Addio a Said, voce della Palestina censurata dagli integralisti
26 Settembre 2003
Il suo cruccio maggiore era che parlava per gli arabi, difendeva la causa
palestinese, si presentava come il portavoce della sua gente negli Stati Uniti,
ma larga parte dei suoi libri proprio nel mondo arabo venivano censurati,
vietati, ostracizzati. Paradosso dei paradossi, Edward Said, il palestinese,
l'intellettuale arabo che ai tempi dell'accordo di Oslo nel 1993 accusava Arafat
di "svendere la causa palestinese, sino a diventare collaborazionista con
l'esercito israeliano", era più ascoltato dall'intellighenzia della
sinistra ebraica a New York, che tra gli studenti palestinesi dell'università
di Bir Zeit, la più importante in Cisgiordania.
La sua morte a sessantasette anni avvenuta ieri, dopo una lotta decennale contro il cancro di cui lui parlava spesso e volentieri, lascia un vuoto palpabile tra le voci più interessanti e contraddittorie che negli ultimi trent’anni ci hanno raccontato il conflitto arabo-israeliano. "Ma guarda che scandalo", diceva in un'intervista al "Corriere" qualche anno fa durante una delle sue rare visite a Gerusalemme, "i miei libri sono in vetrina nella parte ebraica della città, ma non nelle librerie della Cisgiordania. Arafat li ha fatti sequestrare. Un libraio di Gaza mi ha detto che hanno portato via settantadue copie del mio libro di saggi critici del processo di pace, e non lo hanno neppure indennizzato".
Forse perché era un arabo cristiano, minoranza scomoda in questo Medio Oriente sempre più patria dei fondamentalismi islamici. Oppure perché era un arabo ormai abituato a ragionare con i canoni critici maturati nelle migliori università americane.
Sta di fatto che Edward Said era davvero un intellettuale scomodo. Nella sua autobiografia, pubblicata quattro anni fa, ci racconta la sua breve infanzia a Gerusalemme, dove era nato nel 1936 da una famiglia dell'alta borghesia palestinese cristiana. Il padre Wadie (Guglielmo), della piccola comunità anglicana della Città Vecchia, aveva sposato nel 1932 Hilda Musa, che proveniva dalla ancora più minoritaria comunità battista di Nazareth. A Gerusalemme ci restano sino al 1947, abbastanza per assistere all'intensificarsi della guerra tra arabi ed ebrei. Poi, come tante altre famiglie dell'alta borghesia palestinese, si spostano al Cairo, dove Said frequenta le scuole migliori.
Poco dopo la nascita dello Stato di Israele, viene mandato a perfezionarsi negli Stati Uniti. Studia musica, diventa un ottimo pianista, letteratura, resta nel mondo accademico, sino a diventare professore di letteratura comparata alla Columbia University di New York. Sono presto celebri i suoi saggi di musicologia. Ma la fama internazionale arriva nel 1978, quando pubblica Orientalismo : una accusa serrata contro i pregiudizi attraverso i quali i media e il mondo intellettuale occidentale guardano agli arabi.
Il saggio diventerà un best-seller dieci anni dopo, quando lo scoppio della prima intifada nei territori occupati rilancia con drammaticità l'attenzione sulla questione palestinese.
Da allora Said è sempre in prima linea. Parla inglese meglio che l'arabo e soprattutto parla la stessa lingua dell'intellighenzia occidentale. I suoi saggi diventano il contraltare delle mille voci che parteggiano per Israele.
Il suo status di intellettuale della diaspora lo rende ben accetto tra i circoli della sinistra ebraica negli Stati Uniti. Ma non può sopportare le dittature, il fondamentalismo islamico, il clima oppressivo che regna nei paesi arabi. Said è un laico, può capire la rabbia dei kamikaze di Hamas, il loro nazionalismo e le frustrazioni per l’occupazione israeliana, ma non la jihad (la guerra santa) e il fanatismo religioso.
Così quando nella prima metà degli anni Novanta critica il processo di pace, lo fa riprendendo la tesi dei partiti comunisti ebraico e palestinese (dove guarda caso militavano molti arabi cristiani) che propagandavano la necessità di uno Stato binazionale. "Arabi ed ebrei possono convivere assieme in uno stesso Stato. In ogni caso la crescita delle colonie ebraiche nei territori occupati rende impossibile la separazione", continua a ripetere.
Lo fa sino all'ultimo, anche durante questa seconda intifada, senza mai abbandonare le sue riserve per Arafat e la paura per Sharon. E muore lontano, negli Stati Uniti, dove aveva sempre vissuto.
La sua morte a sessantasette anni avvenuta ieri, dopo una lotta decennale contro il cancro di cui lui parlava spesso e volentieri, lascia un vuoto palpabile tra le voci più interessanti e contraddittorie che negli ultimi trent’anni ci hanno raccontato il conflitto arabo-israeliano. "Ma guarda che scandalo", diceva in un'intervista al "Corriere" qualche anno fa durante una delle sue rare visite a Gerusalemme, "i miei libri sono in vetrina nella parte ebraica della città, ma non nelle librerie della Cisgiordania. Arafat li ha fatti sequestrare. Un libraio di Gaza mi ha detto che hanno portato via settantadue copie del mio libro di saggi critici del processo di pace, e non lo hanno neppure indennizzato".
Forse perché era un arabo cristiano, minoranza scomoda in questo Medio Oriente sempre più patria dei fondamentalismi islamici. Oppure perché era un arabo ormai abituato a ragionare con i canoni critici maturati nelle migliori università americane.
Sta di fatto che Edward Said era davvero un intellettuale scomodo. Nella sua autobiografia, pubblicata quattro anni fa, ci racconta la sua breve infanzia a Gerusalemme, dove era nato nel 1936 da una famiglia dell'alta borghesia palestinese cristiana. Il padre Wadie (Guglielmo), della piccola comunità anglicana della Città Vecchia, aveva sposato nel 1932 Hilda Musa, che proveniva dalla ancora più minoritaria comunità battista di Nazareth. A Gerusalemme ci restano sino al 1947, abbastanza per assistere all'intensificarsi della guerra tra arabi ed ebrei. Poi, come tante altre famiglie dell'alta borghesia palestinese, si spostano al Cairo, dove Said frequenta le scuole migliori.
Poco dopo la nascita dello Stato di Israele, viene mandato a perfezionarsi negli Stati Uniti. Studia musica, diventa un ottimo pianista, letteratura, resta nel mondo accademico, sino a diventare professore di letteratura comparata alla Columbia University di New York. Sono presto celebri i suoi saggi di musicologia. Ma la fama internazionale arriva nel 1978, quando pubblica Orientalismo : una accusa serrata contro i pregiudizi attraverso i quali i media e il mondo intellettuale occidentale guardano agli arabi.
Il saggio diventerà un best-seller dieci anni dopo, quando lo scoppio della prima intifada nei territori occupati rilancia con drammaticità l'attenzione sulla questione palestinese.
Da allora Said è sempre in prima linea. Parla inglese meglio che l'arabo e soprattutto parla la stessa lingua dell'intellighenzia occidentale. I suoi saggi diventano il contraltare delle mille voci che parteggiano per Israele.
Il suo status di intellettuale della diaspora lo rende ben accetto tra i circoli della sinistra ebraica negli Stati Uniti. Ma non può sopportare le dittature, il fondamentalismo islamico, il clima oppressivo che regna nei paesi arabi. Said è un laico, può capire la rabbia dei kamikaze di Hamas, il loro nazionalismo e le frustrazioni per l’occupazione israeliana, ma non la jihad (la guerra santa) e il fanatismo religioso.
Così quando nella prima metà degli anni Novanta critica il processo di pace, lo fa riprendendo la tesi dei partiti comunisti ebraico e palestinese (dove guarda caso militavano molti arabi cristiani) che propagandavano la necessità di uno Stato binazionale. "Arabi ed ebrei possono convivere assieme in uno stesso Stato. In ogni caso la crescita delle colonie ebraiche nei territori occupati rende impossibile la separazione", continua a ripetere.
Lo fa sino all'ultimo, anche durante questa seconda intifada, senza mai abbandonare le sue riserve per Arafat e la paura per Sharon. E muore lontano, negli Stati Uniti, dove aveva sempre vissuto.
Edward W. Said
Edward W. Said è nato nel 1935 a Gerusalemme ed è morto a New York il 25 settembre 2003. Esiliato da adolescente in Egitto e poi negli Stati Uniti, è …