Paolo Rumiz: La voce dello Stelvio

27 Agosto 2003
TRAFOI - «Mangiare, ciclisti, mangiare, che vi serve l’energia!» urla rauco il venditore di wuerstel in cima allo Stelvio, metri 2758, piazzato col baracchino sul punto di scollinamento, fra il primo albergo e il cartello del Passo. E' solo a quel grido che ti svegli dal mantra della salita e il vento dei lumbard ti gela salendo dall’altro versante. Allora togli il culo dal sellino, e ti ritrovi come un pirla fra i chioschi di souvenir. A vagare un po' gobbo, col passo ridicolo di chi non ha più un manubrio davanti. Le vie cantano, scriveva Chatwin, e anche lo Stelvio ha la sua voce. Ma non la puoi sentire salendo in auto. Devi andar su leggero, scavarti in bici un tunnel di silenzio. Solo così capisci il segreto della salita più lunga delle Alpi. Non è il dislivello, 1884 metri. Non è nemmeno la fantastica scenografia glaciale. E' la sua dimensione acustica, che comincia già la sera della vigilia, in Val Venosta, con le campane di Malles e Glorenza che battono il vespro dalle loro torri romaniche. E svelano l’antica anima latina di questa valle oggi tedesca. Ecco, prima dell’alba, il vento che soffia sulle praterie di valle, porta l’odore dei ghiacciai che splendono sotto la Luna. Poi le rondini, che ti sparano gridi secchi. E ancora il rumore dell’Adige, sul ponte di Laudes, che ti accompagna fino al campanile di Prato Stelvio, inizio della salita. E' lì che incroci la Statale, sotto uno specchio convesso attaccato a una casa che rimanda la tua immagine deformata. Eccoci là fotografati. Chi scrive, e Francesco Airoldi da Bergamo. Due matti in mutande sotto le Alpi. Il fragore del rio Solda, con la sua acqua grigio argento, ci cattura in un utero strettissimo, ombroso. Nessun altro rumore. Siamo soli, comincia il lungo «tranche» della salita. Sintonizziamo il respiro, uno due tre quattro, uno due tre quattro. Tutto il corpo canta: cuore, polmoni, giunture. Poi arriva il rumore del primo camion. Ci romba dietro col suo puzzo di diesel e un codazzo di auto che non possono passare. Ma poiché siamo in curva e il camion non può superare noi, ci godiamo una breve rivincita sui motorizzati. Airoldi non ha un sellino, ha una poltrona. Una cosa demenziale, mai vista. Due coppe, una per chiappa. Lui dice che funziona, pochi ci credono. Ma non basta. Tiene il manubrio altissimo, cosicché pedala quasi in piedi, con un asciugamano attorno al collo, come un pugile al peso. Tra le nostre teste c’è un dislivello di mezzo metro, sembriamo i fratelli Marx. E' il nostro modo per dissacrare la montagna, spernacchiare i ciclisti veri che presto ci arriveranno alle spalle con le tutine da Crazy Horse. Così abbiamo fatto il Gavia, un’altra leggenda del Giro. E oggi faremo anche lo Stelvio. Tornante 48, il primo del conto alla rovescia. Sotto Trafoi il vallone si slarga, il sole sbuca e ci scalda di tre quarti sulla schiena. La fatica dilata le narici, capto odore di crema abbronzante, aranciata, erba secca. Sopra, le grandi montagne. La bellezza di quanto ci sovrasta toglie un due per cento sulla pendenza, è una calamita che tira in alto. Ma anche la strada aiuta. Tagliata a meraviglia. Ti lascia sempre sotto il limite della fatica. L’ha tracciata in era asburgica un ingegnere lumbard di nome Donegani, anno 1818. Donegani. Toglietevi il cappello al sentire questo nome. Qui non c’è solo Coppi. Il mito dello Stelvio è anche questa salita perfetta, regolare, che aiuta anche i più scalcagnati. Prendete i tornanti. Sono fatti apposta per riposare. Chi va in auto non può capire. Non sa che su quei curvoni a strapiombo, per qualche metro, si può scendere anche in salita. Basta restare incollati al muretto esterno e sfruttare la contropendenza. Una goduria assoluta. Trafoi. In ladino Tre Fontane, un nome che canta. Dopo gli alberghi, campanacci di vacche pezzate alpine. Eccole lassù in cima a un prato vertiginoso. Più su ancora, un vecchio che falcia, dio solo sa come non cada giù. Comincia il tratto più duro, intorno al tornante 34, albergo Weisser Knot. Dieci per cento con impennate. E' qui che al Giro cominciano le fughe. Ed è qui che ci beccano i primi ciclisti, alti sul sellino. Li sentiamo arrivare dall’orgasmo del respiro. Concentratissimi. Non degnano di uno sguardo noi bestie da soma. Albergo Franzenshoehe, quota 2188, ultima aranciata. Finisce il bosco, soffia il vento di quota. Il cielo diventa nero, dicono che dalle cime si vedano brillare stelle a mezzogiorno. Ma l’iddilio dura poco. Cresce un rombo, quasi un ululato. Poi un secondo. Un terzo. Sono pattuglie di motociclisti. Tedeschi, italiani, olandesi. A centinaia, carenati e bardati. Comincia un casino infernale, scendono persino trattori, è un raduno di matti che si cala sulla Venosta. «Traktorclub» sta scritto accanto alle targhe. Comincia una conca desertica, gli ultimi venti tornanti li vedi tutti che van su a dente di sega. Anche l’albergo sul Passo par di toccarlo. Ma è una fatamorgana. Mancano ancora seicento metri di dislivello lunghi come una preghiera, in questa conca infuocata che moltiplica all’infinito l’urlo delle moto. Vento di quota, gorgoglio di una fontana, l’ultima. E' piena di ciclisti che riempiono le borracce, si studiano tra loro un po' narcisi. Praterie di fiori microscopici giallo, blu, viola. Farfalle nere punteggiate di rosso. Ormai non è una salita, è un’Ascensione. Un’Assunzione in cielo. L’aria è fina, entri come in tranche. I tornanti si avvitano sopra la testa, altri precipitano in basso. Dall’alto vedi le formichine che vanno, una per una. Un velodromo verticale. Il cielo diventa striato, è l’ultimo curvone, mancano solo cinquecento metri. L’odore di polenta taragna dai ristoranti del Passo ci dice che è fatta. In cima, un traffico boia. Niente tempo per il raccoglimento, niente capellino sul monumento a Coppi. Solo la fuga senza gloria verso un piatto di pizzoccheri.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …