Umberto Galimberti: Scrive un carabiniere

05 Giugno 2003
Scrive un carabiniere: Osserva Freud in Psicologia delle masse e analisi dell'Io: "Nella massa vengono meno la coscienza morale dell'individuo e il suo senso di responsabilità, l'una e l'altro sopraffatti dall'angoscia sociale". Risponde Galimberti.

Terribile è la guerra, lo sentivo dire a mio nonno, lo notavo dalle lacrime che bagnavano le sue guance quando me ne parlava. È la privazione dei diritti dell'uomo, a nessuno piace, è troppo cara se si parla anche in termini economici. Ho visto gente manifestare, anche per la pace, con il volto coperto da passamontagna, li ho visti muniti di armi improprie devastare tutto e lamentarsi perché veniva loro sottratta la libertà. Ma soprattutto li ho sentiti mentre mi urlavano "bastardo!", li ho sentiti quando mi scagliavano pietre contro, ho sentito i testi dei loro cori i quali dicevano che "il signore mi aveva dato un mestiere di merda!", li ho sentiti quando insultavano mia madre. Emozioni percepibili non solo al tatto: colpivano al cuore. Ma io ero lì, a difendere un loro diritto, quello di manifestare. Ero lì per loro, non contro di loro. Sarei potuto rimanere chissà dove, invece ero lì per loro e ad essere offeso da loro. Le stesse facce le ho riviste, col volto scoperto, disarmati, impauriti. Sono venuti da me, mi hanno telefonato, hanno chiesto aiuto, un consiglio. Ed io ero sempre lì, allo stesso identico modo. Pronto a difendere ciò che era loro, disposto a tendere sempre la mano. Non sono mai sceso in piazza a manifestare, rispetto chi lo fa; "Tratta il prossimo tuo come te stesso", è questo il mio motto, è così che io manifesterò per la pace. Darò tutto me stesso per gli altri, sarò gentile con loro e poco importa se il mio messaggio non sarà percepito, sarà ripagato il mio onore. Ho poco più di vent'anni e una vita da vivere. Allo stesso tempo il mio pensiero va ai soldati che in questo momento si trovano sul fronte, a qualunque esercito essi appartengano. Animati forse dall'amor di patria, costretti forse per ripiego, ma pur sempre lì. Nonostante tutto fedeli al loro giuramento, persone coerenti che hanno preso un impegno e sono pronti a mantenerlo. Lontano dalle loro famiglie, dai figli, da tutto ciò che gli sia più caro, dentro scomode e pesanti divise, antiche quanto quel senso di belligeranza che è dentro ognuno di noi.
Un Carabiniere

Anche se la guerra è finita (almeno così dicono) pubblico con vero piacere la sua lettera per far conoscere ai manifestanti che tra i rappresentanti delle Forze dell'Ordine ci sono persone come lei che aborrono la violenza, e quindi la guerra che ne è la massima espressione. E, proprio perché la aborrono, svolgono la funzione di contenerla quando questa si scatena nelle piazze per dar corpo alla rabbia, che alle idee non dà alcun sostegno, ma che si scatena comunque quando il senso di impotenza si impadronisce dei cuori e delle menti. Detto per inciso, non bisognerebbe dare a nessuno la sensazione dell'impotenza, la sensazione di non poter modificare le cose, perché, in queste condizioni, la violenza finisce con l'essere l'esito più probabile. Quando lei non era ancora nato un grande intellettuale di sinistra, Pier Paolo Pasolini, era intervenuto con vera passione a difesa dei poliziotti insultati e malmenati dai dimostranti della stagione del '68, a cui faceva notare che le ragioni per cui costoro facevano i poliziotti (fondamentalmente la povertà e il bisogno di trovare un'occupazione) li collocava dalla parte dei "socialmente deboli", a favore dei quali i dimostranti del '68 promuovevano le loro manifestazioni. Anzi, siccome i promotori delle manifestazioni erano spesso di origine borghese, Pasolini faceva notare come questi anteponessero il radicalismo delle loro idee alle condizioni delle persone e alla realtà delle cose. Queste considerazioni, allora, fecero molto riflettere, anche se non ridussero gli scontri di piazza che non cessarono di essere violenti per l'intrinseca contraddizione che ogni piazza, e, allargando il discorso, ogni campo di battaglia fa esplodere. Infatti, a fronteggiarsi, da una parte e dall'altra, sono uomini che, singolarmente presi, non hanno alcuna ragione per detestarsi e farsi del male, ma questi uomini che si fronteggiano sono anche rappresentanti di poteri: il "potere che può" di cui le forze dell'ordine sono i rappresentanti sul campo, e il "potere che non può" che è quello di chi vuol cambiare le cose e non ha altro strumento che quello di sospendere la sua attività quotidiana e raccogliersi in piazza. A questo punto il potere che può ha la possibilità di ascoltare la piazza e modificare, almeno in parte, le proprie decisioni, oppure può vanificare queste manifestazioni, o addirittura considerarle, come ha fatto il nostro Presidente del Consiglio, come "gite" o "scampagnate". Questa vanificazione o derisione delle piazze alimenta in chi le promuove quel senso di frustrazione e di impotenza che, come prima dicevamo, è la prima condizione che, nei più facinorosi, genera violenza. Quanto all'onore dei belligeranti, e qui ci spostiamo sui campi di battaglia, io qui più che di "onore" parlerei di "disperazione". Disperazione dei soldati iracheni che non credo avessero la possibilità di ammutinarsi, e disperazione dei soldati anglo-americani che per povertà si sono arruolati nell'esercito, visto che tra le loro file sembra non ci fosse nessuno proveniente dai college o dalle prestigiose università americane. La guerra è sempre guerra tra poveri, perché i ricchi che la promuovono, il più delle volte, se ne stanno in disparte, pronti solo a raccoglierne i frutti.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …