Gianfranco Bettin: Hanno rubato un sogno

28 Novembre 2002
Era una casetta di famiglia, costruita con fatica, da un operaio del Petrolchimico di Marghera e dalla moglie, operaia anch'essa. Ci vivevano con il figlio venticinquenne, pure operaio, a Fiesso d'Artico sulla Riviera del Brenta. Agli occhi dei rapinatori sarà sembrata, chissà, la dimora di qualche benestante, ma non era altro che la casa di gente che duramente lavora e risparmia e tutto investe su di essa, affinchè sia il luogo dei propri sogni e dei propri progetti di vita. Solo per questo, per tale surplus di investimento umano, può apparire come qualcosa di molto più ricco di quanto non sia in realtà. Paolo Biasiolo, di 56 anni, ucciso in modo brutale da due rapinatori, forse stranieri (secondo i testimoni), per farsi quella casa non ha avuto altro aiuto che la moglie e il figlio.
Una comunità operaia, dunque, tipicissima di queste contrade, fabbrica e paesino, lavoro a Porto Marghera per il capofamiglia e nella rete produttiva diffusa per la moglie e per l'operaio di ultima generazione (il figlio). Chi li ha rapinati in casa, di notte, irrompendo nella loro quiete, pensava di trovare ben altro. Non è chiaro perché, prima di andarsene con poche centinaia di euro e qualche orologio e braccialetto e poco più, abbiano sparato su Paolo Biasiolo freddandolo sotto gli occhi dei congiunti. Forse è stato uno sbaglio, volevano spaventare e basta: così ha ipotizzato la stessa vedova. Forse è stato un delitto come quello narrato da Truman Capote in ‟A sangue freddo”, tanti anni fa, il delitto di balordi disperati e fuori di testa, resi spietati da storie troppo lunghe e troppo cattive per riassumerle in poche righe. «Noi non abbiamo casa o famiglia, non abbiamo niente», pare abbiano detto in un italiano stentato a chi gli diceva di non avere altro che quei pochi soldi o oggetti di valore in casa. Comunque sia, è una questione drammatica, che non potrà essere chiusa con parole di circostanza, in nessun senso.
Il ripetersi di assalti a casette, villette o villone, e perfino appartamenti in tutto il Nordest, sia ad opera di bande specializzate sia di sbandati o delinquenti occasionali, è infatti problema che sta segnando a fondo l'intera regione, modellando sotto il segno della paura e della rabbia l'immaginario comune e la comune sensibilità. L'efferatezza di questo delitto, la pietà suscitata dal dolore, e anche dalle parole dignitose della vedova e del figlio, l'assoluta normalità di condizione sociale di queste vittime, non potranno che acuire tali sentimenti.
Naturalmente, la propaganda della destra e della Lega va a nozze in questa situazione. Eppure, bisognerebbe saper mostrare come la logica del loro discorso prevalente sull'ordine pubblico e sulla sicurezza, e l'impianto delle loro tesi sull' immigrazione - l'allarme sconsiderato e generalizzato che lanciano di continuo - distolgano energie, risorse e attenzione, per dirottarle contro un nemico che non esiste (l'immigrazione), invece che concentrarle con efficacia contro il nemico reale (la criminalità vecchia e nuova). Che è di sicuro anche spregiudicata, che penetra fin nelle case e perciò viola il luogo qui considerato più sacro, con effetti inimmaginabili sulla coscienza e sui sentimenti.
Questa criminalità va affrontata in quanto tale, non come effetto dell'immigrazione, perché se le bande che commettono simili efferatezze sono anche composte di stranieri, non mancano delinquenti, professionali o sbandati, del tutto nostrani e altrettanto feroci. Chi spara nel mucchio, e insiste a senso unico nelle campagne xenofobe (l'ultima è quella vicentina, dove la destra al governo locale vuole perfino vietare agli immigrati l'accesso ai giardini pubblici!), non aiuta a proteggere le vittime potenziali dei delinquenti di ogni genere che questa regione attira o produce.

Gianfranco Bettin

Gianfranco Bettin è autore di diversi romanzi e saggi. Con Feltrinelli ha pubblicato, tra gli altri, Sarajevo, Maybe (1994), L’erede. Pietro Maso, una storia dal vero (1992; 2007), Nemmeno il destino (1997; 2004, da cui è …