Vera Verdiani: Il mestiere del traduttore

20 Gennaio 2003
Pochi mestieri al mondo sono divertenti e al tempo stesso frustranti come il tradurre. Vediamo gli aspetti gratificanti. Tradurre è un’attività letteraria creativa e rasserenante in quanto non ha l’incubo della pagina bianca; il grosso del lavoro l’ha fatto un altro e noi, come Adamo nel paradiso terrestre, dobbiamo solo dare un nome alle cose.
Tra cinque aggettivi, più o meno sinonimi, scegliamo quello che più ci piace e meglio si accorda al contesto; poi ci ripensiamo, lo cambiamo e lo ricambiamo fino ad ottenere l’effetto desiderato, e questo nella più completa impunità, visto che siamo un po’ i tecnici del suono e del colore del testo che abbiamo davanti. Trovare una soluzione brillante, un equivalente felice dell’opera originale infonde una straordinaria allegria, che altro non è se non il piacere stesso del creare; tanto che, sul punto di licenziare il libro, ci sembra quasi di esserne gli autori.
E con questo, temo che gli aspetti gratificanti del tradurre siano finiti (Si potrebbe aggiungere il fatto che si imparano moltissime cose delle quali altrimenti non ci saremmo interessati: quando uno ha tradotto un volume di quattrocento pagine sulla storia della Chiesa nella tarda antichità, impara tutto sull’Impero d’Oriente e d’Occidente e sui decreti imperiali in materia di concili; altrettanto dicasi per argomenti filosofici, economici e politici).

Vediamo adesso anche gli altri aspetti.
Al traduttore, oltre che una buona conoscenza della lingua straniera e della propria, si richiede molto intuito, moltissimo orecchio e una cultura generale abbastanza vasta: magari non specialistica, ma tale da indurlo a non fidarsi e a verificare con la sospettosità di un investigatore ogni minimo dubbio. (Voglio dire che se, per esempio, troviamo citata una teoria filosofica del "germoglio", e il vocabolario si ostina a dirci che quella parola significa proprio "germoglio", sarà meglio non fidarsi e fare qualche ricerca: scopriremo infatti che una teoria del genere esiste, solo che non si tratta di "germoglio", ma di "rizoma").
Verificare significa quasi sempre passare ore e ore in biblioteca, cercando un termine filosofico, il nome di una tribù africana o la citazione da un Padre della Chiesa; informarsi su cento particolari diversi: da una mossa di scacchi, alla sigla di un partito politico degli anni ’20; dai gradi di un esercito straniero, a un termine della lingua amarica (Anche qui parlo per conoscenza di causa: quando, traducendo Ebano di Ryszard Kapuściński, citai la parola shifta, che significa banditismo e, visto che il polacco non usa articoli e la parola finiva per "a", ci misi davanti un articolo femminile, mi arrivò una lettera severissima da parte di una signora che aveva vissuto lungamente in Etiopia e che mi consigliava di impratichirmi un po’ della cultura amarica, visto che shifta è una parola neutra indeclinabile e non può assolutamente accompagnarsi ad un articolo, meno che mai femminile).
Tradurre significa trascorrere centinaia di ore davanti al computer scrivendo e riscrivendo, leggendo e rileggendo e anche stampando e ristampando: un testo ci sembra limato e quasi perfetto ma, appena lo si stampa, saltano fuori soluzioni migliori, alle quali non avevamo pensato, e il lavoro di limatura ricomincia. A volte è un bene avere un termine di scadenza da rispettare, altrimenti si continuerebbe a correggere all’infinito. Non parliamo poi di quando, rileggendo libri da noi tradotti anni prima, vorremmo sprofondare sottoterra e rifarli da capo.
Tradurre è un lavoro solitario, totalizzante e ossessivo (leggere, per credere, il bellissimo racconto Simultanea di I. Bachmann). Ossessivo soprattutto quando non riusciamo a superare un ostacolo: per esempio dare leggibilità a un periodo ingarbugliato, per quanto ci affanniamo a trovarne il bandolo. Poi il bandolo spunta fuori da sé nei momenti più impensati: aspettando l’autobus, durante un risveglio notturno o magari in macchina, costringendoci a guidare con una mano, mentre con l’altra scarabocchiamo sul retro di una busta la struttura che risolve la frase incriminata.
Ma dominare la lingua straniera non basta: bisogna anche dominare la cultura e il mondo che stanno dietro all’autore, trasferendoli di peso nel nostro mondo e nella nostra cultura. Ho detto "di peso", ma in realtà non è affatto così. Il testo di partenza e quello d’arrivo non possono mai coincidere esattamente: per rendere più comprensibile un autore bisogna tradirlo, inventando degli equivalenti linguistici che alla fine risultano più efficaci ed espressivi che non la copia conforme dell’originale. Anzi la riuscita di una traduzione sta soprattutto nell’attraversamento di questo scarto tra le due lingue, adottando quello che Almansi ha definito l’estro della disparità. (Questo vale a tutti i livelli, però risulta evidente, e addirittura plateale, per quanto riguarda locuzioni e proverbi: se in polacco, per esprimere la fatica, si dice "sudare i sette sudori", è ovvio che in italiano sarà meglio parlare delle fatidiche "sette camicie").
Riguardando le mie traduzioni di alcuni anni fa, mi sono accorta che le più invecchiate erano proprio quelle in cui, per inesperienza o per timidezza nei confronti dell’autore, ne avevo troppo rispettato non dico lo stile, ma i difetti. Non tutti gli scrittori scrivono in modo perfetto: qualcuno usa un tono sciatto o troppo giornalistico; qualcun altro ti fa andare in apnea con periodi affastellati, in fondo ai quali si perde di vista il soggetto. Al primo si farà un favore rendendone un po’ più letterario lo stile; al secondo, aggiungendo virgole e punti e ripetendo i soggetti mancanti. Sia chiaro che non sto parlando di autori che "scrivono difficile": il "difficile" va lasciato "difficile" e lo stile di uno scrittore (quando è "stile") va rispettato. Sto semplicemente parlando di aumentare la chiarezza e la leggibilità di chi non scrive tanto bene.
A questo punto, e sto per concludere, dovrebbe essere chiaro che il problema del tradurre è in realtà quello dello scrivere, e che il traduttore non è meno scrittore dell’autore stesso. Tradurre significa riscrivere, restando però sempre in presa diretta con la mente, lo stile e il mondo di un’altra persona. Non credo che su questo possano sussistere dubbi.
Ma allora, si dirà, un lavoro del genere non ha prezzo! Il traduttore dovrebbe essere non solo ben pagato dagli editori, ma anche lodato, criticato o almeno citato nelle recensioni del libro. Invece non è così: non solo il traduttore non è ben pagato, non solo è poco citato, ma la sua sorte è quella di sparire, di considerare un trionfo il fatto che non ci si accorga di lui. Tradurre non dà né status, né prestigio: fa restare per tutta la vita una via di mezzo tra l’asceta disinteressato e la Cenerentola. Non per niente, in un articolo di molti anni fa, Fruttero e Lucentini hanno definito il traduttore "l’ultimo cavaliere errante della letteratura".