Massimo Dini: Scultura. Gli amanti giapponesi di Michelangelo

12 Marzo 2003
D’inverno, quand’era ragazzino, Bibai, la sua città natale, nell’isola di Hokkaido, all’estremo nord del Giappone, perdeva l’esuberanza cromatica. Diventava bianca e nera. Colpa della polvere delle miniere di carbone (ora chiuse) scavate nelle montagne circostanti. Le facciate delle case erano fuligginose, il fiume color pece. Ma lui, Kan Yasuda, era affascinato dal candore della neve che per quattro mesi all’anno copre la città. "Forse è stata quell’immagine di purezza a farmi innamorare del marmo", ricorda. "Fissavo la neve. Era bella. Non c’era alcun significato in quella distesa uniforme, però si rifletteva sul pensiero. E’ lo stesso effetto che cerco di ottenere con le mie opere. Quando guardo dentro una mia scultura, rivedo quel paesaggio fantastico. E mi piacerebbe che, osservando le mie forme morbide, tranquille, la gente immaginasse. Vorrei stimolare un pensiero, un sentimento".
Considerato uno dei più grandi scultori contemporanei, Yasuda, 57 anni, si aggira sereno nel laboratorio di Giorgio Angeli a Pietrasanta, dove plasma i suoi blocchi e dove, nell’adiacente oliveto, scintilla al sole un campionario delle sue opere. Laureato all’Università di Tokyo, approdò 33 anni fa nel nostro Paese grazie a una borsa di studio del governo italiano e frequentò l’Accademia d’arte di Roma sotto la guida di Pericle Fazzini. Terminati gli studi, si ritirò a Pietrasanta e iniziò la sua ascesa. Un caso sorprendente ma non eccezionale, visti i tanti maestri stranieri, Henry Moore su tutti, che si sono ritirati in questo paesino della Toscana divenuto una delle capitali mondiali della scultura. Sorprendente è semmai il fatto che Yasuda non sia l’unico scultore del Sol Levante ad aver subito il richiamo delle guglie immacolate delle Alpi Apuane.
La comunità giapponese che vive e lavora tra Carrara e Pietrasanta è composta di una ventina di artisti, molti dei quali con un prestigioso curriculum alle spalle: Yoshin Ogata, Mariko Isozaki, Kenji Takahashi, Satoshi Izumi e la riservata Maki Nakamura. Comunità, comunque, è un termine impreciso. Ogni artista ha seguito un proprio itinerario per raggiungere la terra lontana del marmo. Ogata ha affrontato avventure picaresche. Nato in un paesino del sud presso Kagoshima, tra le montagne e il Pacifico, un tempo regno dei samurai, fu bocciato all’esame di ammissione all’Università di Tokyo. "Dovevamo studiare sulle copie in gesso della scultura greco-romana e io non provavo alcuna emozione", racconta in un italiano fluente. "Chiesi allora a mio padre i soldi per andare a visitare i musei europei. Rifiutò. Così, per un anno, mi ritrovai a fare il pescatore. Navigavamo per mesi nel Pacifico e nell’Oceano Indiano, pescando tonno e pesce spada. In questo modo raggranellai la cifra per partire. Scelsi la via più economica, passando per la Siberia. Nave, treno, aereo. E finalmente arrivai a Londra. Da lì il caso mi portò in Italia". Nakamura fu più fortunata. Figlia di un diplomatico che si trasferì in Italia quando lei aveva sette anni, frequentò le elementari a Roma. Allora non immaginava che, dopo un lungo periplo, sarebbe approdata a Pietrasanta, il suo "libro di fiabe".
Ciascuno insegue un proprio ideale estetico e vive a suo modo il rapporto con la patria d’adozione. C’è chi si è lasciato permeare dalla cultura occidentale e chi resta ancorato alla filosofia zen. Yasuda abita nell’entroterra versiliese. Vista da fuori, la casa è una vecchia cascina in pietra, ombreggiata da olivi e cipressi, che egli stesso ha restaurato in stile locale (e che i turisti giapponesi si fermano a fotografare); l’interno, invece, è uno spazio suddiviso da delicati tramezzi secondo i canoni dell’antica dimora orientale, dove si entra togliendosi le scarpe. Ogata, 54 anni, sposato con un’italiana, vive in una bella villa con parco che non ha nulla dello stile giapponese. In compenso, attraverso le vetrate dello studio si gode una veduta spettacolare del mare e del crinale alpino.
Non esiste, insomma, una scuola del Sol Levante in Versilia. E tuttavia esistono tratti che accomunano questa colonia di artisti. Tutti conoscono la mappa del vasto e melmoso labirinto delle gallerie che si incuneano sotto le cave a cielo aperto. Sanno distinguere il marmo statuario, purissimo e quasi esaurito, da quello ordinario. Ma sanno anche che bisogna aspettare la pioggia per giudicare la qualità: certe superfici, apparentemente perfette, color bianco crema, quasi eteree, una volta asciugate, possono rivelare macchie o incrinature. Poi c’è la collaborazione con gli artigiani. Spiega Yasuda: "Da Marino Marini a Moore, i grandi scultori sono venuti qui anche per l’abilità e la passione dei tagliapietra che devono sgrossare la massa. La loro virtù manuale è insuperata. E anche se oggi dispongono di strumenti come il martello pneumatico e il filo diamantato, sentono ancora con orgoglio di essere i discendenti dell’era di Michelangelo".
Michelangelo: ecco il nome mitico che li ha spinti al grand tour. E benché la loro opera sia lontana dal figurativo, non c’è scultore del Lontano Oriente che non si senta in debito col genio toscano. Racconta Yasuda: "In Giappone potevo vedere le opere di Michelangelo solo sui libri di storia dell’arte. Non mi bastava. Era come guardare un film. Perciò, appena arrivato a Roma, corsi a vedere la Pietà del Vaticano. Un’emozione incredibile. Finalmente mi trovavo di fronte a una sua scultura: vera". Ma l’opera che lo impressionò di più fu la Pietà Rondanini del Castello Sforzesco, a Milano: "Tutti pensano che la forma sia l’elemento fondamentale in un’opera d’arte. La Pietà Rondanini rovescia il concetto. Dal punto di vista formale è l’opera più brutta di Michelangelo. Ma quando l’ho vista ho capito che c’è qualcosa di più importante della bellezza formale. L’artista era riuscito a trasfondere nella materia la sua spiritualità". Anche Ogata subì la fascinazione della Pietà Rondanini. Lui che amava il rigore architettonico di Michelangelo, si lasciò incantare dalla sua opera "meno costruttiva".
Basta passeggiare nel quieto giardino del Laboratorio Angeli, dove respirano le opere di Yasuda, o visitare il luminoso atelier di Ogata per capire quanto la lezione di Michelangelo abbia influito su entrambi e con quale originalità l’abbiamo interpretata. Benché pesino fino a 30-40 tonnellate, le sculture di Yasuda, come dice il suo amico Renzo Piano, sembrano fatte di sostanza trasparente e vibrante. Ed è proprio questo l’effetto che l’artista persegue. La materia è pesante ma, giocando con la luce, la si percepisce come fosse leggera. E infatti, dovunque le sue opere vengano esposte, a Milano, Sidney o nel verde dello Yorkshire, viene voglia di toccarle, accarezzarle. "Scolpendo, non penso alla bellezza", afferma Yasuda. "Cerco di far sì che tra il marmo e il pubblico si crei un rapporto spirituale. I bambini, che si arrampicano e si sdraiano su quelle superfici gentili, lo sentono: il marmo ha qualcosa di magico. E’ vivo".
Nello studio di Ogata le opere sono stipate come nella vetrina di un raffinato antiquario. A ogni scultura è sospesa una goccia, immobilizzata un attimo prima della caduta. Pur attratto dalla simmetria, sa che per mutare in arte una struttura geometrica occorre spezzare l’equilibrio. E quella goccia, effimera, in equilibrio delicato, è l’elemento che dà fluidità allo schema costruttivo. E’ la goccia dei tramonti rosso fuoco, ammirati dal peschereccio, quando un sole immenso trasformava l’oceano in uno specchio di particelle mobili. Ma è anche la goccia che, secondo uno dei miti della sua regione, scivola dal bastone del Creatore mentre rimescola il brodo primordiale e feconda la Terra.
La graziosa Rieko Mori, 27 anni, ascolta i maestri con reverenza. E’ l’ultima sognatrice arrivata dal Sol Levante. E’ stato suo padre, Hideharu, professore di Storia dell’arte all’Università di Fukuoka e scultore, a incoraggiarla. Trent’anni fa, ha studiato in Italia, all’Accademia di Brera, e ha esplorato le cave delle Apuane. Rieko è timida ma risoluta. Scolpisce in un bugigattolo pieno di spifferi, con un tetto di lamiera. D’inverno, lavora al freddo per sei ore al giorno, il viso coperto da una mascherina per non respirare la polvere di marmo quando usa il compressore. Anche lei ha il culto di Michelangelo. Ma se le si chiede perché, esita a lungo prima di rispondere. Non riesce a trattenere l’emozione. Poi, finalmente, il volto si schiude in un sorriso. "E’…bravissimo!", esclama.

Massimo Dini

Massimo Dini è nato a Firenze nel 1946. Inviato speciale e scrittore, ha collaborato per “Il Sole 24 Ore”, “Panorama”, e “L’Europeo” con reportage da varie parti del mondo. Con …