Michele Serra: Quando passava Nuvolari
Quando lo sbraito del motore lasciava dietro di sé solo eco e polvere, la gente in piedi tra le stoppie poteva ben dire di avere visto Nuvolari: un paio di lenti affumicate sotto un casco di cuoio, i mezzi guanti al volante, la bestia di vernice che lo ingoiava per quanto era piccolo (uno e sessanta, "un fascio di nervi spiccio e caustico" nella memoria di Enzo Ferrari). Sapere come parlava e che cosa pensava, come vestiva da civile, che fidanzate o mogli avesse, insomma che "personaggio" fosse, era il privilegio (o la sfortuna) della sua cerchia privata e di lavoro, e dei pochi giornalisti al seguito.
Per la folla, che è la sola vera depositaria dei miti, Nuvolari era solo un nome filante a bordo della Chiribiri, dell’Alfa, dell’Auto Union, della Ferrari: una folgore intravista da parecchi ma solo per pochi istanti, e percepita da tutti come fenomenale icona della destrezza e del fegato, della velocità e dello sprezzo della morte. Da fine anni Venti ai primi Cinquanta, l’epoca d’oro dell’automobile e dell’automobilismo sportivo, quando si correva nel territorio, tra il granturco e i pioppi, tra le case e i campi dell’Italia contadina, con pochi denari, molta incoscienza e una cieca fede nel rombo generoso di una modernità tutta ancora da verificare... Se partiamo proprio da qui, cioè dalla coincidenza tra la scomparsa di Nuvolari e la comparsa, in Italia, del piccolo schermo, possiamo capire meglio l’unicità del suo mito. Non fece in tempo, come Bartali e Coppi, a partecipare al Musichiere e scherzare con Mario Riva, dando al nascente pubblico di massa l’idea familiare e smagata dei campioni come vicini di casa, il tiepido brivido di vederli in abiti borghesi.
Morì che era ancora una fotografia, un breve e nebbioso filmato, una divinità sfuggente e misteriosa. Morì che era puro talento, non inquadrato nell’umanamente noto, il fantino prodigioso in grado di domare le infernali lamiere che già allora sfioravano i trecento all’ora, ma su gomme quasi rudimentali, strette e dalla presa avventurosa, con i freni a tamburo che si scioglievano dopo poche strette di ganascia, senza l’elettronica correttiva che facesse da filtro tra il corpo del pilota e la pazzesca ferraglia da indirizzare, bene o male, lungo i declivi e le pianure della campagna italiana.
Si dice che il suo stile di guida consistesse in due fondamentali abilità: una generica, pigiare sempre sull’acceleratore senza mai farsela sotto, l’altra molto personale, le curve imboccate tutte in dérapage, anticipando con il muso la traiettoria e ritrovandosi avvantaggiati sul dritto successivo, con la macchina già puntata al rettilineo. Collezionava uscite di strada, incidenti, fratture, ma fu tra i pochi, della sua leva, a chiudere gli occhi nel suo letto.
La fioritura di aneddoti e leggende sulla sua invulnerabilità è clamorosa, appassionante e probabilmente infarcita di esagerazioni e frottole: tenuto insieme a furia di cerotti, gesso e fil di ferro, riparato e raddrizzato come un pezzo della meccanica complessiva macchina-pilota, nessun dolore lo fermava perché era una creatura mossa dai nervi - non dai muscoli e dalle ossa. (Cose simili si dissero di un altro esserino, più giovane di lui e quasi coevo, Edith Piaff, minata dalla vita, da uscite di strada e da altri incidenti esistenziali proprio come un pilota, ma amorosa e vibrante a oltranza, come un diapason. Gli estremamente nervosi possono diventare estremamente sensibili, sapere meglio degli altri come si prende una curva o una nota, come si sale a bordo della storia). Nuvolari su Chiribiri è del resto, lo si sente subito, già una canzone, e senza scomodare Roversi-Dalla si ammira, ancora oggi, la musicalità di quel cognome, la sua predestinazione celeste. Anche i motori, che avevano già cilindrate molto frazionate, otto e anche dieci cilindri, dovevano cantare da far paura, e sentirli fuori dagli autodromi, lungo i circuiti tracciati nelle comuni strade e per i paesi, sicuramente faceva un effetto strepitoso, anche per il contrasto così novecentesco, e così italiano, tra l’immobile paesaggio contadino e il mostro metalmeccanico che lo violava. Di quell’ossimoro sociologico e cronologico - le stoppie e il bolide, i campi e la velocità - si ha ancora traccia nell’Emilia della Ferrari, della Maserati e della Lamborghini. Il Museo Maserati, amorevolmente messo assieme da un facoltoso privato modenese, è custodito in una fattoria piena di vacche e forme di parmigiano. Ma certo è ormai trascorso, è tramontato (e si è mutato in ferita irrimediabile ai luoghi e allo spirito) quell’equilibrio magico e fragile tra il cuore arcaico e rurale del nostro paese - specie nella grande pianura del Nord - e la sua febbrile sapienza artigiana.
E a nessun pilota, oggi, potrebbe più accadere quanto accadde a Tazio Nuvolari in una Targa Florio degli anni Trenta. La macchina uscì di strada e ruzzolò tra i rovi, in fondo a un terrapieno. Il meccanico di bordo (la Florio si correva in coppia), sbalzato dall’abitacolo già durante la sbandata, si rialza e corre verso il ciglio della strada, guardando in basso e temendo il peggio. Non vede Nuvolari. Grida spaventato: "Tazio! Tazio!" Nuvolari sbuca intatto da un cespuglio, con il casco in mano, fa cenno al suo partner di tacere e gli bisbiglia: "Fai silenzio, asino! C’è un nido di quaglie con i piccoli. Li stiamo disturbando". Ruote all’aria, lì a fianco, la macchina agonizza sfiatando vapori di benzina.