Umberto Galimberti: Il dominio della tecnica

26 Agosto 2003
In un laboratorio di Shanghai hanno utilizzato cellule epiteliali umane prelevate dal prepuzio di due bambini di 5 anni e di due adulti e dalla faccia d’una donna di 60. Le hanno combinate con ovociti di coniglie australiane ottenendo degli embrioni, da cui poi hanno estratto quel che a loro serviva, ossia cellule staminali totopotenti che possono essere utilizzate per la rigenerazione di qualsiasi tessuto umano compromesso da degenerazione o malattia. Un esperimento analogo era stato tentato qualche mese prima negli Usa combinando materiale genetico umano e bovino, ma l’esperimento non era riuscito. Che dire? Quel che da anni vanno dicendo, inascoltati, filosofi come Martin Heidegger, Gunther Anders, e da noi Emanuele Severino, e cioè che la scienza non è più al servizio dell’uomo, piuttosto è l’uomo al servizio della tecno-scienza e non solo come funzionario dell’apparato tecnico come Adorno, Marcuse, Horkheimer andavano segnalando sin dagli anni '50, ma come materia prima, anzi, per dirla con Heidegger come la "materia prima più importante (wittgeste Rohstoff)".
E l’etica che dice di fronte agli scenari che la tecnica va delineando? L’etica, di fronte alla tecnica, diventa pat-etica, perché come fa a impedire alla tecnica che può di non fare ciò che può? Nella storia non si è mai visto che un’impotenza sia in grado di arrestare una potenza. E l’etica, nell’età della tecnica, celebra tutta la sua impotenza. E questo per due ragioni:
La prima è che finora abbiamo elaborato delle etiche in grado di regolare esclusivamente i rapporti tra gli uomini. Queste etiche, religiose o laiche che fossero, controllavano solo le intenzioni degli uomini, non gli effetti delle loro azioni, perché i limiti della tecnica a disposizione non lasciava intravedere effetti catastrofici. Fu all’inizio del secolo appena trascorso che l’incremento dell’apparato tecnico pose il problema se non fosse più utile calibrare l’etica sugli effetti delle azioni piuttosto che sulle intenzioni di chi le andava compiendo. Se era più utile, ad esempio, conoscere le "intenzioni" di chi aveva escogitato la bomba atomica, o gli "effetti" della bomba atomica per stabilire l’eticità di un’impresa. Nacque l’etica della responsabilità che affiancò l’etica dell’intenzione. A formularla fu Max Weber che però la limitò al controllo degli effetti "quando questi sono prevedibili". Sennonché è proprio della scienza produrre effetti "imprevedibili". E allora anche l’etica della responsabilità è costretta a gettare la spugna. Oggi siamo senza un’etica che sia efficace per controllare lo sviluppo della tecnica che, come è noto, non tende ad altro scopo che non sia il proprio potenziamento. La tecnica, infatti, non ha fini da realizzare, ma solo risultati su cui procedere, risultati che non nascono da scopi che ci si è prefissi, ma che scaturiscono dalle risultanze delle sue procedure. E chi può fermare in un laboratorio l’utilizzo d’un risultato che è lì a portata di mano e che non si sa esattamente a che cosa serva, ma si sa che un giorno servirà? L’unico limite della tecno-scienza sono i finanziamenti. Ma chi non prodiga denaro in quel campo così promettente che è la genetica che lascia intravedere scenari capaci di sconvolgere la medicina, di selezionare un’umanità artificiale senza gli inconvenienti di quella naturale, di poter stabilire i limiti dell’esistenza di ciascuno di noi, con tutte le conseguenze in termini di assicurazioni, previsioni, computi e calcoli? Chi può davvero frenare o porre impedimenti a simili scenari, rinunciando, nel caos del mondo, a una programmazione certa in termini di vita, di cura, di sicurezza e garanzia in ordine a ciò su cui val la pena d’investire o non investire, calcolare pianificare, utilizzando al meglio le risorse e lasciando cadere e deperire tutto ciò che è improduttivo? Non sto dipingendo scenari catastrofici. Questo sentimento è già nell’animo di tutti noi. Perché capita a tutti di sentire, a esempio, che quando due treni si scontrano si va alla ricerca dell’"errore umano". Giusto. Ma che significa questo se non che la nostra mentalità ha già interiorizzato che, rispetto ai dispositivi tecnici, l’uomo è un errore? E ancora, se è vero che con i dispositivi atomici oggi a nostra disposizione possiamo distruggere la terra 10mila volte, che significa potenziare la ricerca sulle armi nucleari? Significa che la tecnica procede al di là dell’assurdo. Che a promuoverla non sono scopi "umani", ma quell’unico scopo senza finalità che è il suo autopotenziamento. A questo siamo giunti. L’uomo, i suoi bisogni, i suoi desideri, le sue aspirazioni, la sua felicità non sono più gli scopi di quel gran darsi da fare che è l’affaccendarsi del pensiero umano. Il pensiero umano s’è innamorato di se stesso, anzi di un frammento di se stesso che è il "pensiero come calcolo". E l’idea di poter calcolare tutto, vita e morte, salute e malattia, potenza e dominio, vulnerabilità e invulnerabilità, persino la morte giocata sulla vertigine della sopravvivenza prolungata è un puro piacere di potere, perché abbiamo perso il gusto della vita con la sua precarietà, e ci siamo innamorati delle possibilità del pensiero che, nella sua euforia vertiginosa, non teme d’utilizzare anche l’uomo come materia prima per compiacersi della sua potenza. E noi tutti subiamo quello che il pensiero, ridotto a calcolo, può fare di noi. Naturalmente se il calcolo produce profitto. Perché si può anche calcolare come dar da mangiare a tutti gli uomini, ma se la cosa non è economicamente vantaggiosa, il calcolo è a risultato improduttivo. Gli antichi greci dicevano: "Chi non conosce il suo limite tema il destino". Qualcosa di simile compare nel primo libro della tradizione biblica, la "Genesi", dove Iddio mette in guardia dall’aver troppa confidenza con l’albero della conoscenza. L’Occidente, che è nato da queste due matrici, ha dimenticato il monito. E la tecnica, nata in Occidente, ha travalicato i suoi confini per dire ovunque la sua parola che è "potenza", rispetto alla quale il dispiegamento di potenza per guerre preistoriche, compresa quella in Iraq, dicono che per davvero non siamo ancora all’altezza dell’età della tecnica e ancora non abbiamo capito che il problema è: non cosa possiamo fare noi con gli strumenti tecnici che abbiamo ideato, ma che cosa la tecnica può fare di noi.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …