Umberto Galimberti: E a scuola non si parla più italiano

15 Gennaio 2003
Salvo improbabili imprevisti, nei prossimi giorni verrà approvata la riforma della scuola elaborata dal Ministro dell´Istruzione (non più pubblica), secondo le direttrici a suo tempo indicate dal presidente del Consiglio nelle cosiddette tre "i": impresa, informatica, inglese.
Passi per l´inglese che, essendo diventato, per effetto dell´egemonia americana, la lingua del mondo, è bene che i nostri studenti la conoscano per potersi muovere con agilità nell´epoca della globalizzazione. Ma già qui si pone un problema. In Italia l´uso corretto dell´italiano è un patrimonio del solo 10 per cento della popolazione. Per il resto è in uso un linguaggio povero e disarticolato che mescola con noncuranza condizionali e congiuntivi, intervallati da mille "cioè", "insomma", "ehe" e altre espressioni sospensive, utilizzate per cercare le parole che non si trovano, perché a suo tempo non sono state imparate. Del resto se sono vere quelle statistiche che dicono che un ragazzo scolarizzato nel 1975 conosceva 1.500 parole mentre oggi ne conosce solo 650, ditemi voi se, prima dell´inglese, non sia necessario imparare l´italiano, la cui competenza è in espansione in Europa e in diminuzione in Italia.
Ognuno di noi poi sa che possiamo pensare in base al numero delle parole che possediamo. E se ne possediamo poche pensiamo poco. Ma forse questa non è la preoccupazione maggiore di chi ci governa. Quando mancano le parole si incaricano le parolacce a esprimere tutto quello che, per l´indisponibilità delle parole adatte, non riusciremmo altrimenti ad esprimere. E allora basta una parola come "cazzo" per dire, a secondo delle intonazioni: meraviglia, stupore, ira, disappunto, sconforto, sorpresa, approvazione, rifiuto, e via discorrendo. L´inglese quindi è necessario, ma dopo una buona acquisizione della lingua madre, indispensabile non solo per potersi esprimere con adeguatezza, ma lo ripeto, per poter pensare, non essendo concepibile un pensiero là dove la parola manca.
La seconda "i" è impresa. Non c´è dubbio che anche nella scuola possono essere introdotti alcuni elementi che caratterizzano l´impresa, come ad esempio criteri meritocratici per premiare gli operatori più impegnati. Ma la scuola non è e non può essere un´impresa, per il semplice fatto che essa non insegue il profitto. Questa è anche la ragione per cui non può essere costretta a operare in un mercato competitivo, soprattutto se si profila una competizione tra un soggetto pubblico vincolato da centinaia di regole che caratterizzano la nostra amministrazione e un soggetto privato che si nuove con la logica dell´impresa (e del profitto) sul mercato degli insegnanti e degli allievi.
Una simile competizione conduce inevitabilmente a concentrazioni omogenee per stratificazione sociale e per appartenenza culturale-ideologica dei frequentanti, cioè a una scuola di tendenza o a scuole-ghetto, a scuole buone per i ricchi e scadenti per i poveri. E questo non è un pregiudizio, ma quanto si evince dalle esperienze dei paesi, come gli Stati Uniti, l´Inghilterra e la Nuova Zelanda, che già da tempo hanno intrapreso questa strada e che ora si vedono costretti a importare insegnanti dall´estero, perché da loro nessuno vuol più andare a insegnare nelle scuole pubbliche.
Ma poi è davvero possibile aziendalizzare il sapere? E´ possibile codificarlo per decreto ministeriale senza neppure interpellare gli operatori di questo sapere che sono i maestri e i professori, oggi ridotti a impiegati della didattica creditizia, con tempi e mezzi economici ridottissimi per l´aggiornamento e la ricerca?
Un pessimismo abbastanza generalizzato va così diffondendosi per molte e diverse ragioni che finiscono per intrecciarsi intorno al nodo relativo al senso che viene ad assumere la scuola. La si vuole come un´impresa produttiva. Ma è chiaro che la scuola può esserne soltanto la messa in scena, senza mai poter diventare una vera impresa, perché in questo caso scomparirebbe come scuola.
La ragione è molto semplice. La scuola è tale se "produce" cultura e non se diventa un luogo in cui si "immette" una cultura, nella fattispecie la cultura dell´impresa. E´ vero che nessuno si spinge a immaginare tanto (anche se oggi chi ci governa ci prova), e allora si resta a metà strada: un po´ impresa e un po´ no. Impresa di formazione, dove la formazione non ha più in vista l´uomo (e chi lo conosce più) ma solo le sue competenze.
Ma quando l´uomo è considerato solo a partire dalle sue competenze, come vuole la logica dell´impresa, a soffrirne è la stessa cultura (che è poi lo specifico della scuola) a cui si riconosce solo un valore "strumentale", perché il soggetto è l´impresa e le risorse culturali hanno valore solo se funzionali all´impresa.
A questo punto la formazione della personalità, l´autovalorizzazione, il riconoscimento, senza il quale nei giovani non si costruisce alcuna solida identità, sono tutti valori spazzati via dalla riforma scolastica, perché sono valori che appartengono ad un´altra economia che non è l´economia dell´impresa, dove ciò che conta è solo l´accumulo dei crediti e il parziale contenimento dei debiti.
La terza "i", quella più comica, si chiama informatica. Una scienza che prevede l´esteriorizzazione del cervello (e delle sue capacità di memoria, di calcolo, di elaborazione e di sintesi) nella macchina, che nei paesi sviluppati sta diventando sempre di più un´appendice esterna del corpo umano. Il mito dell´informatica attraversa tutte le forze politiche senza che vi sia una seria analisi critica. E perciò, tra insegnanti frastornati e genitori entusiasti, si prevede di collocare un computer collegato a Internet in ogni classe, anche alle elementari.
A parte che gli studenti arrivano a scuola già capaci di maneggiare un computer da quando hanno imparato a giocare "da soli" davanti a uno schermo. Ma può davvero pensare un Ministro che abbia respirato un po´ l´aria di una scuola che il computer possa sostituire lo sforzo individuale, la socializzazione con i compagni, o una buona lezione di un insegnante?
L´accesso illimitato all´informazione non va a scapito del buon senso e della saggezza necessaria per interpretarla? Mancando di senso critico, a cui l´informatizzazione non prepara, gli studenti non rischiano di confondere la forma con il contenuto, la massa dei dati disponibili con i pensieri di qualità? Davvero cinquanta minuti di lezione di un buon insegnante possono venire liofilizzati in quindici minuti multimediali?
Compito della scuola non è quello di fornire dati e sempre più dati, né tanto meno quello di fornire risposte senza l´indicazione dei processi attraverso cui a quelle risposte si giunge. Compito della scuola è fornire metodi di ricerca e capacità di giudizio a partire dai quali i dati e le risposte sono facilmente ottenibili.
Ma per questo occorrono buoni insegnanti e alunni motivati. Tutto il resto: orari, numero degli alunni in classe, organizzazione sono elementi importanti, ma non decisivi. E siccome la motivazione degli studenti dipende della bravura degli insegnanti, si metta mano a rigorosi meccanismi di selezione dei docenti, valutando, anche periodicamente, oltre alla competenza disciplinare e didattica, anche l´attitudine a svolgere un lavoro così delicato. Certo, tutto questo comporta che si ridia agli insegnanti la consapevolezza della loro importanza, non facendoli sentire degli impiegati sottopagati, ma chiedendo loro molto, in cambio di altrettanto riconoscimento, non solo economico.
Questa è la vera riforma da operare: rigorosa selezione attitudinale dei professori e significativo riconoscimento economico e sociale. Le uniche due cose che sono attese da tutti, ma non previste dalla riforma Moratti. E allora continueremo a perdere per strada quel 30 per cento di studenti che ogni anno non riesce a raggiungere il diploma superiore e ad abbandonare alla casualità dei percorsi individuali la formazione degli altri 70 per cento di studenti. Il tutto in un orizzonte di degrado e di svalutazione della scuola pubblica che, non dobbiamo dimenticarlo, è stata finora un grande fattore di coesione sociale, dove hanno convissuto e si sono confrontati insegnanti, alunni, genitori cattolici e atei, democristiani e comunisti, ebrei e musulmani, ricchi e poveri, "normali" e handicappati, dove tutti si allenavano a quell´esercizio quotidiano che si chiama convivenza civile. Un valore che oggi potrebbe essere minato dalle proposte di regionalizzazione della scuola.
Mi diceva un Dirigente Didattico di un gruppo di scuole materne ed elementari di Modena e provincia, Franco Fondriest, che la parola "insegnare", che inizia per "i", deriva da "in-signare", "segnare dentro". Se la scuola, con il concorso di tutti, non saprà più far questo, allora anche le tre "i" diventeranno: ignoranza, intolleranza e impoverimento, ovviamente non solo della scuola, ma della società tutta, perché non si è mai visto un paese fiorire e svilupparsi nel degrado progressivo dell´istruzione e dell´educazione.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …

La cattura

La cattura

di Salvo Palazzolo, Maurizio de Lucia