Umberto Galimberti: Negli abissi dell’anima

26 Agosto 2003
Era un collega di lavoro che, al pari della sua vittima, curava la follia. Quella condizione in cui il governo di sé collassa e tutti quegli impeti, quelle pulsioni che agitano il sottosuolo della nostra anima, acquistano forza, cecità e bisogno immediato di espressione. Non sentiamoci immuni. Il passaggio da una condizione all’altra non è insolito.
Avere a che fare con gli abissi dell’anima è contagioso, come lo è per i radiologi, che devono costantemente tenere sotto controllo il tasso di irradiazione. Naturalmente parlo degli psichiatri e degli psicoanalisti generosi che si lasciano davvero coinvolgere nella relazione. E ci buttano l’anima. Talvolta capita che non si riesca più a riprenderla. Così come può capitare che, proprio perché tormentati dai demoni della propria anima, si scelga incautamente la professione di psichiatra e, senza difese, si precipiti negli abissi in un misto di dedizione e tragica perdita di sé. Qualcosa di simile deve essere capitato allo psichiatra che ha ucciso il suo collega. Non un raptus di follia che appartiene solo alla fantapsicologia, ma la conclusione di un lungo lavoro della sua mente che doveva assolutamente trovare una ragione della sua biografia spezzata. Perché anche nella follia quel che disperatamente si cerca è una ragione capace di giustificare la propria condizione e riscattarla.
Tutto incominciò nel '92 quando il nostro psichiatra omicida fu assalito da una paziente con un coltello. Nel '97 la cosa si ripeté con un ragazzo tossico che pretendeva dallo psichiatra che gli ottenesse una pensione. Allo psichiatra la richiesta dev’essere sembrata fondata e il sentimento dell’ingiustizia subita dal suo aggressore dev’essere riemerso con forza moltiplicata quando fu lui a rivendicare e fu lui a vedersi chiudere tutte le porte. E allora il senso di ingiustizia, prima sottile poi sempre più grande, trasformò il suo senso di dedizione in un senso di persecuzione. Se non riesco ad aiutare un ragazzo che mi aggredisce in preda alla sua disperazione, allora l’ospedale in cui lavoro, l’Inail a cui mi rivolgo, il tribunale a cui chiedo giustizia anche per me, i giornali a cui inutilmente faccio presente il mio caso sono tutti luoghi di indifferenza sociale che il ragazzo, prima di aggredirmi, ha già toccato con mano e che ora io, solidale con lui, sperimento come muro spesso e opaco da cui non ricevo un segno di comprensione. Del ragazzo lo psichiatra perde le tracce, ma di lui porta con sé quel bisogno assoluto di giustizia che gli devasta l’anima, ma insieme gli dà una ragione per vivere e per giustificare quelli che agli altri appaiono i deragliamenti della sua vita. In queste condizioni non può più fare lo psichiatra e perciò l’ospedale lo licenzia. A questo punto il mondo non gli appare più solo indifferente, ma persecutorio. Chiede un indennizzo perché la sua condizione di sofferenza è stata causata dal suo lavoro in ospedale. E lo chiede prima all’amministrazione dell’ospedale, poi al tribunale, poi ai giornali affinché promuovano la sua giusta causa. La follia del ragazzo è diventata la sua follia. E il gesto del ragazzo, che un giorno gli ha puntato un coltello sul petto, l’unica alternativa se non ottiene giustizia.
Nella sua mente il mondo si è enormemente semplificato, come spesso accade nella condizione schizofrenica dove, per tenere a bada tutti i moti contrastanti e violenti dell’anima, occorre individuare un percorso logico elementare che dia una ragione al proprio esistere e uno sbocco al frastuono della propria mente. E la logica è: o il mondo si fa giusto con me o io devo uccidere il responsabile dell’ingiustizia del mondo. A questa semplificazione lo psichiatra, ormai folle, si aggrappa come all’unica via d’uscita che gli resta per dare un ordine al turbinio della sua mente. La rigidità dello schema lo conforta. Come in ogni condizione paranoica, non si deve pensare più a nulla se non alla via tracciata da questo schema. E bisogna perseguirlo con quella lucidità che è l’ultimo residuo che la luce della ragione lascia di sé nell’abisso della follia. Radiato dall’ordine dei medici, il nostro psichiatra torna come paziente nell’ospedale dove ha lavorato come medico.
La condizione in cui si trova induce il dottor Lorenzo Bignamini, suo ex collega e poi sua vittima, a chiedere il trattamento sanitario obbligatorio e iniziare le cure conseguenti. Ma qui più della cura poté la follia che, nel caso della follia paranoica, consiste nel semplice capovolgimento della lettura del reale. Se io, per aiutare un ragazzo disperato, sono stato ridotto da medico a paziente, allora qualcuno ha approfittato della mia sensibilità e del mio innato senso di giustizia per espellermi dal mondo insensibile e ingiusto a cui un tempo anch’io appartenevo, ma con un’altra qualità d’animo. E chi può essere responsabile di tutto questo se non colui che, prendendosi cura di me, ha stabilito che io non sono un uomo mosso solo da sentimenti di giustizia, ma semplicemente un folle? Qui il cerchio si chiude e al nostro psichiatra, ormai prigioniero nel cerchio stretto della sua "ragione" paranoica, non resta che il gesto del giovane tossico per spezzare il cerchio e "fare giustizia". Questa tragica storia ci racconta ancora una volta che la follia non è mai "dissennata", ma sempre aggrappata a una ragione profonda, anche se limitata, ossessiva, chiusa, persecutoria, ma per il paziente liberante, che i farmaci non raggiungono, ma la parola e il sentimento possono catturare e, passo dopo passo, accompagnare a una rilettura di quanto sta accadendo più corretta, meno solitaria, più condivisa. Per cui tutti quelli che sbraitano che bisogna abolire la legge Basaglia e riaprire i manicomi vogliono semplicemente non capire niente, non saperne niente delle ragioni nascoste che guidano i percorsi folli, unica chance che finora abbiamo per recuperare alla comunicazione e alla condivisione sociale pensieri che sono folli perché assolutamente solitari e negati alla condivisione. Lorenzo Bignamini, che prese in cura il suo collega folle, queste cose le diceva e le praticava. Non è stato vittima delle sue idee e della sua cura, ma della sua professione, perché avere a che fare ogni giorno con i percorsi, a loro modo rigidamente ragionevoli della follia, è una professione a rischio, a cui non siamo soliti prestare molta attenzione, finché la cosa non ci riguarda.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …