Paolo Rumiz: Caccia al camoscio bianco
06 Agosto 2003
Le Alpi brontolano, proprio oggi che si parte in bici. Caldo, fulmini,
mosconi nervosi. Sopra il Ponte del Diavolo, a Cividale, è come se un gigante
spostasse un armadio sul pavimento del solaio. Colpi, cigolii, rimbombi. Non è
il massimo per andare. Ma certe mattine dormire è una diserzione, la partenza
è una tromba che ti sveglia. Figurarsi oggi, che si entra in Slovenia dalla
stretta di Caporetto. La strada diventa una rivincita, una Strafexpedizion.
Giù dalle brande, dunque. Si va per monti bastardi, da bracconieri. Scarpate fitte di boscaglia, villaggi di gente dura, mezza slovena mezza friulana. Attento, mi dicono alla locanda dei "Buoni amici", vicino allo stradone. Qui non buchi solo le Alpi. Entri anche nella maledizione dell´ultimo secolo. Il fronte dell´Isonzo, il fascismo, la Resistenza, la cortina di ferro. E poi l´ultimo muro che cade: la frontiera con la Slovenia che fra un anno non c´è più.
Confine solitario, il poliziotto dormicchia, fa cenno di andare. Poi, la verde conca di Caporetto ti viene incontro in un silenzio da deltaplano. Dappertutto alveari. Gli sloveni sono matti per le api, se le portano dietro con le loro casette colorate sistemate su rimorchi. Le spostano a seconda della fioritura. E poiché la Slovenia è piena di orsi (massima densità europea), è fatale che i suddetti si facciano scorpacciate leggendarie. Non per niente li chiamano "Medved", cioè divoratori di miele.
Alla locanda Lavrencic incontro Janez, un tipo fenomenale che viaggia su un vecchio bus convertito in alveare. Una notte, racconta, l´orso gli è entrato nel bus, mentre lui dormiva sotto un tiglio. Mima la scena in modo esilarante. Il trambusto infernale, il mezzo che traballa, il ladrone che esce dal portellone con la faccia furba, leccandosi i baffi, colmo di sovrana beatitudine, seguito da una nube di insetti inferociti. Sento che l´orso sarà il mio portafortuna. Goloso e onnivoro, nomade e pigro, curioso e onnipresente. Ed è già tempo della prima birra.
Fulmini sul Monte Nero, crepitano come contraeree. Janez spiega che la cima è una calamita, ferro dappertutto. Miniere? No, armi della Grande Guerra. Un immenso cimitero di ferro arrugginito. Ne portano via da novant´anni e ce n´è ancora. Sopra quella ferraglia i temporali alimentano leggende. E´ una terra d´Oriente, questa. Piena di storie. Ragazze rapite dai turchi, il tempo felice del re Matjas, i titani, il camoscio bianco dalle corna d´oro, proibito ai cacciatori.
Il ponte sull´Isonzo, l´acqua verde. Sullo stradone che sale, rumino le foto della Grande Guerra, viste al museo di Caporetto. Impressionanti. Facce barbute da mujaheddin, occhi febbrili nella neve. Cannoni enormi tirati a braccia su per i prati, migliaia di feriti che aspettano il treno. Gli italiani falcidiati dai gas. Un po´ di verità, finalmente, su questo confine inondato di retorica. Troppo pieno di sacrari, mausolei, monumenti alla vittoria.
Bandiere Ue dappertutto, i conti si pagano già in euro. Linde casette con gerani, nella valle regna un ordine austriaco. Ovunque respiri la voglia di Occidente. L´odore umido dell´alpe si fa più forte, contadini falciano in fretta i prati prima della pioggia. Incrocio altri ciclisti, auto con deltaplani e canoe. Tutto dice la familiarità degli slavi subalpini con l´aria aperta. Dopo Plezzo, un cimitero austroungarico: 546 croci schierate senza nome e una lapide in granito posta cinque anni fa dalla mitica "Croce Nera", sezione di Salisburgo. Una preghiera.
Ed è la Val Trenta, porta del Tricorno. Pedalo sotto un cielo carico di elettricità, sfioro gitanti con scarponi e zaini enormi, dalle facce d´altri tempi. Tricorno - Triglav - vuol dire "Monte a tre teste" e gli sloveni ci vanno almeno una volta nella vita. Serissimi, come alla Mecca. Quel monte è il simbolo della loro diversità slava, un po´ baltica un po´ alpina. E loro ti ripetono leggende scandinave su un cavallo tricefalo nero. "Veniamo dal Baltico", dicono, e il discorso è politico. Vuol dire: siamo nordici, dunque affidabili.
Comincia la pioggia e anche la salita vera. Pareti grigie ti cadono addosso, la montagna ha una severità glaciale. Mille metri sopra c´è il Passo Vrsic, un nome che suona come un distillato di fatica. La valle si stringe, il rumore dell´Isonzo la riempie tutta. Asfalto traslucido, legnaie, una locanda. La casa di Anton Tozbar, mitica guida e cacciatore, cui un orso portò via mandibola e lingua con una zampata sola. Tuona, ragazze in bikini scappano dal fiume. Voglia matta di un´altra birra, ma non si può, con 25 tornanti da fare. Resistere, resistere, resistere.
Zig zag, zig zag. Traffico quasi zero. Vado così piano che vedo gli insetti. Un ragno traversa la strada, lo evito. Un moscone mi sorvola, fa il rumore di un jet a diecimila metri. Una farfalla giallina si posa sulla maglietta arancione. Zig zag. Il tornante di destra mostra il Tricorno, quello di sinistra lo Jalovec, altro gigante delle Giulie. Nel 1916 vi combatté Erwin Rommel, prima di diventare la Volpe del Deserto.
A quota 1200 torna il sole, l´asfalto fuma. Poi tutto si apre, inizia un grande mezzacosta, lo spartiacque col Danubio è vicino. Ed è il passo, con il rifugio Ticarjev sulla strada, salsicce, birra finalmente. "Birra con le corna", devi chiedere qui. Quella buona, che ha sulla bottiglia l´etichetta verde col camoscio bianco, quello mitico del Tricorno. Il popolo sloveno banchetta ordinato sulle panche. Una bionda grassa con due bambini, ciclisti, una coppia di vecchi in braghe corte con i bastoni telescopici, deltaplanisti. L´Italia è lontana come la Luna.
Riprende a piovere, mi tuffo in discesa verso la Mitteleuropa, destinazione Kranjiska Gora. Tornanti in selciato, la bici vibra tutta, con l´acqua lo stradone pare una Parigi-Roubaix. Le montagne scompaiono nelle nubi, il caldo aumenta, la grande fuga finisce su prati che fumano come un bagno turco. Domani si passa in Carinzia, a cercare la tana di un lupo.
Giù dalle brande, dunque. Si va per monti bastardi, da bracconieri. Scarpate fitte di boscaglia, villaggi di gente dura, mezza slovena mezza friulana. Attento, mi dicono alla locanda dei "Buoni amici", vicino allo stradone. Qui non buchi solo le Alpi. Entri anche nella maledizione dell´ultimo secolo. Il fronte dell´Isonzo, il fascismo, la Resistenza, la cortina di ferro. E poi l´ultimo muro che cade: la frontiera con la Slovenia che fra un anno non c´è più.
Confine solitario, il poliziotto dormicchia, fa cenno di andare. Poi, la verde conca di Caporetto ti viene incontro in un silenzio da deltaplano. Dappertutto alveari. Gli sloveni sono matti per le api, se le portano dietro con le loro casette colorate sistemate su rimorchi. Le spostano a seconda della fioritura. E poiché la Slovenia è piena di orsi (massima densità europea), è fatale che i suddetti si facciano scorpacciate leggendarie. Non per niente li chiamano "Medved", cioè divoratori di miele.
Alla locanda Lavrencic incontro Janez, un tipo fenomenale che viaggia su un vecchio bus convertito in alveare. Una notte, racconta, l´orso gli è entrato nel bus, mentre lui dormiva sotto un tiglio. Mima la scena in modo esilarante. Il trambusto infernale, il mezzo che traballa, il ladrone che esce dal portellone con la faccia furba, leccandosi i baffi, colmo di sovrana beatitudine, seguito da una nube di insetti inferociti. Sento che l´orso sarà il mio portafortuna. Goloso e onnivoro, nomade e pigro, curioso e onnipresente. Ed è già tempo della prima birra.
Fulmini sul Monte Nero, crepitano come contraeree. Janez spiega che la cima è una calamita, ferro dappertutto. Miniere? No, armi della Grande Guerra. Un immenso cimitero di ferro arrugginito. Ne portano via da novant´anni e ce n´è ancora. Sopra quella ferraglia i temporali alimentano leggende. E´ una terra d´Oriente, questa. Piena di storie. Ragazze rapite dai turchi, il tempo felice del re Matjas, i titani, il camoscio bianco dalle corna d´oro, proibito ai cacciatori.
Il ponte sull´Isonzo, l´acqua verde. Sullo stradone che sale, rumino le foto della Grande Guerra, viste al museo di Caporetto. Impressionanti. Facce barbute da mujaheddin, occhi febbrili nella neve. Cannoni enormi tirati a braccia su per i prati, migliaia di feriti che aspettano il treno. Gli italiani falcidiati dai gas. Un po´ di verità, finalmente, su questo confine inondato di retorica. Troppo pieno di sacrari, mausolei, monumenti alla vittoria.
Bandiere Ue dappertutto, i conti si pagano già in euro. Linde casette con gerani, nella valle regna un ordine austriaco. Ovunque respiri la voglia di Occidente. L´odore umido dell´alpe si fa più forte, contadini falciano in fretta i prati prima della pioggia. Incrocio altri ciclisti, auto con deltaplani e canoe. Tutto dice la familiarità degli slavi subalpini con l´aria aperta. Dopo Plezzo, un cimitero austroungarico: 546 croci schierate senza nome e una lapide in granito posta cinque anni fa dalla mitica "Croce Nera", sezione di Salisburgo. Una preghiera.
Ed è la Val Trenta, porta del Tricorno. Pedalo sotto un cielo carico di elettricità, sfioro gitanti con scarponi e zaini enormi, dalle facce d´altri tempi. Tricorno - Triglav - vuol dire "Monte a tre teste" e gli sloveni ci vanno almeno una volta nella vita. Serissimi, come alla Mecca. Quel monte è il simbolo della loro diversità slava, un po´ baltica un po´ alpina. E loro ti ripetono leggende scandinave su un cavallo tricefalo nero. "Veniamo dal Baltico", dicono, e il discorso è politico. Vuol dire: siamo nordici, dunque affidabili.
Comincia la pioggia e anche la salita vera. Pareti grigie ti cadono addosso, la montagna ha una severità glaciale. Mille metri sopra c´è il Passo Vrsic, un nome che suona come un distillato di fatica. La valle si stringe, il rumore dell´Isonzo la riempie tutta. Asfalto traslucido, legnaie, una locanda. La casa di Anton Tozbar, mitica guida e cacciatore, cui un orso portò via mandibola e lingua con una zampata sola. Tuona, ragazze in bikini scappano dal fiume. Voglia matta di un´altra birra, ma non si può, con 25 tornanti da fare. Resistere, resistere, resistere.
Zig zag, zig zag. Traffico quasi zero. Vado così piano che vedo gli insetti. Un ragno traversa la strada, lo evito. Un moscone mi sorvola, fa il rumore di un jet a diecimila metri. Una farfalla giallina si posa sulla maglietta arancione. Zig zag. Il tornante di destra mostra il Tricorno, quello di sinistra lo Jalovec, altro gigante delle Giulie. Nel 1916 vi combatté Erwin Rommel, prima di diventare la Volpe del Deserto.
A quota 1200 torna il sole, l´asfalto fuma. Poi tutto si apre, inizia un grande mezzacosta, lo spartiacque col Danubio è vicino. Ed è il passo, con il rifugio Ticarjev sulla strada, salsicce, birra finalmente. "Birra con le corna", devi chiedere qui. Quella buona, che ha sulla bottiglia l´etichetta verde col camoscio bianco, quello mitico del Tricorno. Il popolo sloveno banchetta ordinato sulle panche. Una bionda grassa con due bambini, ciclisti, una coppia di vecchi in braghe corte con i bastoni telescopici, deltaplanisti. L´Italia è lontana come la Luna.
Riprende a piovere, mi tuffo in discesa verso la Mitteleuropa, destinazione Kranjiska Gora. Tornanti in selciato, la bici vibra tutta, con l´acqua lo stradone pare una Parigi-Roubaix. Le montagne scompaiono nelle nubi, il caldo aumenta, la grande fuga finisce su prati che fumano come un bagno turco. Domani si passa in Carinzia, a cercare la tana di un lupo.
Paolo Rumiz
Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …