Ahmed Rashid: Gli altri fronti

24 Febbraio 2003
Per non scordarci dell’altro fronte, facciamo attenzione a quanto segue: da oltre due settimane i caccia B-1 e gli elicotteri americani combattono contro il gruppo più consistente di ribelli afgani riaffiorato finora nell’Afghanistan meridionale. La battaglia, cominciata il 27 gennaio, coinvolge circa quattrocento soldati Usa e del governo afgano, alla ricerca di quel che resta di un gruppo di ottanta ribelli. Finora ne hanno uccisi almeno diciotto.
Il problema non è la presenza dei ribelli, ma che abbiano ottenuto in Pakistan armi pesanti, sofisticati dispositivi di comunicazione per allestire una stazione radio clandestina, poster e opuscoli che annunciano una guerra santa contro le forze Usa e il governo del presidente Hamid Karzai, e scorte sufficienti a creare un campo base – e un ambulatorio medico – nelle montagne a sud di Spin Baldac, ad appena 25 chilometri dal confine pachistano. Il loro obiettivo era, chiaramente, bersagliare il campo dell’ottantaduesima divisione aviotrasportata vicino a Kandahar, circa duecento chilometri più a ovest.
Centinaia di altri estremisti si stanno mobilitando nel Waziristan, nella cintura tribale pachistana al confine con l’Afghanistan orientale, per un’offensiva primaverile studiata per coincidere con un attacco statunitense in Iraq. Provengono da una serie di gruppi: alcuni arabi di al Qaeda, ex taliban, afgani fedeli al comandante rinnegato Gulbuddin Hekmatyar, membri del Movimento islamico dell’Uzbekistan, gruppi estremisti pachistani. I campi delle forze speciali statunitensi lungo il confine afgano-pachistano sono bombardati quasi ogni giorno. Razzi e mine sono esplosi intorno al quartier generale dell’esercito Usa a Bagram, fuori Kabul. Nella capitale sono state lanciate granate contro guardie e veicoli del contingente di ottomila soldati americani e 4.800 effettivi della Forza di assistenza per la sicurezza internazionale (Isaf), che garantisce la sicurezza a Kabul.

Doppia strategia
Che succede? Il Pakistan è un amico o un nemico del terrorismo?
Il Pakistan è un alleato statunitense di primo piano nella lotta al terrorismo. Il presidente Pervez Musharraf ha consegnato alle agenzie di sicurezza americane più di quattrocento terroristi dell’organizzazione di Osama bin Laden, mentre la maggior parte dei leader di al Qaeda ora detenuti a Guantanamo sono stati arrestati in Pakistan negli ultimi quattordici mesi. Alla frontiera con l’Afghanistan sono dislocati circa sessantamila soldati e miliziani pachistani, con una decina di consiglieri delle forze speciali statunitensi, che devono fermare chi cerca di passare in Afghanistan.
Ma i diplomatici occidentali a Kabul, i leader afgani e i politici laici pachistani sono convinti che il Pakistan stia seguendo una duplice strategia.
In una conversazione avuta a gennaio a Kabul il presidente Karzai mi ha detto di non capire perché Musharraf permetta a questi estremisti di indebolire il suo governo e la cintura pashtun.
Alcuni elementi dei servizi segreti pachistani e i partiti religiosi del paese stanno permettendo ai taliban di raggrupparsi sul lato pachistano del confine. E il 90 per cento degli attacchi che subiscono arriverebbero da gruppi basati in Pakistan. Lo affermano alcuni diplomatici occidentali a Islamabad e Kabul, funzionari afgani e ufficiali dell’esercito Usa a Bagram.
Detto in parole povere la strategia del Pakistan sembra quella di continuare a dare la caccia ai membri non afgani di al Qaeda che si nascondono nel paese, in modo da tenere in piedi un certo livello di cooperazione con gli Stati Uniti, ma allo stesso tempo di permettere ai taliban di etnia pashtun e ad altri di restare in Pakistan.
Islamabad ha smentito le accuse e dice di essere ancora un’alleata di Washington contro il terrorismo. E la Casa Bianca non ha sollevato la questione apertamente temendo di destabilizzare il governo Musharraf e aprire un altro fronte in un paese musulmano dove l’antiamericanismo è già alto, proprio mentre gli Usa preparano una guerra in Iraq.
Il Pakistan è preoccupato per la crescente influenza di India e Russia su Kabul. New Delhi e Mosca stanno armando e finanziando gli eserciti di diversi signori della guerra non pashtun, e forniscono sostegno al ministro della difesa afgano, il tagico Mohammed Fahim, che controlla il più grande esercito etnico del paese ed è considerato un alleato da Washington.
L’interferenza in Afghanistan di tutti i suoi vicini è di nuovo in crescita, ma mentre India, Russia, le repubbliche dell’Asia centrale sostengono questo o quel signore della guerra o gruppo etnico, il Pakistan sembra appoggiare ancora gli estremisti. Islamabad vuole conservare un’influenza nella cintura pashtun nell’Afghanistan meridionale e orientale.
L’esercito pachistano non riesce a capire che il suo ruolo dovrebbe essere quello di moderare l’estremismo pashtun, in modo da rafforzare la posizione di Karzai che cerca di dare all’Afghanistan un governo multietnico. Il silenzio americano non fa che incoraggiare i partiti islamici pachistani – che oggi governano la provincia North West Frontier – a fornire più aiuti agli estremisti afgani e pachistani. L’esercito pachistano ha fatto volentieri il loro gioco, truccando le elezioni dello scorso ottobre in modo che i partiti islamici avessero un successo senza precedenti, facendo uscire di prigione i leader di gruppi terroristici messi al bando e incoraggiandoli a organizzare manifestazioni filoirachene.
Tutto rientra in un gioco di potere più ampio, in cui il generale Musharraf può dire agli americani di avere bisogno di un maggiore sostegno statunitense perché è minacciato dai fondamentalisti. È un gioco portato avanti da ogni regime pachistano con Washington, e dal 1980 a oggi ha sempre funzionato. Il silenzio occidentale su queste ultime pagliacciate dell’esercito è demoralizzante per le forze progressiste e i partiti democratici laici del Pakistan, per non parlare degli sventurati afgani, che vogliono stabilità e sviluppo economico.

Ahmed Rashid

Ahmed Rashid (1948) è stato corrispondente per la “Far Eastern Economic Review”, attualmente scrive per “Daily Telegraph”, “International Herald Tribune”, “The New York Review of Books”, “Bbc Online”, “The Nation”. …