Paolo Rumiz: Il Danubio degli altri

12 Giugno 2003
Pianura pannonica, rondini nell'aria ferma, profumo di aglio selvatico. Il fiume d'Europa va nel tramonto, cerca il Sud. Dovrebbe essere stanco, dopo tanta strada. Invece è vitale, gonfio, pieno di gorghi. Scava ostinato la boscaglia e il silenzio. L'ultima città ungherese, Mohacs, è già alle spalle.
Le alture di Villànyi, a Occidente, verso Pecs e la Drava, sono inghiottite da una foschia viola. Annotta. Le uniche luci sono i semafori per la navigazione. Sono luci inutili. A sud di Budapest il Danubio è in sonno. Dopo il crollo dei ponti di Novi Sad in Serbia, abbattuti dalla Nato nell'ultimo anno del Novecento, è un fiume dimezzato. Prima era un andirivieni di mercanzie. Oggi la guerra in Kosovo ha cambiato tutto. Traffici al minimo. Chiatte ferme. Sparite le grandi navi piatte, stracolme di carbone ucraino. Un tempo risalivano fino in Germania: ora sono parcheggiate nel Mar Nero, vicino al delta. Aspettano che qualcuno rimuova quel maledetto embolo dall'aorta del Continente. Oggi, se vedi una barca sul fiume, stai sicuro. È contrabbando. Stelle, grilli, nessun segnale. Solo la mappa ti dice che lì, poco prima del ponte di Batina, comincia l'altro mondo. Anzi, il "Mondo ex". Quella che chiamammo Jugo-slavia e ora ha perduto il vecchio nome anche nella sua ultima, minimale forma di sopravvivenza: la Serbia-Montenegro. Qui comincia, anche, l'Altra Europa. Quella che resta fuori dalla nuova Unione allargata. Comincia l'Europa che non ce la fa, l'Europa in sala d'attesa che arranca, tra mafie, febbri etniche e protettorati militari altrui, in bilico tra zavorre post-comuniste e le pressioni del Fondo monetario internazionale. Nulla ti avverte che sei altrove. Succede perché in nessun altro posto il Dio-fiume ha una simile, straordinaria unità. Qui una cortina di ferro sarebbe irrealizzabile. Nulla può fare da barriera. Proprio nel punto dove comincia la grande instabilità balcanica, il Danubio cambia la sua natura rettilinea e diventa serpente, un immenso anaconda che si diverte a depistarti costruendo labirinti tra le alture brumose della Backa, popolate di cicogne, e le lunghe ondulazioni della Baranja, terra di vigne e di grano. Si divide. Forma isole, risale verso nord, cambia percorso, lascia decine di vecchi meandri a secco, scolpisce scarpate senza senso logico, disegna fondali trompe l'oeil, squarcia il bosco verso bracci a fondo cieco. Con la sua acqua dovrebbe formare un altro confine ermetico, quello tra Croazia e Serbia, Paesi che hanno fatto una guerra orrenda per separarsi. Ma anche qui il Danubio se ne frega della geopolitica e delle guerre. Fino a Vukovar, la nuova Stalingrado, buca la frontiera per almeno dieci volte. Ferenc Vasarhelyi, che fa il poliziotto all'imbarcadero di Mohacs (ultimo controllo in Ungheria per chi viaggia via acqua), non ama i vicini a Sudest. Sudest in ungherese si dice Delkelet ed è parola piena di significati negativi. È la direzione dell'instabilità. "Meglio che restino fuori per sempre, quelli laggiù", diceva a noi della barca che ci ostinavamo ad andare proprio da quella parte seguendo la corrente. "Quelli laggiù": serbi tagliagole, romeni miserabili, bulgari maledetti. Se viaggi un po' sul Danubio te ne accorgi subito. I Paesi della Nuova Europa (la fascia di nazioni tra Estonia e Ungheria che l'Ue ha appena accolto nel suo seno) daranno problemi alla Vecchia Europa, quella storica, tra Reno e Mediterraneo. L'entusiasmo con cui hanno aderito alla guerra irachena di Bush, spiazzando il fronte della trattativa con Aznar e Berlusconi, l'abbiamo già conosciuto. Quello che non abbiamo ancora sperimentato è l'ostilità della Nuova Europa a un' ulteriore allargamento del club. Polonia, Repubblica Ceca e Slovenia non li vogliono proprio, quelli dei Balcani. Figurarsi Russia e Turchia. Non vogliono dividere con loro la torta dei contributi agricoli e dei fondi strutturali. Preferiscono che restino fuori. Vogliono diventare per loro un luccicante Occidente. E poi, non li amano. La Fortezza Europa finisce qui, ti dicono. In Estonia, Slovacchia, Ungheria e Slovenia, la gente ripete: saremo noi gli implacabili custodi di Schengenlandia. Se potessero, costruirebbero subito un nuovo Muro. Quando il fiume, curvando a Oriente, sfiora le macerie di Vukovar popolate di rondini, il problema di un ritardo che rischia di diventare incolmabile si fa più chiaro. Le classi dirigenti non sono tornate in città, a guerra finita. È il segno che il conflitto non ha solo massacrato etnìe. Ha anche espulso borghesie. Ha spazzato via le classi medie cosmopolite che da anni aspettavano la fine del comunismo per dispiegare la loro capacità di intrapresa. Soprattutto in Serbia, l'imbarbarimento ha lasciato in mano alle vecchie mafie, dunque al vecchio regime riciclato, tutto l'affare della privatizzazione. Vedi gli ultimi omicidi, che si sono portati via anche un premier. Zoran Djindjic. Novanta chilometri oltre, la città di Novi Sad con i suoi ponti schiantati, magnifica sotto la fortezza di Petrovaradin, ti dice che forse l'energia c'è ancora, che la peste balcanica ha colpito sì, ma a pelle di leopardo, lasciando intatte isole di convivenza e intraprendenza. Come Novi Sad, la città più vitale del Danubio, con le sue belle donne e le sue venti etnìe. Un crogiolo che nemmeno Milosevic, nemmeno la guerra, nemmeno le bombe Nato e i nostri pregiudizi sono riusciti a intaccare. L'università funziona, sforna i migliori esperti d'informatica d'Europa. Laboratori producono film, musica, editoria. Comincia qui il mondo ortodosso, con le icone, i pope nerovestiti. Comincia l'altra fede, Bisanzio, la seconda Roma, il senso di un potere imperscrutabile. Lo chiamano "Vicino Oriente", ma non è mai stato così lontano da noi. Con la guerra, a Zagabria hanno tolto tutte le indicazioni stradali col nome "Belgrado". Figurarsi quelle verso la Bosnia o la Macedonia, dove cominciano i primi minareti. È come se, in Croazia, autostrada, ferrovia, fiumi, tutto portasse verso il nulla. Il Sudest, anche lì, è una direzione maledetta. Eppure è la direzione dove l'Italia meglio dovrebbe dispiegare il suo interesse geopolitico. Proprio lì, sul Danubio che dilaga verso i grandi affluenti, la Sava e la Morava, capisci che l'Europa verso Est si allarga a due velocità. A Nord, con la Germania che ha espanso il suo spazio vitale fino ai confini della Bielorussia e dell'Ucraina, investendo in industrie, cultura, infrastrutture. A Sud, con l'Italia che ha a malapena la piccola Slovenia. La quale peraltro gravita assai più sul mondo germanico, mitteleuropeo, che su quello mediterraneo. Non abbiamo niente, a Sudest. Sotto lo stato-Lilliput, già in Istria, comincia l'Europa in sala d'attesa. A partire dalla Croazia, che entrerà nell'Unione chissà quando. Anche lei fuori dal portone della fortezza Europa. Più in là, quando si stacca dalla Serbia, dopo la stretta dei Carpazi e la babilonica diga di Turnu Severin, il fiume è ormai un mare. Eccolo che dilaga, grigio-azzurro nella pianura tra Romania e Bulgaria, segnando il confine tra i due Paesi. Anche qui è la metafora di una transizione verso un futuro sconosciuto. Il senso di No man's land aumenta. Della Jugoslavia, noi italiani abbiamo imparato qualcosa dai bollettini di guerra. Ma di questi due Paesi che dovrebbero entrare nel Club europeo nel 2007 non sappiamo niente. Eppure in Romania ci sono migliaia di imprese italiane, soprattutto venete. Uno sforzo economico che non ha aggiunto nulla al nulla che sappiamo. Manager e tecnici prendono i voli per Bucarest e Timisoara, cercano operai, capannoni e ragazzotte da spennare, ma non vanno molto oltre. Business is business. Sui giornali l'economia domina. I titoli dicono: "Romania, operai da esportazione". Oppure: "L'Enel si espande in Bulgaria". Della cultura, poco o niente. Si narra che il gruppo Unicredito, il più attento a espandersi a Est, abbia riscontrato nel suo management una conoscenza così approssimativa dei luoghi, da dover organizzare seminari sull'anima dei medesimi. Storia, musica, letteratura, scienza. Se Hemingway fosse nato in Bulgaria, dicono qui, non lo leggerebbe nessuno. E se Jonesco, che è di qui, non fosse emigrato nell'Europa che conta, oggi farebbe la stessa fine. Eppure, cercano di spiegarti gli intellettuali a Bucarest, Sofia e Belgrado, i Balcani restano una risorsa per l'Europa, un grande laboratorio di geopolitica. Luogo di scontro etnico, ma anche spazio di tolleranza, in una geografia a pelle di leopardo che bisogna saper leggere con attenzione. La Bulgaria, per esempio, è vista con grande attenzione da Washington. "Un modello di tolleranza per il resto dell'area", dicono all'ambasciata Usa a Sofia. O la Macedonia, che nello scetticismo generale ha riassorbito le tensioni di due anni fa. Qui le cose succedono in anticipo. Dall'attentato di Sarajevo in poi. Persino quanto è accaduto da poco a Baghdad era già visibile nella guerra dei Balcani. Molto: la bugia della guerra religiosa, l'inadeguatezza delle bombe intelligenti, la solitudine degli Usa nel loro ruolo di guardiani del mondo, la debolezza dell'Europa e dell'Onu, gli inganni dei media. E poi la sottovalutazione di componenti invisibili della geopolitica, come l'orgoglio, in popoli meno sazi di quelli occidentali. E ancora, il dislivello fra le guerre stellari e il mondo dei pastori guerrieri. Il fiume va verso il delta, si perde in una straordinaria terra di nessuno. È lì, alla fine del viaggio, davanti al Mar Nero, porta dell'Anatolia, del Caucaso e della vecchia Russia, che ti chiedi: quali saranno i confini dell'Ue? Dove si arresterà l'allargamento, se l'idea di nuove membership provoca già gelosie tra i nuovi arrivati? E soprattutto: dove si esaurisce il nostro spazio, la nostra cultura, la nostra economia? Qual è, in definitiva, l'anima dell'Europa?

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …