Alessandro Baricco: La Fenice che risorge copiando se stessa

23 Ottobre 2003
Avrei da raccontare una follia. Non che ne manchino, di follie, di questi tempi. Ma questa ha una sua eleganza impareggiabile e inoltre sembra più istruttiva di altre. Se il mondo ammattisce, che almeno lo faccia con charme e in modo utile.
Dunque. Com´è noto, il 29 gennaio del 1996 il teatro La Fenice, a Venezia, se ne sparì ingoiato da un incendio colossale. Fu un brutto colpo. Per chi ama l´Opera quella era una delle quattro, cinque sale più importanti del pianeta. E se ne era bruciata via come un cerino. Adesso sappiamo che fu un incendio doloso. La ditta di elettricisti che stava lavorando al nuovo sistema antincendio (pensa te) provocò l´incidente perché non era in grado di finire il lavoro entro una certa data e quello era un modo di rinviare la faccenda senza pagare una penale che li avrebbe rovinati. Va detto che probabilmente si immaginavano qualcosa di più piccolo, un incendietto circoscritto, una fiammatina. Gli andò male. Nessuno riuscì a fermarlo, e il teatro se ne andò in fumo, letteralmente.
A Venezia reagirono con compostezza. "Dov´era, com´era", decretarono, dando per scontato che dal giorno dopo si sarebbero messi lì a ricostruire. "Dov´era, com´era" era uno slogan inventato anni prima in una circostanza analoga: nel 1902 era collassato il campanile di San Marco (senza l´aiuto di elettricisti, aveva fatto tutto da sé: non ne poteva più) e si era aperto un dibattito su che fare. Risultato: ricostruirlo identico a prima e nello stesso posto. In quel caso, come d´altronde anche in quello della Fenice, la cosa sapeva di buon senso, e di veneto pragmatismo.
Magari per un attimo ti puoi sognare di chiamare un architetto giapponese e farti costruire qualcosa di avveniristico su un´isola artificiale in mezzo alla laguna. Ma poi è abbastanza ovvio che lasci perdere e cerchi solo di non fare troppi guasti. E la soluzione più logica è effettivamente rimettere tutto a posto come prima. Ha tutta l´aria di essere una soluzione di puro buon senso: mi ha affascinato scoprire come, invece, sia il lieto ingresso in una follia. Provo a spiegare.
Cosa davvero significhi "Com´era, dov´era", l´ho capito solo quando mi hanno invitato a fare un giro nel cantiere della ricostruzione. Il teatro riapre il 14 dicembre, quindi lì dentro erano al rettilineo finale. Muri, impianti, perfino i colori, erano già a posto. Stavano dandosi da fare sulle decorazioni. Sorvolo sull´emozione di rientrare in quella sala come se nel frattempo non fosse successo nulla: strano loop dell´anima. E invece non sorvolo sul fatto che a un certo punto mi son trovato in una sala di quelle tipo foyer, quelle in cui poi tu passi distrattamente con un bicchiere in mano, durante l´intervallo, cercando uno specchio per controllare se la cravatta ti è andata di traverso. Lì trovo due artigiani al lavoro. Stanno facendo le decorazioni di stucco, sulle pareti. Ghirigori e animali. Uccelli, per la precisione. Li stanno rifacendo: com´erano, dov´erano. Voglio dire che se avevano il becco verso sinistra lo rifanno con il becco a sinistra. Se la zampa era un po´ sollevata, fanno la zampa sollevata. È importante chiarire che, stando alla realtà dei fatti, uno può andare a teatro per anni, in quel teatro, e quegli uccelli non li vedrà mai: non si accorge che esistono, sono decorazioni che non ti entrano mai nella retina e nella memoria. A meno che qualcuno non ti prenda il cranio e te lo spacchi sbattendolo proprio contro quegli uccelli, tu gli uccelli non li vedrai mai. Ma loro li rifanno uguali. Com´erano, dov´erano.
Naturalmente finisci per chiederti come lo sanno, dov´erano e com´erano. Fotografie. Solo che, è ovvio, nessuno si era mai preso la briga di fotografare proprio gli uccelli, sarebbe stato come fare un ritratto a Marylin Monroe fotografandole un´unghia dei piedi laccata. Quindi le foto, quando va bene, riportano l´intera stanza, e tu, con la lente vai a cercare se quell´uccello, là, in quell´angolo, ha la zampa su o giù. E se la foto non c´è? Chiedere a chi era passato da lì è inutile. Uccelli? Quali uccelli? Allora puoi leggere ciò che l´incendio ha lasciato: un´ombra, un rimasuglio annerito, una scheggia. Quella mattina, quando son finito in quella stanza, lo stuccatore capo (un genio, nel suo) aveva appena finito di leggere detriti del genere, riuscendo a dedurre, da un´ombra lasciata dalle fiamme, che gli uccelli di quel pannello erano falchi, deduzione fatta a partire dalle dimensioni delle zampe, zampe robuste, da rapace. Non c´è foto, il fuoco s´è mangiato tutto, ma lui adesso è lì che fa un becco da falco, com´era e dov´era, perché un´ombra di una zampa gli ha svelato il segreto.
Allora uno sarà portato a credere che quegli uccelli abbiano, in qualche modo, un valore artistico unico, che va salvato. Posso dire in tutta tranquillità che non è così. In sè e per sè quegli uccelli hanno il valore artistico degli inserti in radica che trovate sui cruscotti delle macchine. Decorazioni. E nemmeno geniali, o rivoluzionarie o in qualsiasi modo significative. Volete sapere tutta la verità? Gli uccelli bruciati con la Fenice erano già, a loro volta, delle copie. E´ una storia assurda, ma è vera. L´ultima volta che ricostruirono la Fenice, nel 1854, dopo l´ennesimo incendio, l´idea che ebbero fu di costruire un teatro settecentesco, cento anni dopo. Una cosa da Las Vegas. Presero un teatro settecentesco e lo copiarono. Per cui, a voler essere precisi, quella mattina, quell´artigiano, sotto i miei occhi, stava facendo la copia di un uccello che era una scopiazzatura di un uccello che, lui sì, era un originale, almeno 200 anni fa. E´ lì che ho sentito arrivare il profumo di follia.
Quando mi son reso conto che più o meno la stessa storia degli uccelli valeva per le lampade, per le pitture, per gli specchi, per i pavimenti e per tutto, ho capito che stavo girando non in un teatro, ma in un racconto di Borges. Con cura maniacale, alcuni geniali umani spendevano un numero di ore spaventoso usando un sapere tecnico affinato per secoli, con l´unico scopo di raggiungere un obbiettivo apparentemente folle. Ce n´era abbastanza per indagare. Ed è lì che son finito al reparto dorature.
La cose stanno così: se volete dorare qualcosa potete immergerlo in un bagno d´oro ed è quello che fanno a Las Vegas. Oppure volete farlo esattamente come lo facevano nel 1854: e allora quel che usate sono impalpabili fogli d´oro grandi come sottobirra: uno ad uno, per ore, li lasciate cadere sulla superficie che volete dorare. Provate a immaginare di dorare così la vostra vasca da bagno: un´eternità. Beh: quelli hanno dorato la Fenice. Allora ho pensato che quel gesto era davvero un gesto che volevo gustarmi tutto, dall´inizio alla fine. E ho chiesto: ma chi fa questi fogli d´oro? Una settimana dopo ero da Giusto Manetti.
Giusto Manetti non c´è più ma era uno che nel 1820 si mise a fare oro in foglia. A Firenze. Dopo cinque generazioni sono ancora lì, con lo stesso cognome e un sapere affinato nel tempo fino alla perfezione. Praticamente se il gioco è quello di ridurre un lingotto d´oro a un fogliettino leggero come una zanzara, loro in quel gioco sono i migliori del pianeta. C´è un tedesco che non se la cava male, ma insomma, i migliori sono loro. Sono andato nei loro laboratori perché nelle miniere d´oro non sono riuscito ad andare: ma l´idea era di ricostruire una follia dall´inizio alla fine. Come un viaggio. Pronti a partire? Dunque: la miniera purtroppo dovete solo immaginarvela. ma immaginatevela (Russia o Sudafrica). Poi trasferitevi dai Manetti, Firenze, Italy. Crogiuolo con dentro, a friggere, una lega di oro argento e rame: le proporzioni sono, ovviamente, risultato di decenni di esperimenti. Idem per i tempi di fusione e perfino per il tempo che ci deve mettere l´uomo a versare l´oro fuso nello stampo che lo aspetta. Versare. Raffreddare. Sfrigolio. Lingottino, spesso un centimetro, grande come una tavoletta di cioccolato. Lo fanno passare sotto un rullo. Il lingotto passa, una volta, due, dieci, e ogni volta perde un nulla in spessore e guadagna in lunghezza. Alla fine avete una striscia d´oro lunga metri e spessa come una carta di credito. La tagliano in tanti quadratini. Poi prendono ogni quadratino e iniziano a martellarlo: cinque colpi e poi lo giri, altri cinque colpi e poi lo giri, e via così. Adesso lo fa una macchina, ma quelli che la fanno funzionare sono gli stessi che ancora pochi anni fa lo facevano a mano. Cinque colpi e giri, cinque colpi e giri, e così via. Ci vuole una pazienza bestiale, ma alla fine il quadratino diventa un quadrato grosso come un sottobirra. Soprattutto: è sottile come un nulla. Allora li controllano uno ad uno, li rifilano, buttano quelli venuti male, e quelli buoni li portano in una stanza dove quattro signore li prendono uno ad uno, con una pinza di legno, e li stendono su un foglietto di carta: sono così sottili che per distenderli bene le donne ci soffiano su: li toccassero con le mani rovinerebbero tutto. L´ultima signora confeziona i "libretti", cioè 25 fogli d´oro rilegati insieme. Sulla carta del pacchetto ci sono le solite medaglie da Esposizione Universale. E, scritto grande: Giusto Manetti, Firenze. Tempo passato per convertire un lingotto in un foglietto: 10 ore, più 183 anni a fare la stessa cosa fino a non sbagliare più.
Treno. Traghetto. Venezia. Fenice. State seguendo? Gente che ha studiato per anni quel gesto prende il libretto di fogli d´oro, lo apre, prende un foglietto, lo appoggia su un cuscino di pelle scamosciata, lo taglia in quadratini grandi come francobolli, li solleva con un pennello speciale e finalmente li applica ai mancorrenti di una ringhiera, dorandola. Guardate la ringhiera. Luccicante d´oro. Ecco, appunto: troppo luccicante. E´ chiaro che non luccicava così una doratura che aveva 150 anni, quel giorno prima di bruciare non luccicava così. "Com´era e dov´era": quindi la opacizzano. A mano, con un´arte umile e sublime, raschiano via l´oro in alcuni punti, facendo venir fuori il bolo che c´è sotto, un collante rossastro. Poi spennellano altre colle che tolgono ulteriormente il luccichio. E allora, solo allora, dopo tutto questo viaggio, dopo il lavoro di tutti quegli occhi e mani e memorie, dopo tutto quel sapere salvato dall´oblio di un mondo a cui non serve più, allora, finalmente, avete ottenuto quello che volevate: un pezzo di ringhiera "com´era e dov´era".
Mi spiace di averla fatta lunga, ma era necessario. Non basta guardare la ringhiere e pensare "Eh, chissà quanto tempo ci sarà voluto..." No. Bisogna ricostruire esattamente tutto quel tempo, e quel sapere, e quel gesto, per capire, davvero, cosa sta succedendo là dentro. Bisogna capire la ringhiera e poi, anche se è spaventoso, immaginare lo stesso processo per le lampade, i tessuti delle tappezzerie, i mosaici del pavimento, quelle due statuette là, i disegni del soffitto, gli uccelli di gesso, e via così, di decorazione in decorazione. Vertiginoso, no? Sommate tutto, e adesso sentite qui: quello è solo lo scrigno, i gioielli sono un´altra cosa. Tutto quell´immane lavoro è stato fatto solo per rendere elegante lo scrigno: i gioielli sono la musica, il canto, il suono degli strumenti: l´Opera. Gli uccelli di gesso sono l´unghia laccata di Marylin Monroe, e le dorature sono il la tazzina che aspetta il caffè, e i mosaici per terra sono le calze a rete che quella donna si toglierà quando vi amerà. Decorazioni, orpelli, belletti. Ma quando avete finito di farli, non è ancora successo niente. In certo senso avete prodotto il niente.
Bella follìa, no? Non è Borges?
Dopodiché ognuno può pensare cosa vuole. E decidere se tutto ciò è una follia o una cosa sublime. Posso dire cosa ne penso io? Quel che penso è che l´unico valore che avevano quegli uccelli e quelle ringhiere, prima di bruciare, era di essere là da un sacco di tempo. Ciò per cui erano preziosi erano i passi che li avevano sfiorati, le mani che vi si erano appoggiate, i suoni che ci erano scivolati sopra. Gli sguardi che non li avevano visti: perché in loro era impresso un mondo che non esiste più. Il loro valore era essere muti traghettatori tra noi e tutto quel passato, quel nostro passato. Una volta bruciati, quell´aura è persa per sempre. Capisco il dolore e l´istintiva reazione: ma rifarli non salva niente. E´ una cosa persa, e basta.
Detto questo, ho visto qualcosa, in quel cantiere, che mi ha fatto pensare. Mi è venuto in mente Valéry. Lui aveva una sorta di lancinante nostalgia per il mondo artigiano. Diceva che nel" paziente operare" degli artigiani ritrovava la prodezza di cui era capace la natura quando produceva una perla, o un frutto: "opera preziosa di una lunga serie di cause l´una simile all´altra". E già ai suoi tempi, poteva dire:"L´uomo odierno non coltiva più ciò che non si può semplificare o abbreviare. Tutte quelle produzioni di una fatica industriosa e tenace sono scomparse, ed è finito il tempo in cui il tempo non contava". Ecco. In quel cantiere, mentre vedevo quelli là, assurdi, che passavano giornate a dorare - dio mio, dorare - l´impressione che ho avuto era che non stessero salvando delle decorazioni ma un modo di pensare il mondo. Stavano restaurando un tempo in cui il tempo non contava. In cui l´adeguazione dei mezzi ai fini era una volgarità. In cui l´ottimizzazione di un sistema produttivo era una nevrosi inutile e inelegante. Un´altro mondo, se capite cosa voglio dire. L´unico mondo in cui puoi pensare di spendere giorni a fare un falco che nessuno, mai vedrà. Avete presente le decorazioni in punta alle guglie di un duomo gotico? Cose per gli occhi di dio.
E ho pensato che tutto sommato perfino la musica che daranno là dentro, non è poi molto differente dagli uccelli e dalle ringhiere. Pensate al tempo che c´è dietro a cinque minuti di Traviata. Quello che ha scelto il legno per gli strumenti, i macchinisti che manovrano le scene, quello che ha copiato la partitura di Verdi, quello che fa il suggeritore, quello che da sette generazioni fa costumi, e Violetta, naturalmente, e nella sua voce la sua maestra e la maestra della sua maestra, e così via, indietro per secoli. Che immane quantità di tempo, e sapere, e pazienza. Artigianato. La follia dell´artigianato. Così che quel teatro alla fine mi sembra un unico, compatto, meravigliosamente coerente ecosistema che, senza alcun pudore, ripropone una logica che non esiste più. E´ come un parco naturale, come l´ultima tana di una razza estinta.
Che piaccia o no, noi stiamo a mollo in una civiltà che ha fatto dell´adeguazione dei mezzi ai fini il proprio idolo. La nostra religione è attuare sistemi in cui ogni parte scarica energia nel prodotto finale, senza perdere per strada niente. Pensate alla catena di montaggio, simbolo vecchiotto ma pur sempre esatto: nulla va sprecato, nè uomini nè cose, nè gesti nè bulloni, nè tempo nè spazio. La follia della Fenice - come tante altre, per carità - sembra stare lì a ricordare che c´era anche un´altra possibilità, decaduta, ma un tempo reale. Sistemi che impiegano un´enormità di energia e tempo per produrre risultati sorprendentemente piccoli. Anni per fare una ringhiera. Sistemi che fanno acqua da tutte le parti, che perdono energia per strada, e che arrivano al momento buono completamente scarichi. Follie, secondo la nostra logica attuale. Ma se ci pensi: erano sistemi che sprigionavano il Senso ai lati e non all´arrivo. Se ricostruisci la storia della ringhiera capisci che la ringhiera è davvero poco, ma il mondo che per strada si è prodotto dal gesto che la faceva, è immenso. Lo vedete il modello di sviluppo diverso? Il tubo che perde porta poca acqua al rubinetto, ma innaffia tutto intorno, e lì nascono fiori, e bellezza, o grano, e vita.
Scusate la predica. Ma volevo cercare di spiegare. Per dire che quando entrerete là dentro, prima o poi, girate per bene e quando trovate gli uccelli di gesso, sul muro, fermatevi e guardateli. Non sono lì per farsi guardare, in verità, sono lì per non essere visti, ma voi guardateli lo stesso. Sono una follìa. E sono quel che resta di ciò che non siamo più.

Alessandro Baricco

Nato a Torino nel 1958, si laurea in Filosofia con una tesi in Estetica. L'amore per la musica e per la letteratura ispireranno sin dagli inizi la sua attività di …