Irene Bignardi: Mary Ellen Mark, odissea in un'altra America

14 Novembre 2003
Ha la faccia bellissima e intensa di un capo indiano, o così almeno appare da un ritratto che le ha fatto Albert Watson, vestita di nero, lunghi capelli legati da un nodo e poi lasciati liberi sulle spalle. Ha un grande coraggio e una grande ostinazione. Ha alle spalle una importante storia di successi. Ha un grande talento. E molti critici. Come tutti quelli che hanno successo e talento. Si chiama Mary Ellen Mark, professione fotografa. Una professione che ha cominciato perché, dice, ha sempre pensato che sarebbe stato il suo modo di comunicare, di parlare, la cosa che voleva fare, assieme a viaggiare. E sono 35 anni che Mary Ellen fa queste due cose. Viaggia da quand'era una venticinquenne universitaria della middle class di Philadelphia: in Turchia, Grecia, Germania, Spagna, Inghilterra. Poi in India. Poi Roma. E ovviamente tutti i suoi Stati Uniti, nei luoghi meno noti, nelle loro pieghe più strane. E proprio i suoi reportage sugli Usa, 140 immagini, tra inediti e foto tratte dai maggiori lavori realizzati fino ad ora, sono raccolti nella grande retrospettiva, American Odissey, che aprirà il 6 novembre a Milano alla galleria Carla Sozzani (fino al 7 dicembre). Mary Ellen ha infatti iniziato ufficialmente il mestiere di fotografa con la gente di Central Park, il popolo di Times square, le manifestazioni politiche, i mediatori di matrimoni della 42esima strada. Era quello che la interessava e appassionava: le frange della società. E se quello che le dava da vivere era invece il fotogiornalismo patinato, le foto dai set hollywoodiani, lei le reinterpretava alla sua maniera: un misto di glamour e di documentazione, di ritratto e di reportage. Lo ha fatto per Arthur Penn sul set di Alice's Restaurant, ha continuato documentando per Look quello che combinava Fellini ("il mio regista preferito in assoluto") mentre girava Satyricon, poi le atmosfere di Conoscenza carnale o di Comma 22. E lo ha fatto sul set di un film che in qualche modo ha cambiato la sua vita. Perché quando chiese all'amico Milos Forman, per cui aveva fotografato il set di Taking Off, se poteva lavorare con lui per Qualcuno volò sul nido del cuculo, e lui le disse che sì, poteva, ma senza compenso, solo le spese pagate, perché non erano previsti soldi per quella voce, e lei accettò perché aveva sempre desiderato fare fotografie in un ospedale psichiatrico, l'esperienza "di finzione" del film si prolungò in un'esperienza reale. Durante la lavorazione della pellicola nell'Oregon State Mental Hospital, Mary Ellen divenne amica della direttrice, Dean Brook, che le fece fare un giro nel "Ward 81", il braccio di massima sicurezza, facendole conoscere le pazienti. L'esperienza la segnò, e due anni dopo decise di tornare a fotografarle, con il loro consenso. Il risultato è stato uno sconvolgente reportage sulla malattia mentale. Quello che l'interessa, ha detto Mary Ellen una volta, è "lasciare che la gente ti parli di se stessa nelle fotografie". Attraverso le sue immagini (e grazie ai giornali che le hanno pubblicate, da Life al New York Time Magazine, dal New Yorker a Rolling Stone a Vogue) Mary Ellen ha fatto parlare, dopo le pazienti del "Ward 81", Madre Teresa di Calcutta e quelli che la domenica passeggiano a Coney Island, bambini trascinati ai concorsi di bellezza nella profonda provincia americana e i membri del Ku Klux Clan nelle loro allegre scampagnate razziste, i circhi indiani, i bianchi poveri e le convention di gemelli, le prostitute di Falkland Road a Bombay e i cowboy dei rodei. "Tutto è soggetto in fotografia", ma "devi guardare soggettivamente, che il tuo soggetto sia un personaggio famoso o una famiglia nella sua automobile". In altre parole, la realtà è là. Ma ci vuole uno sguardo speciale e attento per rivelarla. E il suo sguardo è speciale, anche se qualche critico maldisposto preferisce vedere nelle sue foto, a seconda dei temi e dei soggetti, l'influenza di Robert Frank (per i suoi bianchi poveri), di Cartier Bresson (come lui ha fotografato la Guardia Civil), o di Diane Arbus nella sua documentazione degli esseri strani o sofferenti ai margini della normalità (D ha pubblicato la scorsa settimana un portfolio sugli inediti arbusiani ora in mostra a San Francisco, da cui risultano evidenti tanto le analogie quanto le differenze col lavoro di Mary Ellen Mark). In un certo senso, in tutti questi casi le si rivolge l'accusa di essere nata troppo tardi, nel '40, quando buona parte delle strade della fotografia erano già state percorse e il dominio della documentazione era passato dalla fotografia alla tv. Un osservatore naÏf (nel senso di non prevenuto) che veda le sue foto, percepisce invece subito l'empatia di chi, per farle, si muove verso i suoi soggetti, cerca di capirli, che siano le pazienti del "Ward 81", con cui Mary Ellen Mark ha passato trentasei giorni, o il popolo della gente dei circhi indiani, con cui ha trascorso sei mesi, viaggiando con sedici circhi diversi, o Tiny e Rat, i ragazzi di strada di Seattle (sulla loro storia il marito di Mary Ellen, Martin Bell, ha realizzato un documentario, Streetwise, che è stato candidato all'Oscar e che ha generato poi un bel film poco visto, American Heart, ed è Tiny, ora madre di otto figli, che Mary Ellen vorrebbe tornare a fotografare, per completarne la tormentata storia umana), o la famiglia Damm, che Mary Ellen ha seguito per molti anni in situazioni diverse e difficili. Ci sono le eccezioni, ovviamente, in materia di empatia. Difficile parlare di empatia con i membri del Ku Klux Klan. Lì ci vuole semmai del coraggio. Ma prendiamo i Damm. Mary Ellen ha dedicato loro due reportage, uno nell'87 e uno nel '94. Nel 1987 Linda e Dean, con i loro due figli Jesse e Cissy, erano appena stati buttati fuori da un ricovero per homeless. Ogni tanto, racconta Mary Ellen, stavano in un motel per un weekend, quando gli addetti dei servizi sociali riuscivano a organizzare l'ospitalità, ma per la maggior parte del tempo vivevano nella loro auto scassata. Sette anni dopo occupavano abusivamente una fattoria abbandonata. I due ragazzi grandi non andavano a scuola. C'erano due nuovi bimbi. Linda e Dean si facevano. Li ha ritrovati dopo sette anni, racconta Mary Ellen, perché aveva dato loro il suo numero di telefono, e loro la chiamavano "a carico" ogni tanto per raccontarle cosa succedeva. Linda Damm ricorda in un'intervista la generosità di Mary Ellen. "Coinvolta e coinvolgente", la definisce. È quello che si legge nelle sue foto, oltre a una straordinaria bravura tecnica tradotta in uno smagliante bianco e nero: che è accettata dai suoi soggetti, che c'è con loro un rapporto bidirezionale per il quale lei racconta la loro storia e il loro modo di essere e loro sono felici di lasciar capire e vedere la loro storia, la loro natura, la loro condizione. Storie, natura e condizioni che sono lì, sono dure, sono strane (come la straordinaria ultima serie dedicata ai gemelli), sono difficili, ma sono vere e si offrono all'obiettivo di chi sa riproporli all'attenzione degli altri.

Irene Bignardi

Irene Bignardi (1943) ha lavorato per il servizio cultura de “la Repubblica” fin dalla sua fondazione, e per lo stesso quotidiano è stata critica cinematografica; ha diretto il MystFest, ha …