Umberto Galimberti: Non siamo padroni di dire ti amo
29 Settembre 2003
«Se io ti do il mio amore, che cosa ti sto dando di preciso? Chi è l' io
che sta facendo questa offerta? E chi, per inciso, sei tu?» si domanda lo
psicanalista americano Stephen Mitchell nel suo ultimo libro: L' amore può
durare?. La domanda non è retorica. Segna piuttosto un ribaltamento
radicale circa il modo di considerare l' amore, quasi sempre pensato come
qualcosa in possesso dell' io, qualcosa di cui l' io può disporre. Per questo
nessuno crede fino in fondo all' altro quando dice: «Io ti amo». Amore non è
una faccenda dell' io. L' ultimo a ricordarcelo, in ordine di tempo, è stato
Freud quando ha detto che «l' io non è padrone in casa propria», perché
inconsce sono le forze che determinano quelle che l' io considera sue scelte.
Prima di Freud queste cose le aveva dette Nietzsche, da cui Freud, su
suggerimento del suo amico Georg Groddeck, preleva il termine Es. Non "io
penso", ma "esso pensa". Che se l' io non è padrone dei suoi
pensieri come può essere padrone dei suoi amori? Ma prima di Freud e prima di
Nietzsche queste cose le aveva pensate Schopenhauer che Nietzsche considera suo
"educatore" e Freud suo "precursore". Per Schopenhauer in
ciascuno di noi confliggono due vite: quella della specie e quella dell'
individuo, che proprio nelle vicende d' amore trovano la loro contaminazione.
«Il soggetto del gran sogno della vita - scrive Schopenhauer - è in un certo
senso uno soltanto: la volontà di vivere». Questa volontà, che è irrazionale
perché non tende ad altro scopo se non alla propria perpetuazione, inganna i
singoli individui con le lusinghe d' amore. Questi credono di essere i soggetti
della loro vicenda erotica, in realtà sono solo strumenti che la specie
utilizza per la propria conservazione. Non siamo noi i soggetti della nostra
esperienza erotica, ma forze oscure e impersonali con cui la specie raggiunge i
suoi scopi. Ma prima di Freud, prima di Nietzsche, prima di Schopenhauer, queste
cose le aveva dette Platone che, nel Simposio, ci dà forse la lettura più
profonda che in Occidente sia mai stata fatta sulle cose d' amore. Scrive
Platone: «Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire che cosa
vogliono l' uno dall' altro. Non si può certo credere che solo per il commercio
dei piaceri carnali essi provano una passione così ardente a essere insieme. è
allora evidente che l' anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace di
dire, e perciò la esprime con vaghi presagi, come divinando da un fondo
enigmatico e buio». Guardando «le cose d' amore» o, come dice il testo greco
i ta aphrodisia, Platone ci chiede che cosa con esse l' anima riesce o non
riesce a dire. E dove il dire si interrompe e la regola non basta a portare la
parola a espressione si apre lo sfondo buio del presagio e dell' enigma. Amore
appartiene all' enigma e l' enigma alla follia. Nell' edificare il cosmo della
ragione, il solo che gli uomini possono abitare, Platone non chiude l' abisso
della follia, ma lo riconosce come minaccia e dono, come sede di parole
incontrollabili, come dimora degli dèi, perciò nel Fedro può dire: «I beni
più grandi ci vengono dalla follia naturalmente data per dono divino». E
ancora: «La follia dal Dio proveniente è assai più bella della saggezza d'
origine umana». Ma chi sono gli dèi? Sono gli abitanti di quel mondo che sta
prima dell' umana ragione e che offre alla ragione i contenuti da ordinare in
una produzione compiuta di senso. Di questo mondo ha conoscenza Socrate, che non
considera la ragione da lui inaugurata nella sola prospettiva dell' ordine a cui
contribuisce. Sa infatti da quale caos l' ha evocata, da quale abisso l' ha
chiamata fuori. Un giorno una donna ha insegnato a lui, che non sa niente,
quell' unica cosa che sa: la scienza delle cose d' amore. «Vi assicuro che di
nulla ho sapere, se non delle cose d' amore. Amore è un demone possente che sta
tra gli uomini e gli dèi». Dunque non una vicenda tra uomini, ma tra l' umano
e quello sfondo pre-umano abitato indifferentemente dagli animali e dagli dèi.
Proiezioni antropologiche di istinti e pulsioni che l' io razionale «patisce»
e perciò legge come «altro da sé». Gli dèi infatti sono dentro di noi e la
loro follia ci abita. Per questo l' amore di cui parla Socrate non ha la forma
di un sentimento umano, ma quella più inquietante della possessione (katokoché)
di un dio. L' entusiasmo che genera, lungi dall' essere un sentimento di
esuberanza o di particolare eccitazione, dice che l' uomo, in quella circostanza
è abitato da un dio, ha dentro di sé un dio (en-theos), per cui non è l' io
razionale a proferir parola, ma il dio che lo possiede. Quanto basta per farci
capire che, in presenza di amore, l' io razionale subisce una dislocazione (atopia,
dice Socrate in riferimento alla sua malattia) che dis-loca la nostra
riflessione, e ci obbliga a pensare a partire da amore, e non dall' io che
inaugura una storia d' amore. Amore, infatti, non è qualcosa di cui l' io
dispone, ma semmai è qualcosa che dispone dell' io, qualcosa che lo incrina,
che lo apre alla crisi, che lo toglie dal centro della sua egoità, dall' ordine
delle sue connessioni per nessi di tutt' altro genere e forma e qualità. Per
questo Socrate, a proposito delle cose d' amore, parla di possessione, di
katokoché. Figlio di povertà (penia), «Amore - riferisce Socrate - non è
affatto delicato e bello, come per lo più si crede; bensì duro, ispido,
scalzo, senza tetto; giace per terra sempre, e nulla possiede per coprirsi;
riposa dormendo sotto l' aperto cielo, nelle vie e presso le porte. Insomma
riferisce chiaramente la natura di sua madre, dimorando sempre insieme con
povertà». Ma Amore è anche figlio di Poros, la via, il passaggio, il guado. E
perciò concede alla follia che ci abita il suo transito. Questa, irrompendo
nell' ordine dei significati che l' io razionale ha costruito per espellerla,
produce quel controsenso che denuncia la maschera eretta sull' elusione della
follia. E qui la direzione del discorso si lascia intuire: Amore non è
godimento di corpi, Amore è molto di più. Occupando «il posto intermedio tra
l' uno e l' altro estremo», Amore si fa interprete (ermeneuei) tra la ragione
che l' uomo ha costruito e la follia che ancora lo abita. Non quindi un rapporto
tra uomini come si è soliti credere, ma tra la parte razionale dell' uomo e la
sua parte folle o divina. Ma che ne è dell' io e dell' altra parte di sé
quando Amore li accoglie? Che ne è dell' uomo e del dio quando Amore li
interpreta? Se Amore, come Socrate ce lo ha descritto, non è tanto un rapporto
con l' altro, quanto una relazione con l' altra parte di noi stessi, quindi un
cedimento dell' io per liberare in parte la follia che lo abita, Amore ha a che
fare con quei limiti ontologici che sono per l' esistenza la nascita e la morte.
Morte dell' io per dissoluzione dei suoi confini, sua rinascita in nuove
configurazioni. Questa oscillazione, che ogni atto d' amore porta con sé, ha
bisogno della presenza dell' altro come memoria della realtà che si lascia e
come possibilità di ritorno dal mondo estraneo a cui ci si è concessi nella
dissolvenza dell' io. L' avvinghiarsi al corpo dell' altro, prima di un
contatto, è dunque una presa. Per il solo fatto di esserci accanto, l' altro ci
concede di perderci nella nostra follia e di riprenderci. Assistendo al
cedimento del nostro io, con la sua presenza, come la levatrice durante il
parto, l' altro aiuta la nostra nascita. C' è infatti in Amore un' intenzione
generativa, dice Socrate: «Porta fuori quel fondo nascosto di cui ciascuno è
gravido ponendo fine alle doglie». Ma questo avviene dopo l' esperienza della
morte (di cui l' orgasmo è la simulazione) che ci strappa dalla nostra
ostinazione a veder durare quell' io che noi siamo. Se ci portiamo all' origine
possiamo ricostruire le parole e le scene, rivedere il contrasto tra uomini e
dèi, le ferite inferte e le cure concesse. «L' antica nostra natura non era la
medesima di oggi» riferisce Platone. In principio gli uomini erano l' uno e l'
altro (amphoteroi), la loro forma era circolare, il loro aspetto intero e
rotondo, «non generavano per reciproca unione, ma per unione con la terra». Un
giorno «Zeus, volendo castigare l' uomo senza distruggerlo lo tagliò in due».
Da allora «ciascuno di noi è il simbolo di un uomo», la metà che cerca l'
altra metà, il simbolo corrispondente. Per curare l' «antica ferita», Zeus,
dopo averla inflitta, inviò Amore «fra gli dèi l' amico degli uomini, il
medico, colui che riconduce all' antica condizione. Cercando di far uno ciò che
è due, Amore cerca di medicare l' umana natura». Da allora gli uomini si
congiungono tra loro e così generano, non più per unione con la terra, ma per
unione reciproca. Mediatore tra gli uomini e gli dèi, Amore interviene al
limite dell' umano, laddove il fondo non-storico, da cui la nostra storia ha
preso avvio, ancora ci possiede come follia rimossa. Chi tocca questa follia ci
affascina e ci induce a quel progressivo cedimento di noi stessi che rende
possibile la liberazione di quella follia di cui si contorna Amore, dove il
senso gioca col non-senso e dove non si dà nuova parola se non liberando a ogni
istante l' antica follia. Così Platone erge Amore a simbolo della condizione
dell' uomo «a cui però non è concesso distogliere l' occhio dal proprio
taglio». E questa è la ragione per cui Amore non è solo vicenda di corpi, ma
traccia di una lacerazione, e quindi incessante ricerca di quella pienezza, di
cui ogni amplesso è memoria, tentativo, sconfitta.
Umberto Galimberti
Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …