Alfonso M. Iacono: Luciano Della Mea, un intellettuale dalla parte dei senzastoria

31 Marzo 2003
Mi è sempre piaciuta quella sua abitudine di mettersi sempre un po' di lato nelle riunioni o nelle assemblee. Non lo coglievi quasi mai a far da primo relatore, lo trovavi sempre a intervenire di rimando. Mettersi sempre un po' di lato era il suo modo di porsi al centro dell'attenzione in una maniera non invasiva né eccessiva. Luciano ha sempre creduto alle forme di partecipazione diretta, ai movimenti, alle assemblee e vi ha creduto in termini libertari ed egualitari, mai in modo ingenuo e ancor meno illusorio. Quando lo conobbi, nel `68 (per me all'inizio era soprattutto un uomo dei mitici "Quaderni rossi"), la sua casa era aperta a tutti, anche, e forse soprattutto, a chi, nonostante le apparenze, si sentiva intimidito e perso in un mondo, quello del movimento, dove circolavano persone molto sicure di sé, capaci di parlare con grande facilità in pubblico, a volte sprezzanti verso chi si portava appresso l'incertezza sociale e culturale, cioè verso chi non aveva alle spalle una famiglia di tradizioni antifasciste e/o comuniste oppure una socialmente e culturalmente solida. Con Luciano e con Livia per me era diverso. Le poche volte che entrai in quella casa la trovai sempre piena di gente e sempre piena di libri mi dava la sensazione di essere "dentro". Dentro i rapporti umani, dentro un intreccio attraente tra cultura e politica, dentro una militanza meravigliosamente caotica, non gerarchica, carica di spontaneità. C'erano Valeria e Michele, i figli di Luciano e di Livia. Mi piaceva quella famiglia che mescolava le cose con una grande vitalità. Mi rendo conto in realtà soltanto ora di quella sensazione, che forse era un inconfessato e assai ben nascosto desiderio di aria familiare. Ma mi sono chiesto anche cosa abbiano patito tutti loro, Luciano stesso, sua moglie Livia, morta troppo presto, Valeria e Michele, che allora erano bambini. Non era facile tenere la casa aperta alla politica e ai suoi militanti. Poi venne il tempo dei gruppi. Per un uomo come Luciano non dovette essere un periodo felice. Movimentista com'era, si mostrava del tutto insofferente verso ogni tipo di cristallizzazione. Fu tra i primi a prendere consapevolezza del fatto che ci si avviava verso un inarrestabile decadere. Ma del resto, già ai tempi della sua collaborazione alla rivista socialista "Mondo Nuovo", agli inizi degli anni `60, Luciano era ostile alle metafore militari delle avanguardie politiche e all'idea stessa di avanguardia che presupponeva una presenza "esterna" rispetto ai movimenti.
Ricordando quel periodo, egli ha scritto: "preferivo, mi era più connaturato, recarmi di persona nel sociale, a toccar con mano, per sentire oltre che parlare, in uno scambio nel quale l'osservatore, come poi fu detto, è a sua volta nell'osservazione e nell'osservato, con una dialettica di rapporto che è valida in tutti i rapporti umani, e soprattutto fra chi sa di più e chi sa di meno, in termini `accademici' o di diseguaglianza nell'istruzione, tanto più quando la sapienza è distaccata dalla vita, istituzionalizzata, o è prevaricazione di istinti, sentimenti, passioni, supponenze".
Quel disagio che Luciano provava verso una modalità della politica divenne una sua costante di vita. Amava le iniziative editoriali che vivono grazie al volontariato, e per questo era fortemente legato alla rivista "Il Grandevetro" di cui fu anche direttore dall'85 all'86. E' stato uomo dai diversi mestieri, poi giornalista, redattore, direttore di giornali e riviste della sinistra, e autore di libri di narrativa, di poesie e di teatro, nonché di politica: come Il fossile ignoto ( Bertani, Verona); I senzastoria ( Bertani); Eppur si muove, Jaka Book; Una vita schedata ( Jaka Book); La notte è dolce ( Circolo del Pestival, Santa Croce, Pisa). Luciano preferiva praticare forme di democrazia legate al territorio, tese alla ricerca di rapporti egualitari. Questa è fondamentalmente la ragione di molte sue scelte, in generale della sua preferenza verso realtà locali - pur non sottovalutando (ma neanche sopravvalutando) il livello nazionale - dove il coinvolgimento nei rapporti umani e politici insieme gli permetteva di stare nello stesso tempo "dentro" e "fuori" - l'osservatore dentro il contesto di osservazione appunto che tuttavia non perde il suo ruolo che è giusto quello di osservare come dall'esterno.
In un certo senso, questa costante di vita (come egli la chiama) ricorda molto le "pratiche di libertà" dell'ultimo Michel Foucault. Nell'epoca dei movimenti di liberazione che si sono fatti stato diventa necessario attivare le "pratiche di libertà", proprio perché ogni movimento di liberazione che fa mostra di sé come di un qualcosa che raggiunge un compimento, può tendere a restringere quelle libertà che ha creduto di realizzare.
Da qui, per Luciano, lo stretto rapporto che deve istituirsi tra libertà, eguaglianza e diversità. Da qui il non farsi illusioni. Come ebbe a scrivere Primo Levi il privilegio si annida in tutte le società ed è compito degli uomini giusti combatterlo in una lotta senza fine. Forse è questo il punto. La lotta per l'eguaglianza non ha probabilmente fine, ma questa disillusione rispetto alla possibilità di un compimento non implica un allentamento della lotta stessa. Luciano era alla ricerca di pratiche locali e sociali di libertà e di eguaglianza, perché sapeva che una ricerca di questo genere su scala più vasta, ancorché si debba farla, non possiede un punto d'arresto, non ha un compimento finale.
Luciano, che era nato a Lucca nel 1924, aveva fatto la guerra in Montenegro e poi era diventato partigiano nella VI Divisione Alpina Canavesiana "Giustizia e Libertà". A partire dall'esperienza militare egli era diventato insofferente nei confronti di tutto ciò che direttamente o metaforicamente avesse a che fare con eserciti e guerre. E in tempi come questi, colpiti fortemente dai venti di una guerra inutile e assurda, penso sia giusto ricordare quanto egli aveva scritto non molti anni fa.
"Non ha alcun senso né etico né pratico né politico invocare la pace senza chiedere il disarmo totale, cioè l'abolizione della produzione ufficiale e clandestina e del commercio/contrabbando di armi, di tutte le armi, il che significa che finirebbe anche il progetto di rivoluzione armata solo apparentemente antisistemico. È infatti vero che se io uso le armi che usa l'avversario io somiglio e mi apparento in ogni senso all'avversario stesso e conseguentemente eserciterò un potere nella sostanza non diverso".
Non era possibile dipanare, in Luciano, quell'intricato e contraddittorio groviglio fatto di passione politica, inquietudine intellettuale, bisogno di amare e di essere amato, ma forse è soprattutto per questo che ci mancherà.
I funerali di Luciano Della Mea si terranno oggi, alle 15.30, al cimitero di Torre Alta, Ponte del Giglio, (Lucca).

Alfonso Maurizio Iacono

Alfonso Maurizio P { margin-bottom: 0.21cm; } Iacono (1949) è un filosofo italiano. Ordinario di Storia della filosofia all’Università di Pisa, nell’anno accademico 2002-2003 è stato Visiting Professor all’Université de …