Enrico Franceschini: Londra, il giorno di Dracula l' ultima speranza dei conservatori

14 Novembre 2003
Il partito conservatore ha un nuovo leader: il quarto in sei anni. Dopo John Major, William Hague e Duncan Smith, ora sarà Michael Howard a guidare la destra in Gran Bretagna. La previsione è che nemmeno lui durerà molto. I Tory, ironizza la stampa nazionale, sembrano specializzati nel regicidio: continuano a eliminare un capo dopo l' altro, nella speranza di trovare un' altra Thatcher o un Blair conservatore. Il neo-leader porta qualche novità rispetto a Duncan Smith, il suo spento, poco telegenico predecessore. Figlio di immigrati rumeni, è il primo ebreo a guidare uno dei grandi partiti britannici. Sua moglie, Sandra Paul, è un' affascinante ex-fotomodella che fece furore, ed ebbe altri tre mariti, nella swinging London degli anni Sessanta. Ma per essere l' uomo che dovrebbe dare ai conservatori un futuro, riportandoli a Downing Street, Howard ha un passato ingombrante. Membro dell' elitaria "mafia di Cambridge", dove si laureò in legge, a lungo ministro nei governi della Thatcher e di Major, ha sempre militato nella corrente più estrema del partito. Aveva fama di duro: «Il carcere funziona», era il suo motto da ministro degli Interni. Un suo vice gli appiccicò una fastidiosa etichetta: disse che Howard ha «un lato oscuro». Mettendo insieme i genitori della Transilvania, il carattere tenebroso, il suo sostegno a una impopolare tassa cancellata dai governi successivi, i tabloid lo hanno soprannominato "Dracula": nelle caricature lo ritraggono nei panni di un vampiro. In più, Howard ha 62 anni: età in cui è difficile simboleggiare il futuro, se il tuo avversario è un giovanile primo ministro cinquantenne. Consapevole dei propri limiti, lui cerca di rifarsi un' immagine: «Ho meditato sugli errori, sono cambiato, cambierò anche il partito», ha promesso ieri dopo la nomina, ottenuta convincendo i notabili dei Tory ad appoggiarlo. Ora Howard assicura che i conservatori rappresenteranno «tutti gli inglesi»: ovvero cercheranno voti al centro, il terreno su cui si vincono le elezioni. Ma per riuscirci, non basta volerlo. Pur riconoscendogli abilità oratoria ed esperienza, i commentatori predicono che sarà l' ennesimo leader "di transizione", al massimo capace di ottenere una sconfitta onorevole alle legislative del 2006. Del resto l' opinione dominante è che la crisi dei conservatori non dipenda tanto dall' uomo che li dirige, quanto dall' identità del partito. In teoria, la destra avrebbe un' occasione di riscatto: dopo sei anni e mezzo di governo Blair accusa un' inevitabile flessione, aggravata dalla guerra in Iraq, dall' inchiesta sul suicidio dello scienziato governativo David Kelly e perfino dal suo recente disturbo cardiaco. Ma i Tory restano prigionieri del fantasma della Thatcher, incapaci di entrare in sintonia con un paese profondamente cambiato negli ultimi vent' anni. I nemici di un tempo, il comunismo sovietico, i sindacati, la nazionalizzazione dell' economia, sono svaniti, e il partito non ha saputo trovare nuovi obiettivi. Era stato il "naturale partito di governo" per tre quarti del ventesimo secolo, perché pur rappresentando l' aristocrazia e la classe dirigente riusciva a incarnare un' ideale nazionale. Oggi ha un solo seggio in Scozia, nessuno in Galles, nessuno nelle grandi città dell' Inghilterra tranne Londra: è diventato il partito delle comunità rurali del sud, l' età media dei suoi membri è 65 anni. Qualcuno pronostica che prima o poi verrà sorpassato perfino dai liberaldemocratici, attualmente il terzo partito ai Comuni; il settimanale Newsweek ipotizza addirittura la "morte" dei Tory. «Abbiamo una sola alternativa, modernizzarci o morire», concorda Michael Portillo, capofila dell' ala liberale. Bisognerebbe insomma ripetere l' operazione compiuta con successo da Blair nel Labour: un rinnovamento radicale. Ma anziché affidarsi a chi poteva provarci, Portillo o un altro moderato come Kenneth Clarke, i conservatori hanno preferito puntare su Howard: un competent loser, un perdente di qualità, come lo definisce il Times.

Enrico Franceschini

Enrico Franceschini (Bologna, 1956), giornalista e scrittore, è da più di trent'anni corrispondente dall’estero per “la Repubblica”, per cui ha ricoperto le sedi di New York, Washington, Mosca, Gerusalemme e …