica impunemente in propri miasmi in atmosfera, ma il cielo, che per gli antichi era una sfera di cristallo e da Copernico in poi uno spazio infinito, si è dimostrato incapace di contenerli tutti. Inoltre l'auto non offre più niente di quello che aveva promesso: la libertà di andare dove si vuole si è trasformata nella clausura dell'imbottigliamento; la libertà di partire quando si vuole nella rigida programmazione degli spostamenti per evitare le ore di punta; l'indipendenza dai tracciati rigidi del trasporto pubblico nella costrizione dei sensi unici, delle zone vietate o a traffico limitato, nei percorsi che si avvitano su se stessi per scoraggiare l'afflusso; la produttività garantita dalla velocità, nella lentezza della regolamentazione semaforica, delle code, della quotidiana ricerca di varchi e di parcheggi.
Il fatto è che la modalità di trasporto fondata sull'automobile richiede che ciascuno abbia sempre e ovunque un'auto a propria disposizione e la soluzione adottata per raggiungere questo obiettivo è consistita nell'obbligare ciascuno di noi - di quelli di noi che possono permetterselo - a comprarne una. Con la conseguenza che tutte quelle auto non stanno più negli spazi a loro disposizione; e non ci staranno più per quanti sforzi facciamo per accrescerli, anche a spese del paesaggio, del retaggio monumentale, degli equilibri ambientali, della socialità, della salute. E ci staranno ancora meno se il modello di mobilità occidentale (un'auto ogni due persone) si diffondesse in tutto il resto del mondo, che è la strategia oggi perseguita da tutte le case automobilistiche, Fiat compresa.
Questa strategia, in cui tutti noi siamo coinvolti dai nostri comportamenti quotidiani, ha le caratteristiche una corsa di lemmings verso il suicidio collettivo. C'è un parallelismo stretto tra l'ostinazione con cui tutte le mattine ci "mettiamo in macchina" per andare incontro a un sicuro ingorgo, da cui non sappiamo neanche se usciremo in tempo - perché questo è l'unico modo che conosciamo o abbiamo a disposizione per spostarci - e l'ostinazione con cui le case automobilistiche continuano a riproporre tutti gli anni lo stesso prodotto (con varianti sempre più insignificanti) perché è diventato una droga per l'economia e nessuno sa proporre un'altra strada per sostenere occupazione e sviluppo. Queste due pazzie sono accomunate da una terza: l'ostinazione con cui continuiamo ad accrescere con i nostri comportamenti l'effetto serra, nonostante che sia ormai chiaro a tutti che ciò si sta trasformando sotto i nostri occhi in una catastrofe.
E' difficile pensare che tutto ciò dipenda solo dalla mancanza di una politica industriale - o da una errata politica industriale - del governo, dopo che per decenni nell'industria automobilistica e in quelle connesse del petrolio, dei pneumatici e dell'asfalto è stato pompato il meglio delle risorse del paese: non solo dalla parte dell'offerta, con regalie di ogni genere ai produttori, ma sempre più, mano a mano che queste non bastavano più, anche dalla parte della domanda, incentivando il consumatore a cambiare auto o a comprarne una in più.
La crisi attuale dipende proprio dalle politiche industriali che sono state messe in atto in passato, con un crescendo continuo mano a mano che ci avviciniamo ai giorni nostri: e non solo in Italia, ma in tutto il mondo, come ci fa notare anche Marcello De Cecco su la Repubblica di domenica 13 ottobre, puntando il dito sugli incentivi "privati" (finanziamento delle vendite a rate a tassi irrisori) con cui l'industria auto di tutto il mondo è stata sostenuta nel corso degli ultimi anni. Se in Italia i nodi sono arrivati al pettine prima che in altri paesi industriali, è stupido attribuirne la causa alla stupidità della dirigenza Fiat, che non avrebbe investito abbastanza in "nuovi modelli".
Viene da dire: meno male che non lo ha fatto, gettando nel pozzo senza fondo di una causa persa una quantità doppia di risorse, che in una maniera o nell'altra avrebbero dovuto essere fornite dallo stato, o che sarebbero comunque state sottratte ad altre destinazioni. C'è qualcuno che pensa davvero che la Fiat avrebbe potuto evitare di incappare nelle maglie della crisi che l'industria automobilistica attraversa a livello mondiale con modelli più "seducenti", un po' più di elettronica costipata sotto il cruscotto, un motore un po' più pulito - in attesa dell'idrogeno: cioè Aspettando Godot - o magari un'alleanza più stretta con un colosso multinazionale? D'altronde quella c'è già; ma c'è da piangere a pensare che qualcuno aspetta di là una soluzione alla crisi.
