J.G. Ballard, un profeta nel suo cottage
26 Settembre 2003
Shepperton, la cittadina nei sobborghi londinesi dove vive J.G. Ballard,
sembra un set cinematografico. I celebri studi di ripresa non si trovano molto
lontano, proprio di fianco all’aeroporto di Heathrow. La casa di Ballard si
trova dietro alla stazione, in una strada dove le case sono disposte in fila,
come nel viale centrale di Disneyland. Ci manca solo Topolino lì pronto ad
accogliervi
Nel suo adattamento di Crash, David Cronenberg aveva trasposto perfettamente l’universo futurista immaginato da Ballard, percepito come una no man’s land dove macchine e case sembravano essere concepite soprattutto per non turbare lo sguardo.
Questo futuro era agevolmente adattabile al grande schermo.
Uno sguardo verso il cottage di Ballard, un altro verso la sua auto ammaccata parcheggiata davanti alla porta, e si comprende che gli sarebbe bastato restare a casa per leggere nel futuro.
"Sono incline a pensare," scrive Ballard all’inizio de La mostra delle atrocità "che mi sono trasferito a Shepperton trent’anni fa sapendo incoscientemente che un giorno avrei scritto un romanzo sulle mie avventure ai tempi della guerra di Shangai, e che avrebbero potuto girarne le scene in questi stessi studi. Le nostre vite sono attraversate da profonde determinazioni: non ci sono coincidenze."
La casa di Ballard all’interno è come una matrioska. L’entrata è spaziosa, ma la stanza dove l’autore vi invita con la promessa di un bicchiere di vino bianco somiglia a una camera di decompressione, con un falso Delvaux dipinto da uno sconosciuto a partire da una tela del pittore belga distrutta a Londra durante la seconda guerra mondiale.
In fondo alla stanza si intravede una porticina in legno. Si tratta del terzo girone della casa di Ballard, delle segrete di Shepperton? La sensazione di claustrofobia è tangibile. Ed essa era già presente in uno dei primi romanzi dello scrittore, The Concentration City, faticosa visione di una città senza limiti dove il cittadino gira sempre in tondo senza alcuna possibilità di uscita. E tale sensazione è ancor più presente in La mostra delle atrocità, libro-saggio iniziato nel 1966, e completato e dato alle stampe solo negli anni novanta.
Questa summa gigantesca, a lungo rimasta allo stato di work in progress, è consacrata alle turpitudini della nostra civiltà, e agli stati d’animo provati da Ballard, testimone di un’epoca in cui non si ritrova più.
Nel suo La mostra delle atrocità, il protagonista principale, un medico in preda alla depressione nervosa il cui nome - Tallis, Talbot o Traven - cambia con il susseguirsi delle pagine, si evolve in un universo totalmente fermo poiché si rivela una proiezione della nostra psiche.
È prigioniero del suo stesso cervello.
"La morte dello stato affettivo è uno dei fatti salienti della nostra epoca. L’emozione, che una volta era un fattore di coesione, è ora scomparsa dalle relazioni umane.
Abbiamo visto così tante cose spaventose alla televisione il timore di una guerra nucleare ci ha reso meno sentimentali. Noi abbiamo una cultura dell’entertainment, guidata dal consumismo, e non possiamo certo trovare soddisfazione in quest’ultima."
L’assassinio di JFK
Al momento della sua pubblicazione, La mostra delle atrocità era evidentemente un sasso lanciato nello stagno. La sua struttura frammentata, senza un vero e proprio filo conduttore narrativo, rinviava, come riconosce Ballard stesso, al movimento del lettrisme o alle esperienze dell’Oulipo.
"Le persone hanno trovato il libro difficile da leggere. Ma bisogna aprire una pagina a caso, scegliere un paragrafo, leggere quello di fianco, e lasciare che il libro si organizzi secondo i propri desideri."
Ed è questo stesso desiderio a porre dei problemi ne La mostra delle atrocità. Nel futuro previsto da Ballard, gli individui, alla ricerca di sensazioni sempre più forti, guardano con tutta serenità dei reportage sul Biafra e sul Vietnam, o delle immagini di reali incidenti d’auto.
Talbot letteralmente evolve all’interno di un universo di fantascienza, poiché l’alleanza della scienza e della finzione crea un’alterazione del reale.
"Ho cominciato a scrivere nel 1966, e ho continuato nel 1969. La mia ispirazione principale era l’assassinio di John F. Kennedy. La televisione cominciava a cambiare la visione del mondo, e abbiamo praticamente assistito in diretta al suo assassinio, e poi a quello di Lee Harvey Oswald. Nello stesso modo abbiamo potuto vedere delle immagini spaventose della guerra in Vietnam, che non è stata censurata come invece è stata la guerra del Golfo. In quel momento ho avuto l’impressione che stavamo perdendo il nostro senso della continuità. Si vedeva un reportage sulla guerra in Vietnam, poi una trasmissione comica, e infine un documentario sulla moda, il tutto inframmezzato dalla pubblicità. Diventava impossibile sapere. Niente era vero, e nello stesso tempo niente era falso. La mostra delle atrocità è un tentativo di trovare la verità. La politica era diventata un annesso dello showbusiness dopo Kennedy. E c’erano delle risonanze strane tra la corsa allo spazio e la cultura della droga, tra la politica e lo spettacolo. Il mio personaggio riassume ciò che stava accadendo. Un medico, nella nostra società, è proprio colui che è tenuto a verificare il nostro stato mentale. Oppure, è il primo che comincia a deragliare."
La cultura della celebrità, la frontiera sempre più fluida tra la finzione e la realtà, la nascita di un totalitarismo dolce e amichevole (simboleggiato nel libro dall’irruzione di Ronald Reagan, all’epoca governatore della California e immagine dell’alleanza tra la politica e il marketing), sono delle ipotesi già note, denunciate con impressionante intensità nel romanzo La mostra delle atrocità.
La posizione di Ballard nei confronti del suo libro è sorprendente. Letto oggi, La mostra delle atrocità non appare tanto un testo profetico, quanto invece un tuffo nostalgico in un passato compiuto, della stessa stirpe dello sconvolgente Impero dei sensi, il racconto della sua infanzia in Cina durante la seconda guerra mondiale.
Dopo La mostra delle atrocità, a Ballard non resta che fermarsi e guardare la catastrofe.
Ed è quello che ha fatto, nel suo cottage a Shepperton.
Nel suo adattamento di Crash, David Cronenberg aveva trasposto perfettamente l’universo futurista immaginato da Ballard, percepito come una no man’s land dove macchine e case sembravano essere concepite soprattutto per non turbare lo sguardo.
Questo futuro era agevolmente adattabile al grande schermo.
Uno sguardo verso il cottage di Ballard, un altro verso la sua auto ammaccata parcheggiata davanti alla porta, e si comprende che gli sarebbe bastato restare a casa per leggere nel futuro.
"Sono incline a pensare," scrive Ballard all’inizio de La mostra delle atrocità "che mi sono trasferito a Shepperton trent’anni fa sapendo incoscientemente che un giorno avrei scritto un romanzo sulle mie avventure ai tempi della guerra di Shangai, e che avrebbero potuto girarne le scene in questi stessi studi. Le nostre vite sono attraversate da profonde determinazioni: non ci sono coincidenze."
La casa di Ballard all’interno è come una matrioska. L’entrata è spaziosa, ma la stanza dove l’autore vi invita con la promessa di un bicchiere di vino bianco somiglia a una camera di decompressione, con un falso Delvaux dipinto da uno sconosciuto a partire da una tela del pittore belga distrutta a Londra durante la seconda guerra mondiale.
In fondo alla stanza si intravede una porticina in legno. Si tratta del terzo girone della casa di Ballard, delle segrete di Shepperton? La sensazione di claustrofobia è tangibile. Ed essa era già presente in uno dei primi romanzi dello scrittore, The Concentration City, faticosa visione di una città senza limiti dove il cittadino gira sempre in tondo senza alcuna possibilità di uscita. E tale sensazione è ancor più presente in La mostra delle atrocità, libro-saggio iniziato nel 1966, e completato e dato alle stampe solo negli anni novanta.
Questa summa gigantesca, a lungo rimasta allo stato di work in progress, è consacrata alle turpitudini della nostra civiltà, e agli stati d’animo provati da Ballard, testimone di un’epoca in cui non si ritrova più.
Nel suo La mostra delle atrocità, il protagonista principale, un medico in preda alla depressione nervosa il cui nome - Tallis, Talbot o Traven - cambia con il susseguirsi delle pagine, si evolve in un universo totalmente fermo poiché si rivela una proiezione della nostra psiche.
È prigioniero del suo stesso cervello.
"La morte dello stato affettivo è uno dei fatti salienti della nostra epoca. L’emozione, che una volta era un fattore di coesione, è ora scomparsa dalle relazioni umane.
Abbiamo visto così tante cose spaventose alla televisione il timore di una guerra nucleare ci ha reso meno sentimentali. Noi abbiamo una cultura dell’entertainment, guidata dal consumismo, e non possiamo certo trovare soddisfazione in quest’ultima."
L’assassinio di JFK
Al momento della sua pubblicazione, La mostra delle atrocità era evidentemente un sasso lanciato nello stagno. La sua struttura frammentata, senza un vero e proprio filo conduttore narrativo, rinviava, come riconosce Ballard stesso, al movimento del lettrisme o alle esperienze dell’Oulipo.
"Le persone hanno trovato il libro difficile da leggere. Ma bisogna aprire una pagina a caso, scegliere un paragrafo, leggere quello di fianco, e lasciare che il libro si organizzi secondo i propri desideri."
Ed è questo stesso desiderio a porre dei problemi ne La mostra delle atrocità. Nel futuro previsto da Ballard, gli individui, alla ricerca di sensazioni sempre più forti, guardano con tutta serenità dei reportage sul Biafra e sul Vietnam, o delle immagini di reali incidenti d’auto.
Talbot letteralmente evolve all’interno di un universo di fantascienza, poiché l’alleanza della scienza e della finzione crea un’alterazione del reale.
"Ho cominciato a scrivere nel 1966, e ho continuato nel 1969. La mia ispirazione principale era l’assassinio di John F. Kennedy. La televisione cominciava a cambiare la visione del mondo, e abbiamo praticamente assistito in diretta al suo assassinio, e poi a quello di Lee Harvey Oswald. Nello stesso modo abbiamo potuto vedere delle immagini spaventose della guerra in Vietnam, che non è stata censurata come invece è stata la guerra del Golfo. In quel momento ho avuto l’impressione che stavamo perdendo il nostro senso della continuità. Si vedeva un reportage sulla guerra in Vietnam, poi una trasmissione comica, e infine un documentario sulla moda, il tutto inframmezzato dalla pubblicità. Diventava impossibile sapere. Niente era vero, e nello stesso tempo niente era falso. La mostra delle atrocità è un tentativo di trovare la verità. La politica era diventata un annesso dello showbusiness dopo Kennedy. E c’erano delle risonanze strane tra la corsa allo spazio e la cultura della droga, tra la politica e lo spettacolo. Il mio personaggio riassume ciò che stava accadendo. Un medico, nella nostra società, è proprio colui che è tenuto a verificare il nostro stato mentale. Oppure, è il primo che comincia a deragliare."
La cultura della celebrità, la frontiera sempre più fluida tra la finzione e la realtà, la nascita di un totalitarismo dolce e amichevole (simboleggiato nel libro dall’irruzione di Ronald Reagan, all’epoca governatore della California e immagine dell’alleanza tra la politica e il marketing), sono delle ipotesi già note, denunciate con impressionante intensità nel romanzo La mostra delle atrocità.
La posizione di Ballard nei confronti del suo libro è sorprendente. Letto oggi, La mostra delle atrocità non appare tanto un testo profetico, quanto invece un tuffo nostalgico in un passato compiuto, della stessa stirpe dello sconvolgente Impero dei sensi, il racconto della sua infanzia in Cina durante la seconda guerra mondiale.
Dopo La mostra delle atrocità, a Ballard non resta che fermarsi e guardare la catastrofe.
Ed è quello che ha fatto, nel suo cottage a Shepperton.
La mostra delle atrocità di J.G. Ballard
L'opera che ha consacrato Ballard autore di culto, formidabile visionario, profeta dei destini del mondo. Un'opera totale che fonde la forma del romanzo, le cadenze del saggio e uno straordinario apparato di note, ricco come un romanzo nel romanzo, come una lucida summa delle icone della contempora…