Jürgen Habermas: L´Europa alla ricerca dell´identità perduta
Durante i mesi di piombo precedenti lo scoppio della guerra in Iraq una divisione del lavoro moralmente oscena aveva scosso le coscienze. La grande operazione logistica dell´inarrestabile spiegamento di forze militari e la febbrile operosità delle organizzazioni di soccorso umanitario si innestarono l´una nell´altra come ruote dentate. Lo spettacolo si svolse senza interruzioni anche sotto gli occhi della popolazione irachena, che - privata di qualsiasi possibilità di iniziativa - ne sarebbe stata la vittima. Senza dubbio, la forza dei sentimenti ha rimesso in piedi i cittadini europei. Nello stesso tempo, però, la guerra ha reso gli europei consapevoli del fallimento, profilatosi da lungo tempo, della loro politica estera comune. Come in tutto il mondo, la disinvolta violazione del diritto internazionale ha acceso anche da noi in Europa una polemica sul futuro dell´ordine internazionale. Ma gli argomenti contrapposti ci hanno coinvolto più profondamente.
In occasione di questa polemica le ben note linee di frattura si sono solo fatte più evidenti. Le prese di posizione controverse sul ruolo della superpotenza, sul futuro ordine mondiale, sulla rilevanza del diritto internazionale e dell´Onu hanno fatto sì che i contrasti latenti si manifestassero apertamente. La spaccatura tra paesi continentali e paesi anglosassoni da un lato e, dall´altro, tra la «vecchia Europa» e i candidati dell´Europa centro-orientale all´ingresso nell´Unione, si è approfondita.
In Gran Bretagna la special relationship con gli Stati Uniti non è affatto esente da contestazioni, ma continua a stare al primo posto nell´ordine delle priorità di Downing Street. E i paesi dell´Europa centro-orientale aspirano, certo, a entrare nell´Unione europea, ma non per questo sono senz´altro disposti a vedere limitata la propria sovranità, da così poco tempo riconquistata. La crisi dell´Iraq è stata soltanto il catalizzatore. Anche nella Convenzione per la costituzione europea di Bruxelles si manifesta il contrasto tra le nazioni che vogliono davvero un rafforzamento dell´Unione europea e quelle che hanno un interesse comprensibile a congelare lo status quo dell´attuale gestione intergovernativa dell´Unione o al massimo a modificarla con interventi di pura cosmesi istituzionale. Ora il contrasto non può più essere ignorato.
La futura costituzione ci darà un ministro degli Esteri europeo. Ma a che serve una nuova carica, se i governi non si uniscono in una politica comune? Anche un Fischer con una qualifica diversa resterebbe impotente come Solana. Per il momento solo gli stati membri appartenenti al «nocciolo duro» sono disposti ad attribuire all´Unione europea certi caratteri statali. Che fare, se solo questi paesi riescono a trovare un´unità sulla definizione dei «propri interessi»? Se l´Europa non vuole andare in frantumi, questi paesi devono ora far uso del meccanismo, messo a punto a Nizza, della «collaborazione rafforzata», per dare inizio a una comune politica estera, della sicurezza e della difesa in "un´Europa a diverse velocità». Ne deriverà un effetto vortice al quale non potranno sottrarsi gli altri paesi membri - a cominciare da quelli della zona euro. Nel quadro della futura costituzione europea non può e non deve esserci nessun separatismo. Andare avanti non significa escludere. L´Europa avanguardistica del «nocciolo duro» non può rattrappirsi in una piccola Europa; deve piuttosto - come è spesso accaduto - fare da locomotiva. Gli stati membri dell´Unione europea che cooperano più strettamente apriranno le porte già per il proprio interesse. Attraverso queste porte i paesi invitati entreranno tanto più facilmente, quanto prima il «nocciolo duro» dell´Europa sarà capace di agire anche verso l´esterno e dimostrerà che in una società mondiale complessa non contano soltanto le armate, ma anche il potere soffice dei negoziati, delle relazioni e dei vantaggi economici.
In questo mondo non vale la pena di semplificare la politica fino a ridurla all´alternativa tanto stupida quanto costosa di guerra e pace. L´Europa deve far sentire il suo peso sul piano internazionale e nel quadro dell´Onu, per bilanciare l´unilateralismo egemonico degli Stati Uniti. Ai vertici dell´economia mondiale e nelle istituzioni dell´Organizzazione per il commercio mondiale, della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale dovrebbe far sentire la sua influenza contribuendo a tracciare le linee di una futura politica interna mondiale.
Tuttavia, la politica di un ulteriore ampliamento dell´Unione europea trova oggi i suoi limiti negli strumenti della gestione amministrativa. Finora le riforme hanno tratto impulso dagli imperativi funzionali della creazione di un´area economica e monetaria comune. Queste forze motrici si sono esaurite. Una politica progettuale, che non esiga dagli stati membri soltanto la rimozione degli ostacoli alla concorrenza, ma anche una volontà comune, è attenta alle idee e al modo di sentire dei cittadini stessi. Le deliberazioni a maggioranza circa le scelte e gli orientamenti più impegnativi in politica estera possono essere accettate solo se le minoranze perdenti sono solidali. Questo però implica un sentimento di appartenenza politica. Le popolazioni devono in certo modo «accrescere» le loro identità nazionali, estendendole a una dimensione europea. La solidarietà ancor oggi piuttosto astratta tra cittadini di uno stato, che si limita agli appartenenti alla propria nazione, in futuro dovrà allargarsi ai cittadini europei di altre nazioni.
Tutto questo solleva la questione dell´»identità europea». Solo la consapevolezza di un destino politico comune e la convincente prospettiva di un futuro comune può far sì che la volontà della maggioranza non tolga la voce alle minoranze sconfitte. In linea di principio i cittadini di una nazione devono considerare la cittadina di un´altra nazione come «una di noi». Questo auspicio porta alla questione sulla quale si sono levate tante voci scettiche: ci sono esperienze storiche, tradizioni e conquiste che fondano per i cittadini europei la coscienza di un destino politico che li ha accomunati e al quale essi devono dar forma in comune? Una «visione» attraente o addirittura contagiosa di un´Europa futura non cade dal cielo. Oggi può nascere soltanto da un´inquietante sensazione di disorientamento. Ma può anche essere l´esito dell´imbarazzo prodotto da una situazione nella quale noi europei siamo rimandati a noi stessi. E deve articolarsi nella cacofonia selvaggia di un´opinione pubblica a molte voci. Se finora questo tema non è mai stato all´ordine del giorno, noi intellettuali abbiamo fallito.
Insidie di un´identità europea
È facile unirsi su ciò che non è vincolante. E tutti hanno davanti agli occhi
l´immagine di un´Europa pacifica, cooperativa, aperta ad altre culture e
capace di dialogare. Noi salutiamo l´Europa che nella seconda metà del
ventesimo secolo ha trovato soluzioni esemplari per due problemi. In primo
luogo, l´Unione europea oggi si propone come una forma di «governo al di là
dello stato nazionale», che potrebbe fare scuola nella costellazione
postnazionale. In secondo luogo, anche i modelli europei di stato sociale sono
stati per lungo tempo esempi da imitare. Sul piano dello stato nazionale, oggi
sono sulla difensiva. Ma una futura politica di addomesticamento del capitalismo
in spazi senza confini non può ricadere dietro i criteri di giustizia sociale
che essi hanno fissato. Perché l´Europa, che è stata capace di venire a capo
di due problemi di queste proporzioni, non dovrebbe affrontare anche la sfida
ulteriore di difendere e portare avanti un ordine cosmopolitico sulla base del
diritto internazionale, contro progetti concorrenti?
Un discorso ordito su scala europea dovrebbe però incontrarsi con orientamenti
già esistenti, che in certo modo attendono di essere stimolati da un processo
di autocomprensione. Due dati di fatto sembrano contraddire questa audace
ipotesi. Le più importanti conquiste storiche dell´Europa non hanno forse
perduto la loro forza di creare un´identità proprio in seguito al loro
successo mondiale? E cosa deve tenere insieme una parte del mondo che come
nessun´altra si caratterizza per la persistente rivalità tra nazioni
orgogliose della propria identità?
Poiché il cristianesimo e il capitalismo, la scienza e la tecnica, il diritto
romano e il codice napoleonico, la forma di vita urbana e borghese, la
democrazia e i diritti umani, la secolarizzazione dello Stato e della società
si sono diffusi ad altri continenti, queste conquiste non costituiscono più una
peculiarità. La fisionomia spirituale occidentale, che si radica nella
tradizione ebraico-cristiana, possiede certo tratti caratteristici. Ma anche
questa impostazione spirituale, connotata dall´individualismo, dal razionalismo
e dall´attivismo, è condivisa dalle nazioni europee con gli Stati Uniti, il
Canada e l´Australia. L´Occidente come orizzonte spirituale abbraccia ben più
che la sola Europa.
Inoltre, l´Europa consiste di Stati nazionali che si delimitano polemicamente
l´uno rispetto all´altro. La coscienza nazionale, che riceve la sua impronta
dalle lingue, dalle letterature e dalle storie nazionali, ha per lungo tempo
agito come un materiale esplosivo. Tuttavia, in reazione alla forza distruttiva
di questo nazionalismo hanno preso forma dei modelli di mentalità che dal punto
di vista dei non europei danno un volto tutto suo all´Europa odierna, nella sua
incomparabile, vasta pluralità culturale. Una cultura che da molti secoli,
attraverso conflitti tra città e campagna, o tra poteri religiosi e poteri
secolari, attraverso la concorrenza tra fede e sapere, la lotta tra i detentori
del dominio politico e le classi antagoniste è stata lacerata più di tutte le
altre culture, non ha potuto fare a meno di apprendere nel dolore come le
differenze possano comunicare, i contrasti possano essere istituzionalizzati e
le tensioni possano essere stabilizzate. Anche il riconoscimento delle
differenze - il reciproco riconoscimento dell´altro nella sua alterità - può
diventare il contrassegno di un´identità comune.
La pacificazione dei conflitti di classe operata dallo stato sociale e l´autolimitazione
della sovranità statale nel quadro dell´Unione europea sono solo gli esempi
più recenti di tutto ciò. Nel terzo quarto del ventesimo secolo l´Europa al
di qua della cortina di ferro ha vissuto, secondo le parole di Eric Hobsbawm, la
sua «età dell´oro». Da allora sono riconoscibili i tratti di una mentalità
politica comune, sicché spesso gli altri vedono in noi l´europeo anziché il
tedesco o il francese - e questo non solo a Hong Kong, ma perfino a Tel Aviv. È
proprio vero: rispetto ad altre parti del mondo, nelle società europee la
secolarizzazione è progredita di molto. Qui i cittadini considerano con
sospetto gli sconfinamenti tra politica e religione. Gli europei hanno una
fiducia relativamente grande nelle prestazioni organizzative e nelle capacità
gestionali dello Stato, mentre sono scettici rispetto all´efficienza del
mercato. Essi possiedono un senso spiccato della «dialettica dell´illuminismo»,
non nutrono nei confronti dei progressi tecnici aspettative incrollabilmente
ottimistiche. Sono portati a preferire le garanzie di sicurezza dello Stato
sociale o i sistemi di regolazione solidale. La soglia di tolleranza rispetto
all´esercizio della violenza sulle persone è comparativamente bassa. Il
desiderio di un ordine internazionale multilaterale e giuridicamente regolato si
lega alla speranza in una effettiva politica interna mondiale nel quadro di un´Onu
riformata.
La costellazione che ha consentito ai favoriti europei occidentali di sviluppare
questa mentalità all´ombra della guerra fredda si è dissolta dal 1989-´90.
Ma il 15 febbraio dimostra che la mentalità è sopravvissuta anche al suo
contesto di origine. Questo spiega anche perché la «vecchia Europa» si vede
sfidata dalla risoluta politica egemonica della superpotenza alleata. E perché
così tanti che in Europa salutano la caduta di Saddam come una liberazione
respingono il carattere di violazione del diritto internazionale assunto dall´invasione
unilaterale, preventiva, tanto sconcertante quanto insufficientemente motivata.
Ma quanto è stabile questa mentalità? Ha radici in esperienze e tradizioni
storiche profonde?
Oggi sappiamo che molte tradizioni politiche che rivendicano autorità in forza
di un´apparente naturalità sono state «inventate». Invece, un´identità
europea che nascesse alla luce dell´opinione pubblica sarebbe già in partenza
qualcosa di costruito. Ma solo se fosse costruita in modo arbitrario porterebbe
la macchia della pura e semplice convenzione. La volontà etico-politica che si
afferma nell´ermeneutica dei processi di autocomprensione non è arbitrio. La
distinzione tra l´eredità alla quale diamo inizio e quella che vogliamo
respingere esige tanta cautela quanto la decisione sul tipo di lettura in base
al quale ci appropriamo della prima. Le esperienze storiche si candidano solo a
un´appropriazione consapevole, senza di cui non ottengono la forza di creare
un´identità. Per finire, qualche spunto su queste esperienze «candidate»,
alla luce delle quali la mentalità europea postbellica potrebbe acquisire un
profilo più netto.
Radici storiche di un profilo politico
Il rapporto tra Stato e Chiesa nell´Europa moderna si è sviluppato in modo
diverso al di qua e al di là dei Pirenei, a nord e a sud delle Alpi, a ovest e
a est del Reno. La neutralità del potere statale circa le visioni del mondo ha
ricevuto una configurazione giuridica differente in ciascuno dei vari paesi
europei. Ma ovunque all´interno della società civile la religione assume una
analoga posizione impolitica. Anche se per altri aspetti si può deplorare
questa privatizzazione sociale della fede, essa ha per la cultura politica una
conseguenza desiderabile. Dalle nostre parti si fa fatica a immaginare un
presidente che affronta i suoi impegni ufficiali quotidiani iniziando con una
preghiera pubblica e che collega le sue decisioni politiche più impegnative a
una missione divina.
In Europa, l´emancipazione della società civile dalla tutela di un regime
assolutistico non corrispose ovunque alla presa di possesso e alla
trasformazione democratica del moderno stato amministrativo. Ma l´irradiazione
ideale della Rivoluzione francese su tutta l´Europa spiega, tra l´altro,
perché qui alla politica in entrambe le sue configurazioni - sia come medium
della garanzia di libertà che come potere organizzativo - sia stata assegnata
una funzione positiva. Invece, l´affermazione del capitalismo è andata di pari
passo con aspri contrasti di classe. Questo ricordo impedisce anche una
valutazione non prevenuta del mercato. Il diverso giudizio su politica e mercato
può rafforzare negli europei la fiducia sulla capacità ordinatrice di uno
stato che opera come un fattore di civiltà, dal quale si attendono anche il
rimedio ai «guasti del mercato».
Il sistema dei partiti uscito dalla Rivoluzione francese è stato spesso
copiato. Ma solo in Europa esso è anche al servizio di una competizione
ideologica che sottopone le patologie sociali causate dalla modernizzazione
capitalistica a una continua valutazione politica. Questo richiede sensibilità
da parte dei cittadini per i paradossi del progresso. Il conflitto tra
interpretazioni conservatrici, liberali e socialiste comporta che si soppesi una
questione: le perdite determinate dalla disintegrazione delle forme di vita
tradizionali e protettive superano i guadagni di un progresso chimerico? Oppure
i benefici prefigurati oggi per domani dai processi di distruzione creativa
superano i dolori dei perdenti della modernizzazione?
In Europa le differenze di classe che hanno perdurato tanto a lungo sono state
percepite da coloro che ne erano colpiti come un destino che poteva essere
cambiato solo con l´agire collettivo. Così, nel contesto dei movimenti dei
lavoratori e delle tradizioni cristiano-sociali si è affermato un ethos
solidaristico della lotta per «più giustizia sociale», mirante a
un´assistenza uniforme, contro l´ethos individualistico di una giustizia
conforme alle prestazioni, che reca con sé stridenti disuguaglianze sociali.
L´Europa attuale è contrassegnata dalle esperienze dei regimi totalitari del
ventesimo secolo e dall´Olocausto - la persecuzione e l´annientamento degli
Ebrei europei, nella quale il regime nazista ha coinvolto anche le società dei
paesi conquistati - . Le discussioni autocritiche su questo passato hanno
richiamato alla memoria i fondamenti morali della politica. Una più alta
sensibilità per le lesioni dell´integrità personale e fisica si riflette tra
l´altro nel fatto che il Consiglio europeo e l´Unione europea hanno posto come
condizione di ammissibilità nell´Unione stessa la rinuncia alla pena di morte.
Un passato bellicista ha a suo tempo trascinato tutte le nazioni europee in
conflitti sanguinosi. Dopo la seconda guerra mondiale, dalle esperienze della
mobilitazione militare e spirituale delle une contro le altre hanno tratto la
conseguenza di sviluppare nuove forme di cooperazione sopranazionale. La storia
dei successi dell´Unione europea ha consolidato negli europei la convinzione
che l´addomesticamento dell´esercizio della forza da parte dello stato esige
anche sul piano globale la delimitazione reciproca dei campi d´azione sovrani.
Ciascuna delle grandi nazioni europee ha attraversato una fase di pieno
dispiegamento della potenza imperiale e, ciò che nel nostro contesto è più
importante, ha dovuto elaborare l´esperienza della perdita di un impero. Questa
esperienza di declino si collega in molti casi con la perdita dei possedimenti
coloniali. Con la crescente distanza dall´epoca dei domini imperiali e della
storia coloniale le potenze europee hanno anche avuto l´opportunità di
situarsi ad una distanza riflessiva da se stesse. Hanno così potuto apprendere
a percepirsi, dalla prospettiva degli sconfitti, nel ruolo dubbio dei vincitori
cui viene chiesta ragione della violenza di una modernizzazione paternalistica e
sradicante. Questo potrebbe aver favorito la rinuncia all´eurocentrismo, dando
le ali alla speranza kantiana in una politica interna mondiale.
(Traduzione di Carlo Sandrelli)
Jürgen Habermas
Jürgen Habermas (1929) è un filosofo, storico e sociologo tedesco nella tradizione della “Teoria critica” della Scuola di Francoforte. È stato docente alle università di Heidelberg e Francoforte. Nei suoi …