La crisi è arrivata in Italia prima che altrove perché in Italia sono arrivati prima al pettine i nodi della saturazione del mercato: innanzitutto il backlash, cioè il contraccolpo, degli incentivi espliciti o nascosti forniti alla Fiat dalle politiche economiche (protezionismo, autostrade, contributi a fondo perduto, incentivi alla rottamazione, credito a go-go); tanto che i padroni della Fiat hanno potuto costruirsi un impero finanziario in altri settori, anche se che l'automobile è l'unico settore industriale rimasto al paese. Ma era l'unico anche in passato, perché siderurgia, costruzioni, macchine utensili, gomma, e persino l'informatica, finché avevano un peso, non ne erano che appendici e avevano nell'industria automobilistica il loro home bread market. Poi i problemi connessi alla densità automobilistica d'Italia, la più alta del mondo sulla base sia dei veicoli per abitante, che dei veicoli per chilometro di strada - e le strade non sono certo poche. Infine, i problemi connessi all'incidenza dell'automobile sui consumi privati e sulla spesa pubblica, se ci fossero statistiche affidabili.
Ma, soprattutto, in Italia è arrivata al suo culmine la schizofrenia delle politiche pubbliche sull'auto: da una lato una promozione senza ritegno delle vendite - con tutte le salmerie al loro servizio: pubblicità e spettacolo, ma anche urbanistica, analisi sociale, educazione, critica del costume, ecc. - accompagnate, per non "irritare" l'automobilista-elettore, dal lassismo più bieco nell'osservanza delle regole: sicurezza, sosta e parcheggio, rumore, velocità, standard di produzione, gestione della rottamazione e del recupero, tutela dei centri storici e del paesaggio, ecc.
Dall'altro una politica sempre più improvvisata, raccogliticcia, priva di respiro, per far fronte alle emergenze che l'invadenza dell'auto sta accumulando a ritmi sempre più rapidi: targhe alterne, Ztl (Zone a Traffico Limitato) improvvisate e prive di controlli, blocchi del traffico e della distribuzione delle merci, regolamentazione del parcheggio senza programmazione, miliardi spesi per far posto, sottoterra, a poche centinaia di auto, quando quelle che bisognerebbe togliere dalla strada sono centinaia di migliaia. Non parliamo dei sottopassi e cavalcavia urbani che devastano interi quartieri nella speranza di sciogliere ingorghi che improvvisamente - se e quando l'opera viene conclusa - si riformano uguali a poche centinaia di metri di distanza. Qualcuno si è mai chiesto quanto possono essere affidabili amministrazioni che si imbarcano in politiche del genere? E quanto ha pesato l'impasse generata da questa crisi epocale dell'auto - l'incapacità di trovare una qualunque soluzione praticabile ai problemi del traffico - sulla credibilità di politici ridotti al ruolo del
Il grande vigile urbano
Questa "strategia" - una vera e propria non-scelta - ha impedito finora alla maggior parte di noi di vedere (come ne La lettera rubata di Poe) ciò che invece è macroscopicamente davanti ai nostri occhi: e cioè che da almeno dieci anni ha fatto il suo ingresso nel mondo una nuova tecnologia che rende il possesso dell'auto individuale obsoleto e superfluo, com'erano diventati obsoleti e superflui carri e carrozze mano a mano che progrediva la tecnologia del motore a scoppio e tutti gli sforzi per tenere in vita un sistema così antiquato sono condannati alla sconfitta, come lo era il sistema del traino animale. Questa tecnologia, inutile dirlo, perché in realtà lo sappiamo tutti, e l'interconnessione in rete wireless, senza fili.
Il tramonto dell'auto, soffocata dal suo stesso successo, e della mobilità privata, suggerisce nuove strade. Il trasporto pubblico flessibile, cioè a domanda. In modo da aggiungere ai treni e ai bus urbani car sharing, car pooling e taxibus, cioè un surplus di organizzazione e di "sistema". Ma le amministrazioni comunali dovrebbero crederci, e investirvi denaro e intelligenze.
L'elettronica è una risorsa di governo dei sistemi, e il sistema da governare non è il singolo veicolo, che l'industria automobilistica sta imbottendo sempre più di gadget per cercare di renderlo più sicuro, più attraente, più comodo; bensì l'insieme della mobilità. Ci troviamo ormai di fronte a fenomeni grotteschi, come gli studi - in cui vengono dilapidati miliardi di dollari - per introdurre nelle auto - e nelle autostrade - sistemi elettronici di guida automatica dei veicoli: per metterli tutti in fila, a velocità costante, lungo un tracciato predefinito, ciascuno con il suo bel motore che consuma energia e scarica inquinanti, esautorando completamente il ruolo dell'autista. Ma allora, non era meglio il treno? E' forse con ricerche di questo tipo che si vorrebbe salvare la Fiat? Ed è per fare questo tipo di ricerca che a Torino è stato aperto - il momento non poteva essere peggiore - un corso di laurea in ingegneria dell'automobile? Lo sviluppo della rete apre le porte, nel settore della mobilità di passeggeri e merci, come in molti altri campi, al trapasso dall'economia del possesso all'economia dell'accesso. La rete rende superfluo disporre di un'auto personale per andare dove si vuole, quando si vuole e con chi si vuole; e permette di disporre di un'auto - di qualsiasi tipo di auto: con o senza autista, da soli o in forma condivisa, e di qualsiasi tipo e modello, a seconda dell'uso che se ne vuol fare - o di un equivalente mezzo di trasporto, in qualsiasi momento e in qualsiasi punto di qualsiasi città occidentale, per tutto il tempo in cui la si usa, permettendo ad altri di fare altrettanto. Ma senza abbandonare un veicolo inutilizzato per una media di 22 ore al giorno a ingombrare la strada - rallentando gli spostamenti di chi effettivamente si muove - e a incidere pesantemente sui nostri bilanci personali, su quelli delle amministrazioni cittadine e dello stato, e sullo stato dell'ambiente.
Questi sistemi si chiamano - in gergo - Drts (Demand responsive Transport System, cioè trasporto a domanda), ovvero trasporto pubblico flessibile, taxibus, taxi collettivo, car sharing, car pooling (oltreché, beninteso, trasporto pubblico di massa su linee urbane di forza e sulle tratte interurbane, bicicletta e un più intenso uso dei piedi) e possono costare meno sia a noi che all'erario, sia a chi gestisce i sistemi di mobilità o le infrastrutture di trasporto che ha chi ne subisce impatti e conseguenze non sempre piacevoli. Qualsiasi risorsa destinata a potenziare questi sistemi è un investimento sul futuro. Qualsiasi risorsa gettata nel miglioramento qualitativo dei veicoli attuali o nella cosiddetta "fluidificazione del traffico" a parità di veicoli in circolazione è una dilapidazione irresponsabile di ricchezza.
Ma per imboccare una strada del genere bisogna crederci: cioè investire risorse e individuare i soggetti giusti. Questi ultimi non sono e non credo che possano essere rappresentati dall'industria automobilistica. Sostenere che la riconversione della Fiat passi attraverso il suo impegno nella promozione del trasporto urbano flessibile è un non-senso. Certamente il trasporto urbano ed extraurbano continuerà ad avere bisogno di veicoli - e quindi anche di automobili - adatti alle nuove funzioni. E questo richiede non solo officine meccaniche e catene di montaggio, ma anche laboratori di ricerca, uffici di progettazione, reparti di sperimentazione: cioè una parte di quel patrimonio di risorse umane di cui si paventa giustamente la dispersione.
Ma il compito di riorganizzare la mobilità urbana è di chi ha la responsabilità della gestione del territorio; e non può essere delegato. Un secolo fa, in presenza di sviluppi tecnologici che rendevano possibile raggiungere la totalità dei cittadini - e soprattutto le classi più povere - con servizi fino ad allora appannaggio dei ricchi, alcune municipalità si assunsero la responsabilità di produrre e fornire gas, luce, acqua, trasporti, rifiuti, comunicazioni, ecc. Ne nacquero diverse società municipalizzate che per quasi un secolo hanno caratterizzato il panorama industriale dell'Italia e che oggi vengono dimesse. Ma non dovrebbe venir dimesso il governo di queste funzioni, anche perché, dove i privati sono subentrati alle società pubbliche, non sempre i risultati sono stati brillanti.
Oggi, di fronte a sviluppi tecnologici che rendono possibile rivoluzionare i sistemi della mobilità urbana, azzerando la causa principale dell'impasse in cui è incappata la nostra vita quotidiana, occorre uno sforzo analogo per restituirne il governo ai rappresentanti della cittadinanza; ed anche per riassorbire, nella nuova filiera del trasporto pubblico al servizio di tutti, una parte almeno di quella manodopera che l'industria automobilistica sta liquidando.
E' sbagliato spingere i lavoratori ad aggrapparsi ad un relitto che affonda: la salvezza sta in un sistema di garanzie e nei progetti che guardano al futuro. Non è detto che lo sforzo delle amministrazioni locali debba assumere nuovamente la forma di una società municipalizzata: può essere un consorzio di soggetti pubblici e privati, in modo da realizzare al meglio quella sacrosanta distribuzione delle responsabilità che è il volto positivo del principio di sussidiarietà. Certamente non è facile per un'amministrazione locale cambiare il segno di un modo di agire che si radica nell'ostinazione senza sbocchi dei nostri comportamenti. Ma è importante trovare un accordo sulla direzione da imboccare.
Un sistema di mobilità flessibile impone soglie di ingresso al di sotto delle quali le funzionalità della rete sono precluse. Per questo vanno studiate attentamente ex-ante. Il car sharing non può essere organizzato, come ora, con 10 vetture: ce ne vogliono, solo per partire, 10.000 per ogni grande città, con la certezza, per di più, di un rientro degli investimenti solo a lungo termine. Per fare il taxi collettivo non si può partire con meno di 1000-2000 vetture - e occorre fare i conti, senza demonizzarli ma senza nascondere i problemi - con la forza contrattuale e soprattutto elettorale del mondo dei taxisti.
Per fare il taxibus, o altre forme di Drts, con cui sostituire il trasporto di massa nelle ore e sui tracciati in cui è maggiormente sottoutilizzato, occorre investire in mezzi adatti e soprattutto in campagne serie di comunicazione (da questo punto di vista Milano rappresenta forse l'esempio peggiore che si possa immaginare). Per ottimizzare la distribuzione delle merci - ai negozi e a domicilio - occorre mettere a disposizione dei piccoli trasportatori le risorse necessarie per "fare sistema" associandosi. E soprattutto, per fare tutto ciò, bisogna avere la forza politica di imporre e di far rispettare i divieti: ma solo una volta che si siano garantite alternative praticabili e convenienti.
Non è vero che oggi non ci sono risorse per intraprendere uno sforzo del genere. Se il denaro che oggi viene gettato nel pozzo senza fondo delle metropolitane - che non sono altro che un gigantesco pedaggio che la città paga per far sì che alcune linee di forza del trasporto urbano di massa non interferiscano con il traffico di superficie (cioè per permettere alle auto private di occupare gratis tutto il suolo pubblico) - o in quello dei sottopassi, dei sovrappassi, dei sistemi di semafori "intelligenti" e quant'altro la moderna ingegneria civile mette a disposizione della perpetuazione dello stato di cose presente, se quel denaro venisse utilizzato per finanziare in misura adeguata progetti di car pooling, car sharing, taxi collettivo, taxibus e linee tranviarie di superficie comode e veloci, in cinque anni il volto di una città italiana cambierebbe radicalmente.
E ai turisti convocati da tutto il mondo, per esempio per assistere a una manifestazione sportiva su cui si sono investiti miliardi destinati a lasciare le cose come prima, non si farebbe trovare una città intasata dal traffico e magari sconvolta da cantieri che non si è riusciti a chiudere in tempo, ma un sistema di mobilità veramente innovativo, in grado di promuovere in tutto il mondo i risultati raggiunti a livello locale dall'industria del trasporto urbano; e, al suo seguito, anche quel che resta dell'industria automobilistica locale.
Guido Viale
Guido Viale, nato a Tokyo nel 1943, e vive a Milano. Ha lavorato in diverse società di ricerca e progettazione in ambito economico, sociale e ambientale e svolge un’intensa attività …