Paolo Rumiz: Sulle orme dei cosacchi
27 Agosto 2003
PIANO D’ARTA - Il fulmine arriva e Cristo squarcia le tenebre, mi cade quasi addosso, urla, digrigna i denti, gesticola, gronda di pioggia. Succede sui monti di Tolmezzo, mentre vago in cerca di un letto. Un Cristo ligneo spaventevole, in grandezza naturale, crocefisso sulla parete di un maneggio. Busso. Mi apre il capo del ranch, Massimo. Un adulto simpatico, barbuto come un talibano, due belle figlie, la moglie al bancone. Ride, dice che c’è una stanza libera. Poi mi indica il tetto di casa, oltre la pioggia. Sopra il Cristo, i lampi illuminano anche un diavolo di legno, messo lì a far la guardia. Ma il Cristo fa molto più paura. Non lo voleva nemmeno il prete quel crocifisso. I bambini piangevano a vederlo. «Così lo hanno buttato via - racconta Max - e io me lo sono preso». Ecco, la Carnia è tutta in quel Cristo che urla, in quel dolore terreno e indicibile. Piove, a cena è tempo di storie. E le storie non mancano sulla via Julia Augusta, che i romani costruirono per collegarsi alle valli della Drava. Massimo racconta, davanti a «une sgnapute», la grappetta di qui. Per questa strada scesero i Templari, si stabilirono in una radura che ancora si chiama Algeri, in memoria dei cristiani liberati di quella città. Ma i cavalieri non si misero quieti. Decisero di «liberare» anche i valligiani della Carnia. In cambio, si scopavano le ragazze prima del matrimonio. E tante, per paura, scapparono nei boschi. Di qui, nel '45, passarono i nazisti in ritirata. Ma passarono, soprattutto, i cosacchi sconfitti, cui Hitler aveva promesso il Friuli. Una leggenda. Tornarono con cavalli e dromedari, donne, vecchi, bambini, maestri, medici, veterinari e maniscalchi. Quando partirono, la puzza d’aglio rimase per mesi. E quando in Austria i tedeschi li tradirono, loro, per non consegnarsi ai sovietici, si suicidarono buttandosi nella Drava con gli animali. La notte, con la pioggia, li senti ancora passare. Forse per questo, Massimo ha tanta passione per i cavalli. è campione europeo di trekking equestre e organizza galoppate da una parte all’altra del confine, sulle stesse strade dei cosacchi. Ha anche un cavallo che è nipote delle loro bestie. Al mattino mi sveglia Ulderica Da Pozzo, una brava fotografa che conosce ogni sentiero. C’è un bel sole, si va su alti per malghe. Giusto, la Carnia di fondovalle è un non-senso, un buco senza luce, sfigato e alluvionato. La vita, il sole, le storie, i pascoli, le pievi, i villaggi, stanno tutti in quota. «Per capire - dice la guida e albergatore Sergio De Infanti - devi andare lassù. In posti come Pradumbli, un paese di anarchici dove ogni casa è una biblioteca. O alla Casa delle cento finestre, dove abitavano i signorotti della Val Degano». A casa sua Ulderica è felice, e quando è felice parla in carnico stretto. Capisco la metà, ma fa niente. I posti vanno chiamati nella loro lingua. Qui non puoi dire «fieno». Devi dire «penc», ha più profumo. E il fieno che rimane sul prato dopo il passaggio del rastrello, ha un nome bellissimo. «Clar». La jeep si arrampica tra i boschi verso una valle dimenticata, quella di Lauco. Si va lassù a conoscere una di fondovalle che ha scelto di mollare lavoro e amici per sposare un montanaro. Una storia di resistenza, nel grande massacro dell’Alpe italiana. Ulderica lo sa. Sono le donne l’anima della Carnia. Lavorano più degli uomini. Nella Grande Guerra salivano a rifornire la prima linea con le gerle cariche di cibo. E quando gli uomini partivano per la Germania a fare i capomastri, loro li accompagnavano in Austria col bagaglio, fino a una cappelletta che ancora si chiama «Madonna del saltut». Laddove saltut è lo scatto della monta, l’ultimo amplesso prima della lontananza. Tagliamo a mezzacosta la Carnia maledetta e socialista, «senza Dio e senza Madonna», come dicono i preti di pianura. Posti, talvolta, di faide e abigeato. Correva il detto: «Lauc, Trava e Vinai, un galantom no se cjata mai». A Vinai, raccontano, fecero fuori con una fucilata dal campanile uno che aveva sgarrato. Prima lo ubriacarono, poi una donna lo fece ballare, e alla fine l’orchestrina suonò il «De Profundis». Tutti capirono, tranne lui. Ma è roba d’altri tempi. Oggi, racconta Mido Martinis di Ampezzo, vince Forza Italia, si stuprano le vecchie malghe con inox e piastrelle miliardarie. Tutti scappano a valle, in quota non sfalcia più nessuno. E Vinai è scesa da 850 a 48 abitanti. La Regina abita dove l’asfalto finisce. Si chiama Donata, e ci apre la porta con un sorriso radioso. Una bellezza carica di energia. «Un femenon», direbbero da queste parti. Una foresta di capelli neri raccolti sulla nuca con un fermaglio rosso, due occhi accesi che ridono e una voce che canta. Il marito è silenzioso e schivo, saluta appena e torna a segar legna. Lei no, ha voglia di parlare. Di dire la sua passione per questo posto, per i suoi animali «che sono meglio degli uomini», capaci solo di invidie. Eppure, per quegli animali deve alzarsi alle quattro, a mungere e spalar letame. Lei, che a vent’anni lavorava in banca. Al calduccio. Donata la bella sa fare tutto. Macellare il «Purcit» e anche la mucca. Far salame e formaggio. Tagliare il bosco con la motosega e far nascere vitelli. Fare la flebo agli animali malati e il beverone per la mucca che partorisce. Falciare i prati e rinforzare le travi della vecchia malga, lassù a Triscjamps. Ride: «Se qualcuno ha voglia di sgobbare, la mia porta è aperta». Ma pochi, a valle, sanno dov’è quel piccolo paradiso. E forse è meglio così.
Paolo Rumiz
Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …